Moderni nella realizzazione ma nostalgici nell’anima, nobiliari e dall’aspetto inconfondibile con la loro maniacale cura estetica: oggi come i videogiochi Vanillaware non c’è nulla, e proprio per questo attorno ad essi si è creata una nicchia di fedeli seguaci alla ricerca di emozioni differenti da ciò che offrono la maggior parte dei videogames odierni. In occasione dell’uscita di Odin Sphere Leifthrasir, nuova edizione del cassico del 2007, proviamo a fare una retrospettiva su questa compagnia formata da un manipolo di artisti e programmatori usciti da Atlus nei primi anni 2000, ma che tramite il suo fondatore, indiscussa mano e mente dello studio, affonda le sue radici ben più lontano.


George Kamitani (神谷 “Jouji” 盛治 “Kamitani”) passa la gioventù nei primi anni ottanta tra i film ricchi di effetti speciali e i primi videogames. In particolare The Black Onyx, gioco di ruolo del 1984 per NEC PC-8801, lo colpisce particolarmente, al punto da rimanere letteralmente catturato dal genere fantasy occidentale e dalle mitologie del Nord Europa. Abbandonato fin da subito il suo sogno di girare film, quando ancora frequenta il liceo George Kamitani riesce a trovare grazie ad un amico un lavoro part-time presso una società di videogiochi, lavorando per alcuni giochi Famicom e MSX (tra cui un videogioco di Dungeons & Dragons: Hillsfar), permettendogli così di fare subito esperienza, in particolare sul versante grafico, dicendo ai suoi genitori che quel lavoro l’avrebbe aiutato in matematica (gli adolescenti). Una volta laureato decide quindi di fare il grande passo, trasferendosi ad Osaka ed entrando nientemeno che in Capcom, in pieno boom di Street Fighter II.


Siamo nel 1992, e Kamitani ha la fortuna di lavorare insieme a grandissimi del calibro di Yoshiki Okamoto e Akira “Akiman” Yasuda, da cui impara le migliori tecniche del mestiere raffinando una certa attitudine nei confronti dei videogiochi 2D. Tra i giochi di quel periodo a cui collabora (come Saturday Night Slam Master) è in particolare Dungeons & Dragons: Tower of Doom ad avere un ruolo di rilievo nella carriera di George Kamitani, il fantasy di D&D che torna ciclicamente sulla sua strada e i giochi d’azione a scorrimento non abbandoneranno più il game designer negli anni a venire, che tuttavia decide di lasciare la Capcom a metà anni novanta, avvertendo il poco spazio a disposizione e la folta concorrenza di talenti che popolavano quei fin troppo prestigiosi studi. È però l’inizio di un periodo abbastanza travagliato per Kamitani, caratterizzato dal suo primo importante progetto, Princess Crown, sull’orlo della cancellazione ma salvato in extremis da Atlus.

Uscito per un Sega Saturn ormai sul viale del tramonto, Princess Crown viene ben accolto dalla critica senza però ricevere il successo sperato, rimanendo confinato al mercato giapponese. In Princess Crown è possibile però trovare buona parte degli elementi distintivi che vedremo nei successivi videogiochi di Kamitani, che confeziona uno strano ibrido action-RPG rigorosamente in due dimensioni, con questi sprites enormi e dettagliati a coprire buona parte dello schermo. I movimenti della protagonista Gradriel sono sinuosi ed eleganti, la Principessa guerriera si muove, si guarda intorno e mangia gli oggetti curativi con una straordinaria naturalezza, è qui si vede il tocco del designer e i suoi anni di esperienza con la grafica 2D, le animazioni della protagonista sono di una quantità strabiliante. Purtroppo, causa budget non molto alto, la stessa cura non viene riposta nei fondali, abbastanza piatti e ripetitivi, e nella colonna sonora non proprio memorabile, elementi che invece faranno grande Odin Sphere, gioco che da Princess Crown trae ispirazione in particolare per l’inventario e la gestione degli oggetti, molto simili.


L’insuccesso di Princess Crown è un duro colpo per la carriera di George Kamitani, che fatica a trovare una collocazione stabile a cavallo degli anni novanta e primi del 2000. Si trasferisce a Tokyo ed entra in Sony Computer Entertainment dove però non riesce ad avviare un suo progetto, non smettendo mai di guardarsi attorno. Trova lavoro come designer per un ambizioso MMO in sviluppo chiamato Fantasy Earth: The Ring of Dominion, rinominato successivamente Fantasy Earth Zero una volta passato sotto l’ala di Square Enix, che non si fece problemi a cancellare tutto il lavoro fatto in precedenza, esperienza che Kamitani considera la più stressante della sua carriera. Da allora il suo rapporto con la casa di Final Fantasy non è tra i migliori, per usare un eufemismo. La parentesi Fantasy Earth però non è stata inutile, lì ha infatti conosciuto il compositore Hitoshi Sakimoto (FF Tactics, Vagrant Story) con cui instaurerà un sodalizio, e nel frattempo fonda nel 2002 una piccola compagnia con il nome di Puraguru, insieme ad altri due membri che avevano lavorato con lui a Princess Crown, ovvero Kentaro Ohnishi (programmatore) e Shigatake (artista), che possiamo considerare i padri fondatori di ciò che diventerà Vanillaware, due anni più tardi, con sede nel Kansai.

Il team si arricchisce di Takashi Nishii (altro reduce da Princess Cown) e altri 5 membri provenienti da Fantasy Earth Zero; Kamitani è finalmente libero di tornare a dirigere un suo progetto, più ambizioso che mai e avente come scenario la sua amata mitologia norrena: Odin Sphere. Riesce a ricevere di nuovo l’attenzione di Atlus e nonostante i pochi fondi lo sviluppo procede bene con finestra di lancio prevista per il 2006. L’uscita di Persona 3 e il suo enorme successo stravolgono però  del tutto i piani di Atlus, che decide di rimandare Odin Sphere all’anno successivo per evitare la sua cannibalizzazione. Con i troppi anni di sviluppo sul groppone senza nessuna uscita e i debiti accumulati, George Kamitani si rivolge così a Nippon Ichi per la pubblicazione di un titolo che Vanillaware stava creando parallelamente a Odin Sphere, ovvero GrimGrimoire, che diventerà così inaspettatamente il primo gioco pubblicato della compagnia.


Ma cos’è GrimGrimoire? In sintesi è un RTS (real time strategy) in cui si manovrano delle truppe di famigli in un ambiente 2D strutturato su più piani tramite l’ausilio del mana della protagonista, la giovane maga Lillet Blan. Con un riuscito mix tra stile manga e ambientazione alla Harry Potter, GrimGrimoire vi catapulta in questa scuola di magia ricca di misteri da svelare e pericoli in agguato, e proprio come nella saga ideata da J.K. Rowling la narrazione è composta in modo da farvi dubitare di chiunque, inclusi i vostri istruttori. Nonostante sia il minore tra i titoli Vanillaware (che si traduce in scarsa varietà di ambientazioni), in GrimGrimoire è già tangibile una certa cura estetica, con queste enormi illustrazioni a riempire la schermata, che pur si muovono a simulare la respirazione, e anche grazie alla particolarità del suo sistema di gioco viene accolto abbastanza positivamente dai giocatori, permettendogli di raggiungere il mercato occidentale senza affanni. Ma appariva chiaro che fosse Odin Sphere il pezzo grosso della compagnia, all’interno di Vanillaware si respirava il clima del “o la va o la spacca”, dal suo successo dipendeva la sopravvivenza stessa dello studio. Fortunatamente il miracolo avviene, i pre-order sono confortanti, Bill Alexander di Atlus USA ne annuncia la localizzazione a pochi giorni dall’uscita Giapponese , e nella sua settimana di debutto in Giappone Odin Sphere vende 59,248 copie, arrivando a sfiorare le centomila entro la fine del 2007, un risultato ottimo per un rpg non legato ad alcuna serie.


La grandiosità di Odin Sphere sta nel suo racconto corale e nei suoi molteplici punti di vista. Cinque eroi per quattro terre in conflitto, ognuno mosso da differenti motivazioni; la narrazione è strutturata in modo tale che scegliendo e percorrendo la storia di un singolo personaggio, incapperemo inevitabilmente in buchi narrativi che potranno essere coperti soltanto con la “linea di narrazione” di un altro personaggio. Alla fine andrà a crearsi un maestoso e melodrammatico intreccio, che Odin Sphere ci consente di assistere nuovamente scena dopo scena, in perfetto ordine cronologico, in qualunque momento. Il ripercorrere più volte gli stessi luoghi e l’abbattimento degli stessi boss è a conti fatti l’unico dato nolente di Odin Sphere, nonostante le diverse abilità dei personaggi consentano una certa varietà (per esempio la fata Mercedes vola e scocca frecce, facendo assumere al gioco quasi un aspetto shooter), ma per il resto il classico PS2 porta avanti la tradizione di Princess Crown ampliando e raffinando sia il sistema di gioco (che non perdona), sia l’aspetto estetico, a dir poco superbo.

“Con il progresso tecnologico dei giochi 3D, l’evoluzione della grafica 2D si era fatta stagnante”. G.Kamitani.


Oggi siamo inondati di indie e giochi 2D di ogni genere, su Steam chiunque con un po’ di fantasia può pubblicare il suo rpg con grafica da SNES, ma Odin Sphere va innanzitutto inserito in un contesto, quello dell’era PS2, in cui i giochi dalla grafica a due dimensioni erano praticamente defunti, relegati ai soli picchiaduro ArcSystem Works, della riesumata SNK, o di giochi come Disgaea che in ogni caso, utilizzava ancora sprites in bassissima risoluzione, mentre chi come Viewtiful Joe proponeva un gameplay 2D si vedeva come costretto ad utilizzare una grafica cel-shading. Vanillaware dà finalmente una scossa a tutto questo dimostrando quanto ancora la VERA grafica bidimensionale poteva dire la sua, in quel mercato, andando a creare, insieme al coevo God Hand, una concezione di retroavanguardismo videoludico. Per i suoi personaggi Odin Sphere utilizza una particolare tecnica “a strati” simile a quella utilizzata per far muovere il Castello Errante di Howl, permettendo così un maggior numero di animazioni, contrazioni di muscoli, ali fatate, gonne svolazzanti, il tutto condito da toni shakespeariani misto al manga d’autore (i baloon) e fondali da quadro. Può a questo punto George Kamitani e il suo gruppo ripetersi? Eppure lo fa, e anzi, si supera pure, e con la sua opera successiva spiazza tutti andando a oriente, nel Giappone del periodo Genroku, in quello che è forse il suo punto più alto: nel 2009 è il turno di Oboro Muramasa.


George Kamitani e il suo team, estimatori del fantasy occidentale, che fino ad allora avevano guardato alle mitologie e alla cultura estera, si cimentano in un contesto che è difficile immaginare più giapponese di così. Dopo Nippon Ichi e Atlus, Vanillaware per il suo terzo progetto si rivolge ad un terzo differente publisher, Marvelous Entertainment, che pubblica Muramasa: The Demon Blade per il Nintendo Wii, rimandando così l’appuntamento dello studio all’alta definizione. Poco male, Muramasa è un tripudio di arte visiva in movimento, uno splendido affresco animato su più parallassi che esibisce un Giappone feudale forse mai così bello, pescando a piene mani dalla sua tradizione pittorica. La mitologia e il folklore nipponico si fondono con un design che continua a strizzare l’occhio al fruitore manga (con tanto di scena alle terme, immancabile fanservice) riuscendo però a raggiungere un perfetto equilibrio estetico, tra classicismo e modernità. In Oboro Muramasa, le immagini sono il gioco, detto così può sembrare banale ma non lo è, e lo scopriremo con Dragon’s Crown che al contrario, non riuscirà a replicare perfettamente questa coesione stilistica tra giocato e scenario visivo.

Tralasciando il suo gameplay action, tecnico, sublime, violento eppur raffinato, che corregge le poche magagne di Odin Sphere, Oboro Muramasa cede leggermente il passo rispetto al precedente gioco sulla narrativa, più fumosa e meno “epica” rispetto alle vicende di Gwendolyn e compagni (ma si dimostrerà diverse spanne sopra rispetto al successivo Dragon’s Crown), anche se non manca di alcuni momenti fortemente emotivi. Muramasa si trascina poi il solito prezzo da pagare per tutto questo ben di Dio grafico, ovvero la scarsa varietà a lungo andare delle ambientazioni, anche se rispetto a Odin Sphere, il backtracking è meno accentuato.
Vale la pena sottolineare la grande attenzione che i giochi Vanillaware, fin da Pincess Crown, ripongono nei confronti della rappresentazione, preparazione e consumazione del cibo, vero e proprio rituale terapeutico, che in Muramasa assume ruolo di rifugio slice of life tra una battaglia e l’altra per i due protagonisti. Come tutti i bei giochi non Nintendo usciti su Wii, Muramasa: The Demon Blade non è un grande successo di vendite, ma viene riproposto qualche anno dopo con la versione PlayStation Vita, sensibilmente migliore come resa visiva grazie allo schermo oled della portatile Sony, e comodamente reperibile sul PS Store.


Consegnato Muramasa: The Demon Blade, Vanillaware sviluppa un classico rpg a turni per la PlayStation Portable di nome Grand Knight History, nel quale George Kamitani ha un ruolo marginale (character design e supervisione). Il director è Tomohiro Deguchi, già designer di Muramasa e artefice del recente Grand Kingdom per conto di NIS. Nonostante il buon riscontro in patria, Grand Knight History non varcherà mai i confini giapponesi, causa un’uscita tardiva (fine 2011) per il morente mercato occidentale della PSP, un po’ come accaduto per Final Fantasy Type-0 e Valkyria Chronicles 3. All’’E3 dello stesso anno viene annunciato quello che sarà il progetto più ambizioso mai realizzato dalla compagnia, un’opera che George Kamitani inseguiva da 16 anni (doveva essere l’erede di Princess Crown per il Dreamcast) e che finalmente vedrà la luce su PlayStation 3 e PS Vita. Il trailer di Dragon’s Crown fa andare in visibilio i fan dei giochi Vanillaware ma soprattutto i più attempati videogiocatori cresciuti con i titoli arcade anni novanta.


Dragons’s Crown si presenta infatti come un beat'em up a scorrimento, Kamitani torna quindi alle sue origini, a quel Dungeons & Dragons: Tower of Doom di Capcom (confrontate l'immagine di selezione qui sopra con quella a inizio articolo) a cui aveva lavorato da giovane insieme ai maestri del genere, ma non solo. La sfida di Dragon’s Crown è di evolvere il genere reso grande dai vari Golden Axe e The King of Dragons, implementando un sistema RPG (comunque già intravisto nei D&D succitati e nel successivo Guardian Heroes) e ovviamente una riuscita modalità online; ancora una volta, siamo dinnanzi alla ricerca di un moderno classicismo. Se l’intenzione di per sé è lodevole, il risultato però mostra delle lacune in più punti: la pratica del livellaggio abbassa notevolmente le pretese strategiche e di sfida del titolo, nel quale proprio come in un gioco di ruolo, è sufficiente infatti ripetere i vecchi dungeon ad nausem e potenziare il nostro personaggio (ed eventuali alleati) per avere ragione dei nemici più forti, rendendo l’avventura principale poco più di una scampagnata con gli amici, cosa che di certo non erano gli arcade anni novanta che Dragon’s Crown tenta di omaggiare. Il gameplay inoltre soffre di un certo sovraffollamento nel momento in cui si gira in 4, in alcune fasi più concitate risulta difficile addirittura scorgere la nostra collocazione sullo schermo, specie se nel vostro gruppo sono presenti più di un mago. Questo però non impedisce a Dragon’s Crown di essere un gioco molto divertente, e soprattutto, sorprendentemente longevo. La storia principale non è che un antipasto a ciò che il titolo propone nel post-game tra decine di subquest e sconfinati dungeon (il Labyrinth of Chaos e la letteralmente infinita Tower of Mirages, 49,999 piani mappati!).


Dragon’s Crown è il primo gioco Vanillaware realizzato per un sistema HD e non delude, almeno dal punto di vista prettamente scenico, tutto è realizzato con la solita cura e sontuosità. George Kamitani e il suo staff non si pongono alcun freno infarcendo il loro ultimo lavoro delle più disparate influenze culturali, forse anche troppe, mancando quell’equilibrio corografico raggiunto dal precedente Oboro Muramasa. Si combatte contro mostri fantasy usciti dalla tradizione Tolkien ma anche contro creature mitologiche greche, Arpie, Meduse, conigli mannari (vedi paragrafo sulle citazioni), cavalcando.. dei dinosauri. Abbattiamo boss senza chiederci i perché e i per come sono lì, nel mentre sullo sfondo la Torre di Babele, statue di Icaro, pittura rinascimentale, un calderone multiforme di cose a caso che sembrano frullare nella testa dei suoi autori, scelte tirando dei dadi a 12 facce di di D&D. Uno scivolone? No, semmai un esercizio di stile fine a se stesso che diverte e magari sulle prime stimola e affascina, senza però lasciare granché ad esperienza compiuta, se non un certo snobismo di fondo, certamente un passo indietro rispetto a Muramasa e Odin Sphere. Per questo è auspicabile che il prossimo lavoro Vanillaware, 13 Sentinels: Aegis Rim (annunciato al Tokyo Game Show 2015 e in sviluppo su PS4 e PS Vita), viri verso un’altra direzione, un ritorno ad approccio più intimista che non sia semplice sfoggio di maestria bidimensionale e sfrenato citazionismo, e il suo setting moderno-scolastico con variabile mech desta quantomeno curiosità in tal senso.


Stile, influenze e citazioni

Il cibo

Come detto in precedenza, la rappresentazione del cibo nei giochi Vanillaware è immancabile, da Princess Crown, fino a diventare un vero e proprio minigame in Dragon’s Crown. In Odin Sphere sta a voi trovare le ricette e gli ingredienti adatti per preparare i vostri manicaretti e farveli servire da una graziosa coniglietta al Pooka Village o da un cuoco itinerante (novità dell'edizione Leifthrasir), mentre in Muramasa: The Demon Blade potrete gustare cibi tradizionali visitando i vari ristori.  “È uno dei tre desideri dell’uomo, e quando questo mangia, è felice, dunque volevo catturare questo sentimento”. Nutrimento non solo del corpo ma anche dell’anima in cui ogni gesto è espressione sensoriale, la raffigurazione del cibo è forse l’elemento più tipicamente giapponese delle opere di George Kamitani.


Character design, donne e mostri

Inutile negarlo, le ragazze sono un'altra delle evidenti passioni del game designer e del suo studio, protagoniste fin dagli albori dei suoi giochi. Alle volte delicato ed elegante (Odin Sphere, Princess Crown), altre rozzo ed esagerato (Dragon’s Crown), nei disegni di Vanillaware possiamo trovare la Capcom di Kinu Nishimura e Bengus, influenze occidentali (locandine di film, album, arte) e mostri, tanti mostri. “Adoro il concetto di una ragazza che affronta un mostro enorme, forse è un gusto un po’ distorto”.
 


In Dragon’s Crown il character design è volutamente enfatizzato sui “punti giusti”, a detta dell’autore, per differenziarli da un qualunque altro fantasy. In particolare le generose curve della sorceress fecero alzare un bel polverone dopo che il portale Kotaku pubblicò un provocatorio articolo intitolato “smettetela di far progettare i personaggi a degli adolescenti”, che arrivò fino allo stesso Kamitani, il quale rispose con “sembra che Mr. Jason Schreier di Kotaku non sia soddisfatto della sorceress e della amazon. Gli artisti hanno preparato per lui qualcosa che può piacergli” accompagnato da un disegno con 3 nerboruti uomini a petto nudo, seguìto poi da una risposta più esaustiva sulle sue scelte.

Walt Disney

Non capita spesso di intravedere della Disney nei giochi di nicchia nipponici, eppure Dragon’s Crown omaggia la Golden Age (1939-1959) della casa di Walt con la fata Tiki, evidente richiamo a Trilly fin dal logo Atlus, che però non si fa problemi ad immergersi in un boccale di birra prendendosi una bella sbornia nel Dragon’s Haven Inn. In un livello si cavalca un tappeto volante inseguito da ondate di magma, scena che non può non rimandare alla celebre sequenza di Aladdin mentre un’altra ovvia citazione è rappresentata dal topo Rickey, apprendista stregone con tanto di cappello blu a punta, e non c’è bisogno di aggiungere altro.


"Nasty, big, pointy teeth!"

Per chiudere, Dragon’s Crown contiene moltissimi altri riferimenti più o meno espliciti, ma il più sorprendente, forse per la sua imprevedibilità, è quello che omaggia nientemeno che il celebre film demenziale Monty Python e il Sacro Graal. Il percorso B di uno dei livelli principali ha come boss un assurdo quanto coriaceo Killer Rabbit; l’ambientazione nonché il mandante (uno stregone con le corna, proprio come il Tim del film), rimandano chiaramente alla celebre scena del coniglio assassino, che scaturisce poi con il lancio della Granata Sacra, e nella stessa boss battle se impiegheremo troppo tempo all’abbattimento del coniglio, arriverà proprio un gruppo di cavalieri con una cassa di bombe.

 


Fonti:
Rpg.fan
Gamasutra
Arteater
Kotaku