La scissione creatori-pubblico e il ruolo dell'estrapolazione

Gli ultimi anni sono caratterizzati dalla forte presa di coscienza del pubblico nei confronti di un'opera. Ma qual è il limite di critica? Può il pubblico influenzare le scelte degli sviluppatori?

di Marcello Ribuffo

Negli ultimi anni il mercato dei media sembra andare verso una sorta di stagnazione, in cui remake, reboot e remastered nel caso videoludico si susseguono senza sosta, quasi come se mancassero nuove e interessanti idee o persino avere paura di proporle al grande pubblico. Concentrandoci maggiormente sul nostro settore, l’avanzare della tecnologia sembra essere stato un pretesto per scavare nei ricordi, approfittando dell’effetto nostalgia; se abbiamo avuto casi eclatanti come Resident Evil 2 e Final Fantasy VII, con una rivisitazione quasi totale dei titoli originali, maggiori sono le riproposizioni uno a uno di vecchie glorie, a volte semplicemente ri-masterizzate. A fronte di questo tipo di mercato ve ne è uno che sembra essere diventato di nicchia, in cui i titoli proposti somigliano quasi a dei test per valutare in presa diretta la reazione del pubblico. Il caso più emblematico è sicuramente Death Stranding di Hideo Kojima, un’opera ambiziosa quanto criptica, sia narrativamente che sul fronte gameplay. Da qui alle reazioni negative del pubblico rispetto alle scelte di uno sviluppatore il passo è breve e gli esempi sono innumerevoli, come ad esempio le variazioni sul finale di Mass Effect 3 da parte di Bioware.
 
 
Prima di arrivare alle reazioni però, vi è una lunga strada da percorrere che normalmente ha inizio ben prima che un titolo venga presentato. La nostra cultura è ormai pregna di quell'hype (aspettativa) in grado di far cambiare valutazioni su un’opera in maniera drastica. Molto spesso è colpa del pubblico, in grado di esaltarsi alla vista di qualche frame di un trailer ma, alle volte, avviene l’esatto contrario: storiche sono ormai le presentazioni di Killzone 2, Watch Dogs e No man’s Sky, capaci di fomentare il pubblico con demo tecniche fuori da ogni logica di mercato ma ben lontani da quanto poi mostrato realmente, in fase di vendita. In questo caso, come dimostrato sia da Guerrilla che da Ubisoft, lo sviluppo di un prodotto può essere influenzato anche dalle aspettative delle stesse software house, soprattutto quando ci si ritrova in mezzo a un salto tecnologico tra due generazioni di console. Inutile ricordare le incessanti critiche arrivate da ogni dove, con recensioni negative a cascata da parte dell’utenza ─ anche se per dovere di cronaca, Killzone 2 si dimostrò comunque un eccellente FPS.
Quello che sembra mancare dunque è il giusto equilibrio di rapporto tra il pubblico e il proponente, un rapporto labile che però, negli ultimi anni ha visto dei salti di qualità soprattutto nella comunicazione, come dimostra molto spesso Capcom, con presentazioni chiare e senza fronzoli. Insomma, non tutto il male viene per nuocere e le esperienze citate poc'anzi sono servite quasi a educare il pubblico, in cui l’esempio “Watch Dogs” salta ormai costantemente all'occhio in ogni chat a ogni nuova presentazione. Ma quando l’aspettativa è esacerbata da un percorso e abitudine alla qualità, cosa avviene?
 
 
Il 2012, oltre che essere ricordato per la profezia Maya, è ricordato come uno degli anni di svolta nella comunicazione videoludica, avanzando prepotentemente i problemi e il potere che l’utenza può avere sugli autori. È un caso ancora in voga tuttora, con uno Star Wars: Episodio IX in grado di stravolgere quanto raccontato prima solo per rispondere alle critiche sull'episodio precedente. Ma il 2012 appunto, era l’anno della conclusione di una delle trilogie più importanti nel panorama videoludico: Mass Effect.
Dopo un secondo capitolo aspramente criticato per il brusco cambio di rotta, passando da una marcata componente RPG a una maggiore ricerca d’azione, Mass Effect 3 aveva l’onere di concludere degnamente una storia ─ o storie ─ che avevano incollato sugli schermi milioni di appassionati, in grado finalmente di vivere in prima persona l’epopea di una space opera d’altri tempi. E quello che avvenne… beh, fu un disatro: il titolo ebbe una serie di problemi legati a gameplay ma soprattutto narrativi, culminati nei finali che tanto hanno fatto discutere nei mesi successivi. Questi, vennero appunto aspramente criticati e il rumore generato non fu indifferente alle orecchie di Bioware. La software house canadese corse ai ripari, presentando un DLC gratuito denominato Extended Cut, in grado di riscrivere parzialmente i finali e mettendo una pezza su alcuni buchi narrativi. Se alcuni lodarono il tentativo, considerandolo come una sorta di vicinanza agli aficionados da parte degli sviluppatori, altri lanciarono un dibattito che stiamo affrontando oggi: qual è il limite da non varcare nella stesura di un’opera? È giusto che il rispetto per i fan debba poter influenzare le scelte funzionali e stilistiche di un prodotto?
Rispetto alle altre arti, quella videoludica è qualcosa che si protrae nel tempo, grazie a continui aggiornamenti e/o espansioni. I prodotti da essa generati dunque, non smettono mai di far parlare il pubblico, salvo casi particolari ─ Anthem, che rientrerebbe tranquillamente nel discorso. Quanto accaduto con Mass Effect 3 è qualcosa che mina pesantemente la credibilità degli sviluppatori, nonché la dignità dell’intero sistema videoludico in quanto tale: come può un prodotto definirsi tale se può subire variazioni in corso, stravolto da utenti che semplicemente non sono a conoscenza ─ per la grande maggior parte ─ dei vari equilibri da tenere in considerazione per la stesura di un’opera?
Da quel giorno, segnato come punto di non ritorno, qualcosa sembra essere cambiato e nonostante un po’ tutti siamo passati da Game of Thrones, il rischio di un cambio in corso d’opera sembra scongiurato per sempre.
Ma esiste anche qualcuno che di tutto questo, semplicemente se ne frega.
 
 
Quel qualcuno è Hideo Kojima ─ ma citiamo anche Hidetaka Miyazaki ─ capace di portare le proprie idee indipendentemente dalle possibili reazioni del pubblico. Qui entra in scena anche l’enorme peso autoriale del papà di Metal Gear e prima di affrontare il caso Death Stranding, partiamo proprio da qui. Un piccolo esempio della sua autorevolezza avvenne alla presentazione di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, dove l’immensa campagna di marketing portò a pensare che Snake sarebbe stato il protagonista dell’opera. Sappiamo tutti com'è andata, con Raiden che assunse il ruolo di star del secondo episodio.
Se la parola più usata per descrivere il caso è stata la “borisiana” genio, nei confronti di Kojima, inutile dire come i tempi siano cambiati. Fosse accaduto oggi, probabilmente si sarebbe gridato allo scandalo, se non addirittura alla truffa. Il 2002 era ben altra epoca.
Death Strandig dunque, è l’ultima opera di Kojima e ovviamente ha fatto parlare di sé in tutte le salse: essenzialmente è il gameplay stesso a esser stato preso di mira, spesso descritto come noioso, monotono senza prendere completamente in considerazione la poetica di cui l’opera è intrisa. Proprio Death Stranding riesce a darci la chiave per comprendere forse la rottura avvenuta tra pubblico e sviluppatori: l’estrapolazione.
Prendendo in considerazione gli studi e ragionamenti del filosofo francese Henri Bergson, il problema che si è venuto a creare è appunto l’estrapolazione dal contesto, in questi casi il gameplay di Death Stranding o i finali di Mass Effect 3. Ma proprio la loro estrapolazione non fa altro che cancellare la “storia” del singolo elemento, che non vive più in funzione dell’opera stessa ma in funzione di sé e per sé, senza veicolare appieno il suo messaggio. Quello che succede, in poche parole, è che il pubblico non è in grado o non ha volontà di valutare un percorso in grado di giustificare le scelte intraprese, spesso culmine di anni di lavoro.
È chiaro che i casi presi in esame, se presi singolarmente, abbiano più o meno delle lacune ma se si è in grado di fare un passo indietro, approfittando della visione d’insieme, ci si accorge magari di qualcos'altro:
i finali di Mass Effect probabilmente restituiscono un giusto compromesso tra quanto narrato e le scelte del videogiocatore e il gameplay di Death Stranding è esso stesso narrativa, capace di raccontare più di quanto mostrate dalle ─ lunghissime ─ cutscene. Sia chiaro, questo è un problema che hanno molto spesso anche i recensori: l’analisi di un’opera sovente estrapola sub-consciamente alcuni elementi, possano essi essere musica, animazioni e molto altro. Che si fa dunque? Un bel respiro e ci si allena allo spirito critico: se molti sviluppatori hanno paura di fallire nel proporre nuove idee è anche colpa nostra, capaci di puntare il dito su un singolo elemento piuttosto che analizzare l’intero prodotto. Certo, molti addetti ai lavori si adagiano su quanto avviene nel mercato odierno ma quella signori, è tutta un’altra storia.
 


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