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Ci fu un tempo in cui noi amanti dei videogiochi a tema horror esultammo in tutte le lingue conosciute alla notizia di un “Silent Hill” in sviluppo, con Hideo Kojima al timone. E la nostra gioia crebbe a dismisura dopo la prova della sfortunata demo PT: sembrava davvero che il sogno fosse a portata di mano.
Ma poi, la doccia fredda: il divorzio in casa Konami e la fondazione della Kojima Production annullarono tutte le speranze di vedere la concretizzazione del progetto. Soltanto la notizia di un nuovo gioco in sviluppo, da parte del buon Hideo, aveva colmato la delusione di essere stati privati di un’idea tanto ambiziosa. I primi trailer di “Death Stranding”, in effetti, restano sensazionali rivisti anche adesso: l’atmosfera, la qualità registica e la cripticità delle scene instillavano delle sensazioni di inquietudine, suggerendo che forse non tutto era perduto; lo spirito dell’abortito “Silent Hills” sembrava rivivere attraverso quelle sequenze sbalorditive, che nulla avevano da invidiare alle migliori produzioni cinematografiche.

Inutile dire che (quasi) nulla di tutto quello che era stato ipotizzato, poi, ha trovato riscontro nel prodotto finito. È bene però specificare un punto: “Death Stranding” non è un videogioco deludente in quanto totalmente diverso da ciò che il pubblico si sarebbe potuto aspettare, bensì perché presenta una serie di difetti non degni del nome di Kojima.
Meglio partire in primis da ciò che nel gioco riesce a convincere: l’ambientazione è sicuramente suggestiva e affascinante, almeno nelle prime ore. L’elevatissima qualità tecnica contribuisce a rendere il mondo di gioco vivo e lo stesso dicasi per il livello del motion capture dei volti degli attori protagonisti, che rasentano il fotorealismo. Inoltre, vedere le performance di Norman Reedus e Mads Mikkelsen su tutti fa davvero un effetto notevole, abbattendo in maniera netta la percezione che si stia seguendo un videogioco piuttosto che un film.
Purtroppo però le straordinarie interpretazioni non vengono sorrette da una sceneggiatura all’altezza, che si rivela essere la parte più difettosa dell’intero prodotto: la storia di “Death Stranding” prima ancora di essere poco interessante, è mal costruita.
Innanzitutto, gli eventi vengono distribuiti nel corso delle trenta ore del gioco in modo pessimo, apparendo concentrati soltanto all’inizio e alla fine: il risultato è una parte centrale ai limiti del soporifero, in cui vengono offerti sviluppi minimi, mentre tutto il resto è congelato in attesa del finale dove, al contrario, gli eventi e le rivelazioni che si susseguono sono talmente tanti da frastornare il giocatore. Ma poi, a conti fatti, la trama di “Death Stranding” è priva di mordente e procede di cliché in cliché fino alla conclusione, non bastano un world building abbastanza ispirato e le tipiche stravaganze alla Kojima per risollevare il prodotto.
La caratterizzazione dei personaggi, poi, è un'altra nota dolente, in quanto tutti dal primo all’ultimo non vengono mai approfonditi nel modo giusto e risultano piatti. L’unico modo, che viene fornito per capire qualcosa in più su di loro, è attraverso degli interminabili muri di testo, rappresentati dai documenti sparsi nelle aree di gioco: testi prolissi e pieni di informazioni che però si smettono di leggere ben presto, in quanto noiosi. Inoltre, per tutta la durata dell’avventura nei panni di Sam non ci verrà data la minima possibilità di entrare in empatia con lui e la sconvolgente rivelazione finale risulta fortemente depotenziata, a causa di una immedesimazione con il personaggio pari a zero.
Lo stesso dicasi per tutti gli altri: Bridget, Amelie, Die-Hardman, Heartman, Deadman, Fragile e Mama risultano figure o stereotipate ai limiti dell’insopportabile o semplicemente banali. L’unico a salvarsi in parte è Cliff Hunger (nomen omen), interpretato da Mads Mikkelsen, almeno lui un minimo più coinvolgente, anche se relegato a poche apparizioni nel corso della storia.

In generale, un’altra cosa che si percepisce in “Death Stranding” è un forte scollamento fra la narrativa e il gameplay; su quest’ultimo vale la pena di spendere due parole: la scelta coraggiosa di basare tutto il gioco sulla meccanica della consegna dei pacchi è stimolante e unica nel suo genere, ma viene sporcata da sessioni di combattimento e da boss fight di una ripetitività snervante. I nemici, divisi nelle categorie di Muli (esseri umani) e Creature Arenate (esseri soprannaturali), sono provvisti di una vera deficienza artificiale e lo stesso dicasi per i pochi boss che chiudono alcune sezioni della storia: tutti uguali nei modi in cui vanno affrontati e anonimi oltre ogni dire. Veder cadere proprio su questi punti un veterano come Kojima, è cosa su cui non si può transigere né soprassedere: ciò che era stato il fiore all’occhiello della Metal Gear Saga, in “Death Stranding” diventa in più di un’occasione motivo di imbarazzo e di frustrazione per i giocatori.
Da segnalare, come nota positiva, la presenza del peculiare sistema di condivisione delle risorse fra giocatori, tramite il tanto discusso multiplayer asincrono: uno stratagemma che vivacizza il gameplay e restituisce davvero la sensazione di star collaborando con tanti altri utenti sconosciuti per un obiettivo comune.
Si nota poi come, con questo gioco, Kojima abbia cercato di fare quel salto di qualità che potesse avvicinarlo definitivamente al mondo del cinema, ma è evidente come anche qui qualcosa sia andato storto: la presenza di una componente cinematografica così forte cozza con la tendenza dell’autore a voler spiegare gli avvenimenti che caratterizzano il mondo da lui creato, senza permettere al giocatore di viverli. I personaggi parlano fra di loro e si parlano addosso senza sosta, tramite dialoghi faticosi da seguire e ridondanti. Se a ciò aggiungiamo anche un messaggio di fondo – riconnettere gli Stati Uniti – ripetuto infinite volte nel corso della campagna, il frastornamento generale può solo aumentare. “Show, don’t tell” insegna la regola d’oro della narrativa e forse un ripasso a Kojima non avrebbe fatto male.

“Death Stranding” è, in conclusione, un concentrato di trovate originali e di buone intenzioni, che a conti fatti si rivelano però appena abbozzate o sviluppate male, non permettendo mai al gioco di spiccare il volo. L’impressione è che, con qualche anno in più di sviluppo alle spalle e una gestione migliore delle risorse a disposizione, il risultato finale sarebbe stato sicuramente migliore. Il consiglio, però, è comunque quello di dargli una possibilità e di provare un’esperienza videoludica di sicuro unica nel suo genere.
Resta l’amaro in bocca per un’occasione sprecata, con la speranza che il prossimo gioco di Kojima lo possa riportare ai fasti dei capolavori di un tempo.