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Sono passati tanti anni, ma l’impressione è rimasta immutata: il primissimo film dello Studio Ghibli corrisponde a uno dei suoi migliori lavori in assoluto, un classico senza tempo, meraviglioso quarant’anni fa, come oggi.

Miyazaki sensei - grazie alla sofisticata e originale fantasia che da sempre lo contraddistingue - ci prende delicatamente per mano, portandoci ad ammirare paesaggi suggestivi dotati d’un tocco prettamente steampunk filtrato all’iconico setaccio degli anni ’80: le animazioni, fluide e piacevoli, strizzano l’occhio all’animalesco, avventuroso “Il fiuto di Sherlock Holmes”, anch’esso di matrice miyazakiana, ricche di rimandi al suo talento e al suo stile. Mezzi di locomozione meccanici e cigolanti, rotaie sospese, immense aeronavi a dominare i cieli, un avveniristico retrò dove tardo Ottocento e uno steam-style sofisticato degno del miglior Akira Toriyama (e dei suoi studi cartoon-meccanico-ingegneristici) riescono a dar vita a una fiaba a cavallo fra antichi misteri e qualcosa di simile a un precursore dei JRPG a cui si rifaranno, volendo, grandi capolavori videoludici come “Grandia”, i primi “Final Fantasy” e “Legend of Dragoon”.
In questo mondo ipoteticamente post-apocalittico, arcano, mesmerizzante e semi-desertico, troviamo i più classici dei protagonisti, una coppia di adolescenti pieni di coraggio pronti a sfidare sia il mondo intero sia le oscure avversità che continuano a braccarli, avvolti da un segreto celato in un’antica pietra azzurra (...) e in cerca di un ancestrale impero perso nelle nebbie dei tempi: un plot talmente eccitante e magico che la giovane e talentuosissima Gainax - al seguito di un gagliardo Hideaki Anno - sfrutterà rivisitandolo ampiamente e vestendolo d’una virtuosa uniforme jules-verniana, dando alla luce, circa cinque anni più avanti, il celebre e ancor più iconico “Nadia of Blue Seas”, conosciuto in terra nostra col titolo de “Il mistero della pietra azzurra”.
Venti mila leghe sopra i cieli, quindi.

Circondati da treni a vapore, oscure caverne, spaccati urbani a strapiombo nel vuoto e marchingegni volanti rappresentati con estrema perizia, troviamo Pazu, giovanissimo aiutante in una miniera di carbone e stagno, che una sera vede letteralmente piovere dal cielo una ragazza (probabilmente) coetanea, priva di sensi, capace di cadere lentamente come se stesse planando, ignorando la forza di gravità!
Il suo nome è Sheeta, graziosa fanciulla dalle lunghe trecce castane in fuga sia dall’esercito che da una banda di pirati tanto squinternata da ricordare il mitologico trio Drombo (e che ispirerà Grandis & compagnia in “Nadia of Blue Seas”); le forze in gioco, quindi, si ritrovano a caccia della ragazzina che al collo porta un antico e portentoso oggetto chiamato “aeropietra”, capace di far levitare nei cieli chi la indossi, contro le leggi della fisica.
La giovane, in compagnia del suo nuovo amichetto, come nelle più classiche epopee fantastiche intraprenderà così più una fuga che un vero e proprio viaggio, attraversando miniere arcaiche scavate in luoghi tanto antichi quanto consapevoli, lungo pendii scoscesi, fra nuvole di tempesta, fino a raggiungere luoghi leggendari che si pensavano perduti.

È un racconto di vuoti sterminati e cieli immensi, confusi in sfumature di azzurri audaci e indaco, riempiti da vapore, leggende terribili e lontane, nuvole infinite e strizzatine d’occhio alle mirabolanti invenzioni di Leonardo Da Vinci (l’ornitottero, l’uomo volante!), macchinari ad elica e similari. Si accenna addirittura ai viaggi di Gulliver e a un ipotetico mondo andato (poiché Laputa viene davvero citata nei celebri racconti di Jonathan Swift), ma le reali cause del declino delle civiltà precedenti sono invero ignote, mai narrate chiaramente, e il viaggio dei due giovanissimi avventurieri necessita di altre risposte.
Laputa è quindi il prototipo animato dell’agognata chimera atlantidea, la famosa, misteriosa città da qualche parte lassù nei cieli al di sopra di una terra desertica, devastata, che Pazu, figlio di un aviatore deceduto, cerca con tutte le sue forze per realizzare il sogno perduto del padre esploratore: un’eredità inevitabile e quasi spilberghiana che si rifà ai più canonici “Indiana Jones” o alle adolescenziali avventure in perfetto stile anni ’80 che hanno colorato l’infanzia di molti di noi. In questo scenario a metà fra concreto e astratto, oltre ai protagonisti al centro dell’azione e dell’evolversi della trama, menzioni particolari vanno senza dubbio a taluni personaggi secondari di un certo spessore come nonno Pom, decano minatore, colui che comprende più di ogni altro la pietra in quanto tale e i suoi poteri quasi sovrannaturali, esploratore e portatore d’antichi segreti che aiuterà i due ragazzi all’inizio dell’ardua epopea; ma, più di altri, saranno Dola e la sua cricca di aeropirati a tingere vividamente la tela di “Laputa”, character formidabili che rimarranno nel cuore degli spettatori per sempre.

Dalle animazioni all’attento studio dei fondali e dei paesaggi, ogni elemento di quest’opera d’arte rivela una grande qualità e minuziosità di rappresentazione, decisamente incredibili per l’epoca (alcune sequenze animate appaiono a dir poco superbe, tre spanne sopra la media animata del periodo e che non sfigurano neanche oggi), una vera gioia per gli occhi.
La storia, verso la parte finale, prende il volo in tutti i sensi, decolla all’indirizzo d’un ultimo terzo animato davvero favoloso, emotivamente intenso e accompagnato da una colonna sonora che nella sua interezza non è niente di eccezionale, ma, a sostegno del lungo, malinconico epilogo, regala comunque il meglio di sé, prendendo a braccetto scene memorabili e valorizzandole con note indimenticabili, da pelle d’oca, fino alla catarsi di un finale dolceamaro, non stupefacente bensì severo, eppure di grande impatto emotivo: un finale “giusto”, corretto, trasognante, una lezione di saggezza macchiata dalla sempiterna avidità umana.
Provate a godervelo in lingua originale sottotitolata, evitando accuratamente il demoniaco adattamento di Cannarsi: ne vale davvero la pena.
Tanti anni sono passati, ma i capolavori, se ancora servissero delle prove, rimangono immortali.