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“Mele, i più sospetti fra i frutti”.
Concetto radicato nell’immaginario collettivo sin da Eva in quel del giardino dell’Eden, elemento adattato per le più disparate storie, fiabe o parabole: Biancaneve (...) appunto, in primis, un parallelo biblico dai risvolti insospettabili eppur non così complessi.
“Scarpette rosse e i sette nani” è sostanzialmente un mix di citazioni indossate a mo’ di vestito da ultimo ballo, non troppo convincente, tuttavia facile da comprendere. In una terra dove non scopriamo nulla di nuovo, incontriamo una miscela di fiabe già raccontate, una sorta di pergamena su cui è vergata la mappa di questo mondo né troppo atipico né troppo curioso, abbastanza classico, banale e perciò forse dal retrogusto di un fantastico fanciullesco che non dispiace, dove facciamo la conoscenza di sette impavidi eroi intenti a combattere una variegata pletora di forze maligne alla stregua di draghi, terribili mostri e stregoni assortiti. Il gruppo di sette giovani baldanzosi finirà però per mettere i bastoni fra le ruote a una strega che li maledirà tramutandoli in sette sgorbietti verdi, nanetti più simili a fastidiosi goblin di matrice fantasy che classici nani delle fiabe di fine Ottocento, e che, almeno nella teoria, potranno tornare al loro glorioso aspetto soltanto se baciati da una bellissima principessa (assurdamente classico, ma, credetemi, estremamente funzionale ai fini di uno svolgimento non proprio ordinario).

Il lungometraggio segue una falsariga fra il comico e la commedia animata tipica di questo decennio, irriverente e canzonatoria, dal timbro decisamente pre-adolescenziale ricamante battute e doppi sensi che possono essere colti prevalentemente da chi possiede una certa età o un minimo di cultura pop e d’animazione di fine millennio scorso. Nonostante sia un prodotto coreano, il tutto viene infiocchettato con una grafica cartoonesca che strizza l’occhio all’animazione occidentale made-in-Pixar, purtroppo però incapace di sprigionare un appeal artistico che lasci il segno.
L’incipit del racconto ricorda un incrocio fra “Rapunzel” e (ovviamente) “Biancaneve e i sette nani”, con una fastidiosa deflagrazione dei dialoghi causata da un doppiaggio italiano che lascia a desiderare (sempre che non lo vogliate gustare in madrelingua sottotitolata); dopo pochi minuti diventa chiaro che è proprio a “Biancaneve e i sette nani” che “Scarpette rosse e i sette nani” vuole rifarsi, ove, dopo l’introduzione dei sette miserabili ex-eroi, ci si concentra su di un’altra strega andata in moglie al re del regno, la cui unica figlia è appunto Neve, la protagonista. Questa seconda strega è il più classico stereotipo in cerca dell’eterna giovinezza e della bellezza assoluta, in questo caso donata da un paio di scarpette rosse fiammanti.
Come da copione, le cose non andranno affatto secondo i desideri della strega e Neve riuscirà a impadronirsi delle scarpe, fuggendo in modo sia magico che rocambolesco. Ci si addentra così nel cuore della vicenda, la storia di una Biancaneve alla ricerca del padre, differente nell’aspetto da come ci è stata sempre raccontata, che conoscerà e sarà aiutata proprio da quei sette ex-eroi sotto mentite spoglie di nanetti verdognoli.

In poche parole: tutto molto simile a ciò che già conosciamo, e, al tempo stesso, coraggiosamente differente, anche se, a dirla tutta, gli autori avrebbero potuto (e forse dovuto) osare di più.
“Le fiabe non sono come le raccontano”, è questo il tema portante che permea la vicenda: inaspettatamente attuale, contemporaneo, soprattutto per quanto riguarda la vuota, insulsa, eccessiva venerazione del tanto agognato aspetto esteriore, poiché Neve è una ragazza molto carina, ma - attenzione! - piuttosto in carne - come diremmo oggi (?) con questo desiderio di etichettare ogni dannata cosa? “Curvy”? - e non l’ideale di bellezza slanciata e sinuosa che i banner pubblicitari tentano di propinarci scalpellando fra le fessure del gusto personale che in ognuno di noi termina di esser limpidamente tale sin dalla tenera età. Quelle scarpette rosse permettono a chi le indossi di diventare davvero “bella” (davvero?), oltre ad essere l’agognato feticcio della strega cattiva, tanto “cattiva” da ricordare quelle anziane signore che non accettano le rughe della propria età e ricorrono ad ogni espediente chirurgico per ingannare l’età, sperando di apparire dieci, vent’anni più giovani (e non che ci sia qualcosa di male nel volersi cambiare per star bene con sé stessi, ma è davvero quello il motivo, o lo facciamo per far sì che la società ci accetti e ci giudichi positivamente?).
Sono ottimi spunti che il lungometraggio tratta con sufficiente profondità, senza però mai piantare qualche colpo ben assestato che avrebbe reso il tutto molto più eclatante e “potente” dal punto di vista mediatico.
La comicità del prodotto, parallelamente, si dimostra semplice e accessibile anche (e soprattutto) ai bambini, capace di strappare più di un sincero sorriso, nonostante il tema portante sia molto serio: riuscire ad amarsi per ciò che siamo esteriormente e, soprattutto, per come ci mostriamo agli occhi degli altri - la società, la benedetta, maledetta società, per l’appunto.
Nell’era del consumismo imperante, dove l’aspetto ha un impatto infinitamente più grande e immediato dell’indole interiore, dove contiamo i “like” sui social network come simulacri di approvazione alle nostre ingannevoli foto, e dove figurare nel modo più attraente per molti si trasforma in una malata necessità, milioni di persone si ritrovano a fare i conti con una perfezione che non può e non potrà mai esistere, ma che i canoni sociali esigono al primo posto nella classifica dei futili bisogni giornalieri. È triste riconoscere come l’aspetto esteriore ci condizioni ogni giorno in tantissime tipologie di relazioni interpersonali, e sebbene “Scarpette rosse e i sette nani” abbia un gran margine di denuncia su questo difficile argomento, la sua la dice in modo piuttosto leggero, sufficiente, ma poco incisivo.

In definitiva, la morale di “Scarpette rosse e i sette nani” è tanto banale quanto attuale: non possiamo giudicare qualcuno esclusivamente da come appare, sarà sempre un grosso errore. Se l’abito non fa il monaco, perché dovrebbero farlo scarpe firmate, glutei torniti e pettorali scolpiti? La lezione è sempre uguale. E, proprio per non giudicare dalle apparenze, a visione conclusa, questo lungometraggio che finisce per rammentare uno strano mix fra “Shrek” e “La bella e la bestia”, finisce per non stupirci ma nemmeno deluderci, sebbene, fra una colonna sonora pre-adolescenziale, delle animazioni buone ma non eclatanti e una trama davvero banale (anche se divertente), il messaggio forte e solido che esso emana sia un argomento di quotidiana rilevanza che molta gente fatica a comprendere e percepire con la giusta importanza.
Menzione speciale a Pablo Picassorco, vicino di casa di Neve e (ovviamente?) artista, da cui la ragazza ha imparato l’arte del disegno. Un nome catartico e ispiratore in un mare di personaggi banali e mediocri, talvolta buffi e divertenti, sì, ma che probabilmente non rimarranno nel nostro immaginario a lungo.

Senz’ombra di dubbio un prodotto adatto a un pubblico giovanissimo, il genere di pubblico capace di districarsi fra i vari Instragam, Facebook, Tik Tok e similari, in cerca del prossimo like.