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“A scuola mi chiesero cosa volessi diventare da grande, ed io risposi “felice”. Mi dissero che non avevo capito l’esercizio, ma io dissi loro che non avevano capito la vita.”
- John Lennon

“Che si sarebbe arrivati a questo, mai l’avrei potuto pensare. È colpa mia, e del falso che sono.”

Antefatto: è comune abitudine considerare la propria vita come un susseguirsi di banali consuetudini e noiosa routine - tranne, ovviamente, rari e sporadici casi. Spesso, invece, quando veniamo a conoscenza dei variegati accadimenti che costellano le esistenze di lontani sconosciuti o vicini conoscenti, finiamo spesso per pensare: “Pazzesco, che storia assurda” oppure “Se dovesse accadere a me, non so cosa farei, ma... tanto, non potrà mai succedermi”.
Curioso, perché, se potessimo osservarci da fuori esattamente come osserviamo chi ci circonda, scopriremmo che di codeste situazioni la nostra vita ne è sempre stata piena: forse non ai nostri occhi, ma sicuramente a quelli di chi ci conosce più o meno a fondo (percependoci in modo ben differente).
Ebbene, io credo che, fra tali situazioni, ve ne sia una decisamente sottovalutata: quella dell’illusione di vivere in una realtà che ci siamo convinti di ritenere ideale, agendo in funzione di chi ci circonda, andando così a trascurare i nostri personali desideri; è inevitabile che, presto o tardi, essi finiranno per ridestarsi, andando a invigorire la nostra insoddisfazione. Non possiamo artefare la realtà, fingendo di essere chi, intimamente, non siamo né potremmo mai essere. C’è qualcosa che, intimamente, ogni essere umano sa molto bene: possiamo mentire a chiunque, ma non a noi stessi. Non a lungo, non completamente, non davvero. Farlo eccessivamente significherebbe negarci serenità, onestà intellettuale e quindi felicità, perché, proprio come nel basilare pensiero di John Lennon, non è forse la felicità l’elemento più importante di ogni vita umana?
Ordunque, questo semplice ma incisivo ragionamento può benissimo racchiudere il significato più profondo de “La principessa splendente”. Elementare, spontaneo, fisiologico, complementare all’esistenza.

Due ore indimenticabili che mi hanno fatto pensare: “C’è dell’animazione, in questa poesia”.

Titoli di testa su carta anticata, vecchie pergamene color pastello granulato che rimembrano coriandoli di feste esotiche e sale grosso frantumato, profumo ancestrale di campagna dimenticata, angoli d’infanzia e raggi di sole che ci abbracciano come una madre dolce e protettiva.
Sin dalle prime battute possiamo assaporare essenze andate di tempi che furono, irresistibili esche che ci condurranno all’interno di una vera e propria magia animata.
Capiamo di essere di fronte a qualcosa di unico, coraggiosamente sperimentale nella sua superba intuizione artistica, fiabescamente semplice tanto quanto involontariamente iconico, un lungometraggio costantemente accompagnato da una colonna sonora orchestrale sontuosa, frizzante, movimentata, capace di trovare le note e gli strumenti pertinenti per ogni frangente raccontato, dai flauti allegri o tristi, i violini e i tamburi severi, l’orchestra intera a contemplare una meraviglia inaspettata.
Ciò che da subito colpisce è un concept minimale, talvolta semplici, indefiniti schizzi che permettono d’intuire ciò che accade, così come i fondali, spesso accennati - talvolta inesistenti - tranne quando risultano necessari e funzionali agli avvenimenti. Si ha davvero l’impressione di essere catapultati in una vecchia storia tramandata attorno al fuoco dei paesini di campagna dell’entroterra giapponese, una fabula dolce e malinconica di cui saremo astanti, tanto potente quanto commovente, una di quelle leggende che ci si sussurra di generazione in generazione, proiettata ai margini delle civiltà moderne, lontana dal traffico di metallo e petrolio, ancora intrisa di magia e di un raro misticismo così radioso da trascendere i secoli.
Attraverso il velo di alcune dolci, malinconiche note pizzicate si viene così introdotti alla vicenda ambientata in una locazione rurale, antichissima, di campi coltivati e natura selvaggia.

Un vecchio taglialegna intento a raccogliere fusti e tronchi, nel fitto del bosco, s’imbatte in un virgulto di bambù differente, sospetto, circondato d’un bagliore luminoso davvero strabiliante.
L’uomo gli si avvicina, curioso e intimorito, e il fusto prende a illuminarsi d’immenso, dando vita al più prezioso dei germogli: schiudendosi, palesa una minuscola bambina in vesti regali... alta non più di trenta centimetri! Non sembra una neonata vera e propria, bensì una principessina in miniatura, qualcosa di inspiegabilmente dolce e decisamente assurdo, simile a una bambolina animata. L’uomo, sebbene spaventato, raccoglie la minuscola creatura che immantinente crolla, addormentandosi nel palmo della sua mano, e la porta a casa, dalla moglie.
I primi minuti sono talmente surreali da volare via, rapendo lo spettatore e trasportandolo in un racconto di stregoneria e credenze popolari, come si fosse all’interno di un antico dipinto del periodo Muromachi, confuso e strabiliante, pacato ma ricercatissimo.
La principessina in miniatura diviene lesta neonata, senza preavviso, e la coppia di contadini ne rimane basita, ma non hanno alternative: saranno loro a prendersi cura della misteriosa orfanella! In fondo, non è una figlia ciò che hanno sempre desiderato?
I colori acquarellati, gli sfondi vaghi e incompleti, ogni elemento interrotto o semplicemente suggerito fanno da teatro a un miracolo sovrannaturale. Lo svezzamento si compie, ben più velocemente che nei tempi consueti, tanto da stupire i nuovi genitori. Il padre chiama la bimba “Hime”, ovvero Principessa, poiché non potrebbe essere altrimenti, e sarà proprio all’ombra delle grandi querce che torreggiano su crinali scoscesi, ricchi di grilli, cavallette e fitto grano, che Hime presto si farà i primi amici, una banda di ragazzini vivaci con i quali vivrà le prime, spensierate avventure.
Il tempo passa, gli anni scorrono, e diventa impossibile non notare il misterioso “dono” della principessina: la bimba sembra crescere molto più velocemente rispetto al consueto orologio biologico, tant’è che nel giro di qualche anno si ritrova già in fase pre-adolescenziale. A cosa è dovuto tutto questo? Quale disegno ha per lei il destino? Da dove viene esattamente?
I genitori adottivi si pongono spesso queste domande, ma mettono davanti a tutto la felicità della figlia. È questo il vero significato dell’amore, e sarebbe splendido se ovunque funzionasse in codesto modo. Ma non sempre amare significa comprendere, e l’amore può avere molte forme.
Così giunge l’età della spensieratezza, l’età dei ricordi più dolci e delle prime esperienze; le giornate di sole sembrano non finire mai, le estati memorabili tanto da riempire il cuore, ogni giorno una nuova avventura: molti di noi potrebbero ricordare la propria adolescenza in maniera similare. Gli amici di Hime però non sono soliti chiamarla tale, bensì Takenoko, ovvero “Bocciolo di bambù”, segno che, in qualche modo, il vicinato campagnolo conosce la sua singolare storia, almeno a grandi linee.

Ma Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.

Chi è, esattamente, Hime? Cosa vuole rappresentare e cosa significa la sua venuta?
Tanti sono i quesiti, e altrettante potrebbero essere le ipotesi, tuttavia, la più semplice, senza dubbio, è anche quella più preziosa: lei non è altro che la metafora della nostra esistenza. Sì, l’avatar della traccia delle nostre vite, tanto banali quanto uniche e inimitabili. Viene spontaneo rispecchiarsi nei momenti più dolci e toccanti, ancor più se nel cuore si custodiscono ricordi simili, a maggior ragione da tanto tempo.
A riprova di ciò, la prima parte del film risulta solida, intensa e commovente, a tratti ilare, gioviale, solare; ci mostra (anche) piccole gioie che solo chi è genitore può capire appieno, ricche di intensissimi sentimenti e meraviglie scoperte giorno dopo giorno: il miracolo della vita e di ciò che ne concerne.
L’opera è un ossimoro: narrata lentamente con ritmo eterogeneo, di norma blandissimo, brucia tuttavia le tappe esistenziali di una fiaba che, di fatto, il tempo lo trascende. Nella sua lentezza ritroviamo la poesia del tempo che fu, la cadenza di una riflessività e d’una saggezza di stampo prettamente orientale, il tutto amalgamato al ritmo compassato che scandisce ogni momento. Si affrontano tematiche importanti spesso in chiave metaforica, con l’espediente delle fasi della vita e del suo mutare in base alle esigenze familiari: cambiare dimora lasciandosi alle spalle la vita precedente e le proprie origini, il dualismo campagna-metropoli, lo stravolgimento della quotidianità da semplice contadina a nobile damigella.
Eh già, perché la vita di Hime sarà sconvolta da un colpo di scena inaspettato che la porterà a cambiare totalmente stile di vita, abbandonando a malincuore i luoghi e le persone che le hanno permesso di identificarsi in quanto tale. Cogito, ergo sum, anche e soprattutto per merito di chi abbiamo accanto.
Inevitabilmente, lo sfarzo e la vita di città muteranno radicalmente le cose.
La parte centrale del racconto è la più lenta, ma non annoia mai; trasuda tradizione nipponica imperiale, antiche sfumature nobiliari, abitudini millenarie intrecciate al fascino degli antichi angoli di palazzi curati e preziosi, circondati da caratteristici giardini e laghetti ricchi di pesci, flebili lanterne e lunghe passeggiate al tramonto. Merito di una colonna sonora magica, minimale in alcuni tratti, estremamente toccante in altri, pertinente e coinvolgente, ogni frangente risulta piacevole, pagine insostituibili di un racconto che si completa minuto dopo minuto.
Tuttavia, come s’era già inteso, le cose per la nostra giovane protagonista non saranno affatto né semplici né spensierate, e le difficoltà cominceranno a spuntare una dopo l’altra. Le animazioni, nei momenti critici, come per necessità, muteranno in veri e propri schizzi dinamici capaci di stordire e lasciare a bocca aperta lo spettatore, inaspettatamente sconvolgenti, aggressivamente profondi, scuri, quasi spaventosi, freghi violenti, carichi d’ira e dolore in contrasto al tratto gentile che fino a quel punto aveva rappresentato l’opera.

Hime continua ad intonare quella canzone. La conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava. Parole di una notte al chiaro di luna.

Possiamo tranquillamente asserire che “La principessa splendente” è una grande, profondissima, commovente metafora della vita.
La parte finale è forse la più bella: fra sogno e realtà, la vicenda si avvia verso una conclusione quasi straziante nella sua triste dolcezza, scivolando in qualcosa di simbolicamente onirico, trascendendo la logica terrena e rivelando completamente quel lato sovrannaturale appena accennato per tutta la storia; gli autori riescono nella difficile impresa di valicare i confini di un misticismo mitologico, affascinante, tuttavia quieto e ineluttabile.
E se “La principessa splendente” è davvero la metafora della vita di ognuno di noi, è inevitabile rimembrare che è proprio la vita la più dura delle insegnanti: Oscar Wilde diceva che essa è terribile, poiché prima ti fa l’esame, poi ti insegna la lezione.
Niente di più calzante: l’epilogo colpisce piano, ma inesorabile affonda la lama dell’emotività nel cuore dello spettatore. Attraverso il filtro delle similitudini, si possono cogliere aspetti duri e dolorosi della vita stessa (l’accettazione dell’addio è forse la più atroce che ci verrà messa di fronte).
Il saper guardare oltre, il distacco dal focolare e il “guardare avanti”, lasciando la mano di chi ci ha cresciuto: tutte esperienze che sono state o saranno pressoché inevitabili per ognuno di noi, che ci hanno segnati (o ci segneranno) per sempre, ma che potremo accettare solo e soltanto quando riusciremo a metabolizzare totalmente la bellezza e la crudeltà di questa nostra esistenza, splendente e spietata nella sua mutevole interezza.
“Questo mondo è crudele, ma è qui che sono nato ed è qui che voglio vivere, anche per le persone a cui voglio bene”, recitava Eren Yaeger ne “L’attacco dei giganti”: strano citarlo ora, ma altrettanto pertinente, poiché, se la vita è questo dannato percorso irto di difficoltà, sta a noi cogliere, passo dopo passo, ogni attimo di meritata, giusta felicità, e fare di tutto per far sì che questa perduri.

Come accennato poc’anzi, il finale è incredibilmente intenso.
Scivola via fra le dita come sabbia fine, rischia di riempire gli occhi di lacrime, il cuore di malinconia e la testa di pensieri affollati, tanto tristi quanto lieti. La morale, potentissima e sincera, raggiunge il centro del nostro io: mentire a noi stessi credendo di fare la cosa “giusta” non ci renderà mai felici. Solo ascoltando sinceramente e onestamente i nostri desideri, al di là di etichette, formalità e doveri, potremo sperare di trovare la vera felicità, perché prevaricando il nostro bisogno di libertà e appartenenza faremmo solo un grande torto a noi stessi. Saper accettare i cambiamenti della vita non è mai facile, ma avere il coraggio di rispettarci e capire chi siamo e cosa desideriamo davvero, quello sì che è davvero complicato. E il bello di questo lungometraggio è proprio il modo in cui riesce a ricordarci che in ognuno di noi risiedono tristezza, gioia, rabbia, allegria, un’intera gamma di sentimenti, amalgama inesplicabile e meraviglioso del nostro essere che dona colore alle nostre giornate: diamo la giusta importanza ad ognuna di queste sfumature e, forse, potremo davvero trovare la serenità. Proviamo a valorizzare ogni attimo che passiamo assieme ai nostri cari, perché sono momenti che non torneranno mai più.
Così, come ben sappiamo, che, un giorno, tutto avrà fine.
La piccola Hime, col suo fare spensierato e ribelle, si permette di rammentarci che, nel bene e nel male, lasciandoci alle spalle lacrime e sorrisi, è sempre meglio esserci stati, gioendo e soffrendo, che non esserci stati affatto.

Hime conosce una canzone, e la conosce per intero. Conosce le parole di quella canzone, anche le parole che sua madre non le ha mai sussurrato mentre la cullava.
Parole di una notte al chiaro di luna.
E la Luna, che quelle parole le ha ascoltate per tutto questo tempo, presto risponderà.

Mai e poi mai avrei immaginato che uno dei migliori film dello Studio Ghibli fosse quello più atipico, meno classico, tanto incantevole da andare oltre i canoni consueti e conosciuti: una grande, profondissima riflessione sulla vita e su ciò che diamo per scontato ogni giorno, fin quando non giunge il cambiamento, e il presente diviene passato.
Un vero e proprio capolavoro, poesia animata che non potete né dovete perdervi.