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7.5/10
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Arrivo a recensire la serie “Watamote” a distanza di anni dalla sua uscita e, leggendo i commenti agli episodi e alle recensioni, devo riconoscere che la serie, appena resa disponibile, ha riscosso molta attenzione dagli iscritti, perlopiù in senso ampiamente positivo.

Già il titolo per esteso è tutto un programma: “Watashi ga Motenai no wa Dou Kangaete mo Omaera ga Warui!” (traduzione: “Dite quel che volete, ma è colpa vostra se sono una sfigata!”) è inquietante e suscita curiosità, e fin dal primo episodio (anzi, fin dall’opening) “picchia duro” senza tanti riguardi (oserei scrivere anche senza pietà) sul “fantastico” mondo degli otaku, nerd e geek, nonché sulla loro “Weltanschauung”.

Senza ‘spoilerare’ troppo il contenuto della serie, l’anime narra la vita di una ragazzina al primo anno delle superiori, Tomoko Kuroki. Non è una ragazza di bell’aspetto, è timida all’inverosimile e non ha praticamente amici (ad eccezione di Yu Naruse, compagna di classe - e di passioni nerd - ai tempi delle medie). Passando alle scuole superiori, le sue aspettative di miglioramento della sua vita sociale e sentimentale erano molto alte. Si tratta delle aspettative tipiche di una ragazzina di quindici-sedici anni: avere amiche con cui confidarsi, studiare e giocare, avere un ragazzo ed essere più “desiderata” o “ricercata” a scuola e nella sua vita quotidiana.
Tuttavia, i dodici episodi sono tutti incentrati sulla narrazione della sua cronica e goffa incapacità di relazionarsi con gli altri al di fuori del contesto familiare (dove comunque ha diversi problemi sia col fratello sia con la madre).

Ed ecco la prima peculiarità di “Watamote”: è sì un anime scolastico-slice of life, tuttavia di romantico, carino e comico non ha proprio nulla (nonostante le apparenze)! Anzi, tende a scardinare in modo piuttosto truce e grottesco il solito mondo “patinato” e idealizzato delle ragazze/studentesse moe, belle, ingenue e se del caso un po’ bizzarre che arrossiscono anche solo per uno sguardo e che vivono in una realtà “artefatta” senza tanti problemi, con il perenne difetto di innamorarsi del solito bravo ragazzo un po’ tonto di turno.

In “Watamote” non c’è nulla di tutto ciò: Tomoko è bruttarella non tanto e solo per l’aspetto fisico, ma per come si pone con gli altri, si concia, si abbiglia (sempre trasandata) e si esprime (spesso anche in modo duro e sboccato)... insomma, un’anti-moe per eccellenza.
E gli altri personaggi (pochi invero) che gravitano intorno al mondo “virtuale” di Tomoko brillano (salvo per l’aspetto fisico del fratello Tomoki) per la loro... “normalità”, da intendersi anche come capacità di vivere secondo gli schemi e principi omologati della collettività.

“Watamote” diventa così un’opera che, sotto l’apparente vena comica, diventa invece “tragica”, documentando in modo anche satirico le psicosi, le frustrazioni e l’incapacità di vivere la realtà da parte di Tomoko.
È uno stile paragonabile a quello dei mitici film di Fantozzi? In senso lato forse sì, ma il grande Paolo Villaggio con la mitica maschera del rag. Ugo Fantozzi voleva deridere, senza mai umiliare, tutto quel ceto medio che idolatrava le proprie “catene” e accettava di fare da “zerbino” a chi deteneva il potere, a fronte della concessione delle briciole del finto benessere raggiunto.

“Watamote” si fa letteralmente beffe di una generazione di ragazzi come Tomoko che, per i motivi che volutamente non approfondisce, per non dare loro un alibi, sono incapaci di confrontarsi con soggetti reali e autonomi, di comprendere l’imprevedibilità di confrontarsi con l’altro diverso da sé.
E così si rifugiano nella realtà virtuale, nelle relazioni con personaggi di fantasia che non sono altro che la proiezione della loro mente, e quindi è impossibile avere una relazione con lui o lei: se caso mai riuscissero a relazionarsi con qualcuno, saranno sempre limitati dalla concezione di una relazione come “proiezione” di loro stessi, con tutti i problemi che ne conseguono a livello di insicurezze, fobie e paranoie.

Ho scritto che “Watamote” non approfondisce i motivi per cui Tomoko sia così: di sicuro l’anime non sembra poi gettare tante ombre né sulla società né sulla forma di società più semplice, ossia la famiglia. Né a scuola né a casa nessuno l’ha maltrattata, bullizzata, isolata... Semmai si potrebbe solo scrivere che l’immagine che viene resa è quella della emarginazione “involontaria” o segregazione “omissiva”. Mi spiego meglio: nessuno, nemmeno i familiari più stretti, salvo alla fine una rappresentante del consiglio studentesco, fa nulla per cercare di aiutare Tomoko. La lasciano lì a struggersi nelle sue paranoie, inclusa la sua unica amica Yuu, che da nerd si è trasformata nel giro di una stagione in una perfetta moe ben inserita nel contesto sociale.

Insomma, “Watamote” sembra un j‘accuse a coloro che come Tomoko si riducono a vivere nel modo rappresentato... e che in fondo la responsabilità delle loro sofferenze risiede solo in loro e nella loro incapacità di inserirsi nelle regole e consuetudini di vita “imposte”... e come corpi estranei vengono man mano relegati ad auto-emarginarsi. In realtà, e “metaforicamente”, dimostra tutti i limiti delle società cosiddette “evolute”, tecnologiche e immerse nel “benessere”, dove chi non è disposto a vivere secondo i modelli “stereotipati”, o non è capace (come Tomoko), viene lasciato a sé stesso senza esercitare alcun tentativo di “recupero”, possibilmente assecondando la loro indole.

La solitudine, o meglio l’isolamento, di Tomoko è anche alimentata dall’insicurezza tipica di quel periodo di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta che si chiama “adolescenza”. I pensieri molto spesso folli e patologici espressi nei monologhi di Tomoko consentono di intuire meglio la sua immaturità, la sua insofferenza a trovare una mediazione alle situazioni a lei indigeste, il suo assolutismo tipico dei bambini, come la sua profonda invidia nell’osservare come per gli altri sia facile riuscire a socializzare.

La traduzione del testo dell’ending della prima puntata è paradigmatica di quanto sia forte il disagio di Tomoko... tuttavia “Watamote”, pur nella rappresentazione più profonda ed estremizzata delle psicosi di Tomoko, non contiene come un altro anime dedicato al “disagio” giovanile (“Welcome to the N.H.K.”) la disillusione e il mesto disincanto di coloro che non hanno più voglia di opporsi al sistema e cambiarlo, adeguandovisi.
Tomoko, nella sua testardaggine infantile e nella sua visione irreale della vita, nonostante le delusioni raccolte, vuole cambiare, e al termine della serie incontra una compagna di scuola membro del consiglio studentesco che compirà un gesto nei suoi confronti che nessuna realtà virtuale sarà in grado di donarle: un abbraccio consolatorio come primo segno di un passo in avanti compiuto da un estraneo verso Tomoko, che anela ad essere accettata e considerata per quello che è.