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Nel lontano 1917, Pirandello mandava in scena una commedia intitolata “Il piacere dell’onestà” e io, in questa sede, ripensando al titolo dell’opera teatrale, ho deciso di essere onesto al cento per cento con voi lettori. Makoto Shinkai è a mani basse il mio regista giapponese preferito. Sia sul piano contenutistico, sia sul piano stilistico, le sue opere riescono sempre a cogliere nel segno e lasciare una traccia indelebile dentro di me, e così è stato quando mi sono fronteggiato con alcuni dei suoi capolavori, come “Il Giardino delle Parole”. Quindi, in tutta onestà, questa recensione risentirà fortemente del mio amore feticistico per questo autore.

Nei pochi minuti a disposizione, Shinkai fa giusto in tempo a gettare le basi della storia, incentrata sulle vicende della famiglia Okamura. Le poche scene abilmente costruite dal regista, non permettono altro allo spettatore, che farsi un estemporaneo quadro della situazione, da cui ognuno, però, può trarre un valido insegnamento.

La storia ruota intorno alle vicende di una famiglia composta da quattro membri: la madre, il padre, la figlia Aya e il gattino Mii. Aya da piccola era una bambina solare, che amava trascorrere le giornate con i propri genitori. Un giorno, però, la madre si trasferì per lavoro e, da quel momento in poi, le cose iniziarono a cambiare. Per colmare, almeno in parte, il vuoto lasciato dalla partenza della madre, il padre di Aya decise di regalarle un dolce gattino, che sarebbe diventato il nuovo centro della sua vita. Sennonché, così come Madre Natura ha deciso, gli anni passano, Aya inizia a cambiare e con lei le sue passioni. Da “adulta” riesce a coronare il sogno di ogni adolescente giapponese, andare a vivere da sola. Ecco, dunque, che i rapporti familiari si riducono ai minimi storici e le persone che ti hanno cresciuta e educata, ti sembrano dei perfetti sconosciuti, che non hai voglia né di sentire, né di vedere. Fino a quando, un evento, talvolta spiacevole, non riesce a riunire la famiglia tutta e allora il ritorno alla vita di un tempo, non sembra poi neanche tanto orrido.

Shinkai non fa altro che riportare su pellicola la vita di un qualsiasi adolescente giapponese che, raggiunta una certa età, si lascia tutto alle spalle per non voltarsi più indietro. Una vita che, da quel momento in poi, li vedrà affrontare da soli le difficoltà di questo mondo burbero, perché è soltanto nel momento in cui te li risolvi da solo i problemi, che diventi veramente adulto e questo i giapponesi lo sanno bene. Il tutto in soli sette dannati minuti e raccontato da una voce narrante alquanto particolare ed eccentrica, quella del felino. La presenza di Shinaki è palpabile per tutta la durata nel corto, nel leitmotiv del gatto che risale alla sua prima regia “Lei e il gatto”, nel comparto musicale che si serve, perlopiù, del pianoforte e in quello grafico, come al solito inconfondibile e sublime.

“Nonostante tutto, sai bene che la vera felicità è una cosa duratura”.

Con questa citazione vi lascio, nella speranza che possiate dedicare sette minuti della vostra vita per guardare questo corto e apprezzarne la bellezza.

P.S. Lo so cosa state pensando: “ma come, tutto il pippone iniziale su Shinkai, per poi dire queste due cavolate?”. E certo, il corto dura sette minuti, non è che ve lo posso raccontare tutto io, con tanto di morale, altrimenti che sfizio c’è. Poi, a dirla tutta, vado di fretta perché dovrei andare a correre e le scarpe da ginnastica mi stanno guardando in cagnesco.

22/06/2022