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Contro ogni mia aspettativa e dopo la visione di pellicole meravigliose, che mi hanno fatto emozionare come un bambino alla prima esperienza con il fantastico mondo dei pokémon - penso, in particolar modo, a “Il mio vicino Totoro” e “Il Castello errante di Howl” -, è arrivata la prima “delusione” targata Studio Ghibli. “Si alza il vento”, ultimo lavoro sceneggiato dal maestro Miyazaki, pubblicato nel 2013, non è riuscito, a differenza di altri film, a penetrarmi nel cuore per lasciargli un segno indelebile. Complice, sicuramente, il mio scarso interesse per il mondo dell’aviazione, invece molto caro al sensei.

Tratto dal manga "Kaze Tachinu" sceneggiato e disegnato dallo stesso Miyazaki nel 2009, a sua volta ispirato al romanzo "Si alza il vento" di Tatsuo Hori, il film segue le vicende reali di Jirou Horikoshi, l'uomo che ha creato il Mitsubishi A6M Zero Fighter, l'aereo più famoso della storia giapponese. Dalla sua infanzia, durante la quale sognava di diventare progettista di macchine volanti, ispirato dal suo eroe, il pioniere dell'aviazione italiana Giovanni Battista Caproni, agli anni della maturità, quelli del coronamento del suo sogno che, nel frattempo, venuto a contatto con la realtà, ha assunto forme distorte.
Siamo nel periodo a cavallo tra gli anni ’20 - ’30 e il Giappone si appresta a vivere le pagine più buie della sua storia. Devastato, prima, dal terremoto del Kanto del 1923, poi dalla Seconda Guerra Mondiale che, come una nube nera in lontananza, si avvicina man mano che il vento inizia a soffiare più forte. La guerra sta arrivando, tutti lo sanno. Bisogna, dunque, preparare le persone al peggio e addestrare i soldati. Sono tempi duri, tempi di guerra, in cui, se si vuole continuare a coltivare i propri sogni, bisogna venire a patti con il mondo reale. Questa è la condizione di Jirou, che riesce a coronare per metà il suo sogno. Diventa progettista, così come aveva sempre sognato fin da bambino, ma di aeroplani destinati ai militari e alla guerra, perché si sa, le cose non sempre vanno come noi vorremmo.

Così come sarebbe stato l’anno successivo per il film capolavoro di Shigemichi Sugita, “L’isola di Giovanni”, anche la pellicola di Miyazaki si pone al crocevia tra realtà e sogno. Elementi che, nel corso del film, tendono a confondersi, fino a diventare, in alcune sequenze, un tutt’uno. Primo elemento di “disturbo”. Quando le scene che raffigurano eventi del mondo reale non hanno distinzione rispetto a quelle del mondo onirico, la comprensione diventa difficile. Non sempre, ma in alcuni importanti frangenti. Disturbo e disorientamento, che tendono ad amplificarsi, con il susseguirsi degli anni e delle stagioni, che avviene senza alcun tipo di riferimento cronologico. La guerra si sta avvicinando, certo. Il riferimento storico è chiaro. Ma non conoscere l’anno esatto in cui si svolgono determinati eventi, soprattutto se si considera che sul volto del protagonista non sembrano apparire i segni della vecchiaia, fanno di questa mancanza un secondo importante elemento di “disturbo”. Ripercorrendo, seppur a grandi linee, una buona parte della vita di Jirou Horikoshi, il film si prende parecchio, forse troppo tempo, terzo elemento di “disturbo”. Nonostante non abbia mai sofferto di quella patologia che non permette alle persone di vedere e godere di film lunghi, per la prima volta, a contatto con un Ghibli, ho avvertito leggermente la pienezza delle due ore, tanto da costringermi ad una pausa nel mezzo. Dovuto, sicuramente, ad alcuni momenti morti e scene tagliabili, che gravano soprattutto sulla prima parte di film, lì dove la seconda procede a ritmo piuttosto spedito. Per la prima volta, inoltre, non sono riuscito ad empatizzare appieno con il protagonista, un po’ per la sua freddezza, un po’ perché la sua professione non riesce proprio ad attirarmi. E siamo a quattro. Non ho sofferto, di contro, la mancanza dell’importante componente fantasy. Mentre non ho particolarmente apprezzato il modo in cui si tratta quella amorosa, quinto elemento di “disturbo”. Come alcuni di voi sapranno, sono un amante dei finali felici. Nonostante ciò, riesco ad apprezzare anche quelli drammatici, quando sono ben costruiti, e questo, a mio modesto parere, non lo è. Eppure, comprendo benissimo che, molto probabilmente, si è trattato di una scelta biografica, legata alla vita del vero Jirou Horishiki. Per il resto, la storia d’amore con Naoko rimane molto dolce e, cosa più importante, dà un’idea molto chiara di cosa e come fossero le relazioni amorose al tempo, altro che convivenza prima del matrimonio. Infine, il vero tasto dolente, quello che mi ha portato a definire questo film come il, prendete il termine con le pinze, “peggior” Ghibli, fino ad ora. Un senso di vuoto, alla fine dei quasi centoventi minuti, che mi ha lasciato sinceramente perplesso e mi ha portato ad una conclusione, ovvero che probabilmente non sono ancora pronto per apprezzare un film così adulto come “Si alza il vento”, perché a vent’anni non so ancora nulla del mondo del lavoro e il mio songo è ben lungi dall’essere coronato.

Ora potreste chiedervi: “Tutte queste critiche, e poi gli dai 7,5?”. Sì, perché al netto di tutti gli elementi di “disturbo” citati sopra, riconosco che il film tratta tematiche importanti e molto adulte e lo fa con la solita abilità di Miyazaki che, con certi argomenti, ha sempre dimostrato di saperci fare. Inoltre, come al solito, la pellicola è abbellita dal lavoro superbo dei due comparti, tecnico e musicale. Per non parlare della regia del maestro che, a settant’anni suonati, ci dimostra ancora una volta che il talento non ha età.

In conclusione, vedetevi assolutamente “Si alza il vento”, fan o meno dello Studio Ghibli, e poi rispondete a questa domanda: “Avete realizzato il sogno di quando eravate bambini?”.