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Spesso ingiustamente dimenticato nell’oblio, oscurato dalla fama del celeberrimo Hayao Miyazaki, con cui nel lontano 1985 fondò lo Studio Ghibli, Isao Takahata è stato, al pari del sensei, autore di lungometraggi iconici, in grado di “competere” con quelli del suo collaboratore, nonché amico di lunga data. Perché se il buon vecchio Miyazaki ha dato alla luce capolavori come “Il mio vicino Totoro” e “Laputa – Il Castello nel cielo”, Takahata è stato il regista di opere di straordinaria fattura come “La tomba delle lucciole” e “La Storia della Principessa Splendente”. Entrambi film dal forte impatto emotivo, estremamente coinvolgenti e sempre intrisi di quella cultura e quel familismo giapponese che, agli occhi di noi occidentali, non possono che apparire come modelli da seguire. Una tendenza, quella di trasmettere attraverso il grande schermo i valori tradizionali della società nipponica, talvolta anche mistificando, che si ritrova in molte delle pellicole targate Ghibli, tranne che in una, “I miei vicini Yamada”.

In assenza di qualsiasi tipo di filtro, Isao Takahata trasporta lo spettatore nella vita quotidiana di una comune famiglia giapponese, quella degli Yamada, il cui nucleo è composto dalla nonna materna, Shige, la madre svampita e il padre pseudo-autoritario, Matsuko e Takashi, e i due figli: la bambina, Nonoko, e il ragazzo nel pieno della propria adolescenza, Noboru. Suddividendo il lungometraggio in tanti capitoli di varia lunghezza, Takahata ci narra dei fatti, dei problemi e delle disavventure a cui va incontro la famiglia Yamada, che lo spettatore impara a conoscere man mano che la storia prosegue. Ecco, quindi, che il quadro viene delineandosi poco per volta. Takashi è il tipico padre di famiglia, la cui vita si scandisce in due blocchi precisi: casa e lavoro. Questa è la spirale in cui è costretto, anche perché se non ci fosse lui, nessuno baderebbe ai bisogni economici della famiglia. Takashi ogni giorno porta il pane a casa, indi per cui esige rispetto per se e per la sua stanchezza. Cerca a più riprese di imporre la propria autorità sulla famiglia, senza però riuscirci, essendo succube delle due donne di casa. Matsuko è una casalinga, che si occupa dei bisogni primari dei propri famigliari. A lei è richiesta una certa dedizione, soprattutto nella cura del focolare domestico. Nonostante ciò, è un po’ svampita e dimentica le cose troppo facilmente. Ma guai a criticarla. La casa la gestisce lei e sempre lei la vive ventiquattro ore su ventiquattro senza sosta, quindi guai a fiatare. Shige, la madre di Matsuko, è donna di una certa età, molto probabilmente più vecchia della casa in cui vive sua figlia. Per questa ragione, conosce troppo bene il mondo e i principi che lo muovono. Donna dotata di grande autorità, verso cui Takashi mostra una certa riverenza. Anche lei, complice sicuramente gli anni che si porta sulle spalle, dimentica troppo spesso le cose da fare (ora si capisce da chi ha preso Matsuko). Noboru è il primogenito, quindi, le aspettative riposte in lui sono molto alte. La scuola è il suo dovere primario, ma non sembra essere molto portato nello studio. Inoltre, inizia a scoprire per la prima volta il dolce frutto dell’amore. Il ragazzo sta crescendo e le preoccupazioni dei genitori con lui. Nonoko è la piccola di casa. A lei tutto è dovuto e tutto è concesso. È sicuramente una bambina intelligente, ma del mondo sa ancora troppo poco e l’ingenuità, tipica di chi ha la sua età, non l’ha ancora abbandonata.

Così delineati, i personaggi della storia appaiono estremamente familiari, soprattutto a coloro il cui focolare è composto dagli stessi membri. L’immedesimazione è quindi spontanea ed è resa possibile dall’incredibile realismo, che muove l’intera opera. Non nego, infatti, di aver rivisto nel film parecchi degli scenari in cui sono coinvolto giornalmente con i miei genitori, e questo perché Takahata non fa altro che narrare le vicende di una famiglia giapponese come tante altre, con l’unico obiettivo di mostrarne i rapporti gioco-forza che ne regolano il funzionamento. La famiglia è come una macchina, tutt’altro che perfetta, il cui meccanismo può essere appreso prestando attenzione agli eventi e ai fatti che si susseguono nella quotidianità e a come questi vengono affrontati. In quanto macchina, ogni membro svolge un ruolo fondamentale al suo interno, ma le gerarchie sono tutt’altro che ben definite e, spesso e volentieri, capita che alcune componenti possano entrare in conflitto tra di loro. In una famiglia non esiste l’io o il tu, esiste il noi. Se c’è un problema lo si risolve tutti insieme, ma soprattutto si impara ad accettare i difetti altrui e a conviverci. Non lasci tua moglie perché è un po’ svampita, ma ci fai l’abitudine e alla fine ti rassegni. Per il bene della famiglia e per permettere a quest’ultima di vivere una vita serena. Un messaggio forte, che io condivido in pieno. La vita di tutti noi, anche quella familiare, è fatta di alti e bassi e se ci soffermassimo soltanto sui suoi aspetti negativi, vivere sarebbe impossibile. Molto meglio comprenderli, riconoscerne l’esistenza e andare avanti lo stesso, cercando di apprezzare le cose buone che la vita, come le persone che ci stanno intorno, ha da offrirci.

Questa storia, nella sua immediatezza, si fa carico di valori e significati di un certo spessore, che compensano la semplicità dei suoi disegni. Takahata, come avrebbe fatto anche per “La storia della Principessa Splendente”, opta per uno stile che sia tutto giocato sull’alternanza di matita e pastelli, talvolta mescolati a colori acquerellati. L’essenzialità dello stile raggiunge l’apice nelle scene che sembrano appena abbozzate, dove il centro è ben definito e lo sfondo sembra quasi essere stato dimenticato. Una semplicità necessaria, che si conforma a quella della storia e che, con quest’ultima, si mescola dando vita ad un connubio ottimo. Musicalmente parlando, siamo dinanzi ad un altro capolavoro, merito soprattutto di Akiko Yano, che ha adattato perfettamente la sua musica allo stile dell’opera. Da menzionare, la citazione a Kekko Kamen, del grandissimo Go Nagai, a cui Takahata sembra voler riservare il giusto riconoscimento, con scena e musica perfettamente in linea con l’opera originale.

In definitiva, siamo alle solite. Ghibli è ormai sinonimo di certezza, secondo soltanto alla morte e se cercate qualcosa di spontaneo, magari da guardare a spezzoni, “I miei vicini Yamada” potrebbe fare al caso vostro.