Non è mai facile dare il proprio giudizio su un titolo che è ancora nel pieno del proprio processo di sviluppo. Non è solo una questione - banalmente parlando - di bug più o meno gravi e, in generale, di un comparto tecnico non ancora rifinito; si tratta di dare la propria opinione su qualcosa di ancora non definito, che sta a metà fra le promesse degli sviluppatori per il futuro e ciò che è in grado di offrire quel prodotto nel momento in cui viene avviato sulla propria macchina da gioco. E se è vero che è facile inquadrare molti titoli in Accesso Anticipato - alcuni si presentano già completi sotto molti punti di vista, altri sono praticamente ingiocabili - per il complesso e ambizioso We Happy Few il dilemma non è di così facile risoluzione.

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Allo stadio attuale delle cose, il secondo titolo di Compulsion Games (già autori di Contrast) è un titolo potenzialmente sbalorditivo sul piano dell'ambientazione e delle tematiche affrontate, ma carente (per ora) sul piano del puro gameplay a causa di una certa semplicità e banalità delle proprie meccaniche di fondo. Ma partiamo dal principio: We Happy Few è ambientato in una Inghilterra alternativa degli anni '60, in particolare nella cittadina di Wellington Wells. I suoi abitanti, soprannominati "Wellies", fanno larghissimo uso di una droga chiamata Joy, capace di instillare in chi la assume un senso di gioia e beatitudine. Com'è facile immaginare, il rovescio della medaglia è che chi assume tale droga è anche facilmente manipolabile; e infatti la Wellington Wells che si presenta davanti agli occhi del giocatore è una città-fortezza dalle chiare impronte distopiche, contraddistinta da una tecnologia avanzata, dalla voce ossessiva - trasmessa attraverso ogni genere di teleschermo - di un misterioso personaggio chiamato Uncle Jack, impegnato a mantenere lo status quo, e dall'assoluta mancanza di pietà verso chi non assume il Joy, che viene subito marchiato come "Downer" e inseguito dai poliziotti e persino dai comuni cittadini.
 

 
E questo è proprio il destino del nostro protagonista, Arthur Hastings, un giornalista che nell'interessante incipit del gioco comincia a ricordare fortuitamente degli eventi traumatici legati alla figura del fratello Percival, che lo porteranno a non prendere il Joy. Costretto a scappare dai propri colleghi e dalle forze dell'ordine, il giocatore si ritrova, all'inizio della partita, nel quartiere dei Giardini, dove vengono esiliati tutti i non drogati. Il primo impatto, come si può intuire da questa sommaria premessa, è senza dubbio accattivante: l'estetica di We Happy Few è ispirata e ricercata, con uno stile retrofuturista che ricorda Bioshock e una sceneggiatura che solleva temi di indubbio interesse mutuati dai capolavori affermati del genere distopico, come 1984 di Orwell e Brave New World di Huxley; lo sguardo attento e onnipresente di Uncle Jack, in particolare, con i suoi imperativi reiterati e i suoi suggerimenti categoricamente conformisti, non può fare a meno di rievocare personaggi come il Lewis Prothero di V per Vendetta. Tutto, nel gioco, è stato concepito accuratamente per restituire sensazioni familiari a qualunque appassionato dei lavori sopracitati, dal perenne senso di oppressione ai comportamenti esagerati e chiaramente disturbati degli abitanti.

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A questo gustosissimo contorno di trama e lore fa da contraltare una struttura a metà fra meccanismi rodati del proprio sotto-genere e tratti distintivi specifici del titolo. We Happy Few si poggia infatti sui capisaldi del genere survival definiti negli ultimi anni da titoli come DayZ e Don't Starve, e questo vuol dire che il giocatore dovrà esplorare la cittadina di Wellington Wells alla ricerca di ogni oggetto utile immaginabile, dalle provviste necessarie per non morire di fame o sete per arrivare ad ogni genere di attrezzi e cianfrusaglie, necessari poi per costruire gli oggetti necessari per proseguire nella propria avventura, tramite un sistema di crafting che già dalla build provata si configura come sufficientemente complesso e intricato. A tale, consolidato impianto Compulsion Games ha voluto aggiungere un pizzico di originalità, tra l'altro suggerita dalla peculiare situazione del protagonista Arthur: è infatti necessario sapersi "inserire" all'interno della società di Wellington Wells per evitare di generare sospetti, mescolandosi ai propri concittadini attraverso un complesso sistema che considera il tipo di abiti utilizzati (chiaramente, quelli di più costosa fattura saranno apprezzati dagli abitanti del quartiere ricco della città), lo stato di salute di Arthur - per esempio, i cittadini saranno in grado di capire se ha assunto il Joy oppure no, con le conseguenti reazioni - e il comportamento tenuto in generale dal giocatore, il quale potrà scegliere se superare i problemi andando di stealth o facendosi largo con la forza.

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A questo invitante quadro complessivo aggiungiamo poi un altra delle peculiarità del titolo, ovvero il mondo generato proceduralmente: le strade e i parchi, esplorabili liberamente, di Wellington Wells saranno infatti frutto di algoritmi procedurali che creeranno una variate inedita ad ogni nuova partita, e all'interno di tale mondo di gioco casuale verranno inserite poi le quest e le subquest -  sempre fisse - destinate a sviluppare la trama e i personaggi, in un sistema che ricorda per più di un verso la serie Diablo. Gli sviluppatori promettono, per la versione finale del gioco, tre personaggi compreso Arthur, ognuno con la propria storia e la propria serie di missioni personale; allo stato attuale, la versione in Accesso Anticipato di We Happy Few permette di girovagare per la città, compiere diverse missioni sia principali che secondarie, e poco altro. Il cuore di questa build risiede nelle meccaniche da roguelike survival che contraddistingueranno anche il prodotto finale, tra case da svaligiare, risorse da raccogliere, malattie mortali da tenere a bada e contatori interamente focalizzati sullo stato di salute psicofisica del nostro personaggio.

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Il problema del gioco che emerge subito, senza mezzi termini, è che esso si poggia su meccanismi strutturali ormai sviscerati a più non posso dalla concorrenza, spesso anche in maniera migliore. Nella build corrente, We Happy Few è decisamente troppo facile: la città è vuota e francamente noiosa da navigare, e le sezioni sia di stealth che di combattimento sono contraddistinte da una trivialità di fondo che le rende spesso banali; il cibo e le risorse sono abbondanti in tutta la città, e sebbene ciò abbia l'indubbio vantaggio di permettere al giocatore di focalizzarsi di più sulla trama (quel poco di essa presente al momento, quantomeno), al tempo stesso non può fare a meno di condurre alla noia, a causa anche di una eccessiva microgestione di un inventario il cui misero spazio a disposizione è decisamente troppo poco accomodante nei confronti del giocatore. Persino l'aspetto apparentemente più innovativo del gioco, cioè la possibilità di mescolarsi alla popolazione ingerendo il Joy, viene reso presto insignificante dalle grandi quantità di droga che è possibile ottenere penetrando nelle case altrui e dalle sempre prevedibili reazioni dei personaggi non giocanti. L'unico sussulto degno di nota è arrivato penetrando nel secondo dei quattro quartiere presenti al momento attuale nel gioco, abitato da Downer contagiati da una misteriosa piaga che si è rivelata piuttosto difficile da debellare.

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Dopo questa prova approfondita, le speranze sono tante quanto i dubbi: We Happy Few è un titolo che trasuda carisma da tutti i pori, persino genialità in rari momenti - vedere la palette cromatica saturarsi all'inverosimile una volta assunto il Joy non si dimentica facilmente -, ma al momento è piagato da alcune magagne di gameplay che si spera vengano riconosciute da Compulsion Games e migliorate. Qualora gli sviluppatori riuscissero a limare gli angoli più grezzi del loro promettente titolo, in particolare per quanto concerne il livello di difficoltà e la caratterizzazione degli ambienti, allora avremo di fronte un esponente di indubbio spessore all'interno di uno dei generi di maggior successo degli ultimi anni.

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