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Nel 2004 si tirano le fila e ci si rende conto che il tanto atteso capitolo Sanctuary della saga di Hades aveva deluso tutti i fan, per cui si tenta la fortuna con un nuovo lungometraggio.
L’idea di base non è poi così originale, così come disorientante è la collocazione ideale del film in relazione alla continuità della trama.
Uscito infatti tra il capitolo Sanctuary e Inferno, ma collocandosi logicamente all’epilogo della battaglia contro Hades, il film confonde ancora di più le idee dei fan: un poderoso spoiler sul finale del capitolo Elysion attende chi non abbia preso visione del manga di Kurumada. Dunque la prima pecca sta già nella data d’uscita non in continuità con il filo logico della trama delle altre serie.

Certamente l’apparato visivo delle scene iniziali conforta molto, ma l’attesa iniziale sul livello qualitativo rispetto alle serie della saga di Hades viene tradita con lo svolgersi del lungometraggio.
Il livello tecnico non sempre soddisfacente, unito a una trama sconsolante per la sua incoerenza e la sua svuotata e stereotipata ripetitività, snerva perfino un fan incallito come chi scrive questa recensione.

Come già anticipato, la trama non è nulla di nuovo, anzi peggio. I triti motivi che ci accompagnano dalla prima serie non sono venuti meno. Al contrario sono stati rinforzati dalla scomparsa dei Gold Saints, che con il loro storico fascino potevano quantomeno camuffare l’inutilità dei Bronze.
Un Seiya piagnucoloso senza l’ausilio dei Gold non si può certo sopportare. Il tutto è aggravato dal fatto che la sua lagna si dispiega per buona parte del film. Se nelle serie e nei prodotti d’animazione precedenti ancora il protagonista aveva un minimo di dignità, qua ci si chiede spesso a che cosa possa ormai servire ridotto così.
I suoi compagni non sono da meno. Anche Ikki, che nella serie classica aveva il suo appeal, viene contagiato dall’inettitudine degli altri protagonisti e manda definitivamente a quel paese il suo carisma da quando comincia a soccorrere Shun, che tra l’altro non sa fare altro che cianciare e piagnucolare anche lui.
Ovviamente Saori fa sempre il suo dovere, cioè far sì che si trovi per l’ennesima volta in fin di vita, in maniera anche alquanto tragica e generando situazioni difficili a risolversi.
E poi all’improvviso la svolta: uno strascicante Seiya riacquista tutte le forze, si sente imbattibile, fino a che non viene messo in ridicolo nella sua vanagloria dal primo nemico di turno. Reso un’altra volta un verme strisciante, trova misteriosamente e ulteriormente la forza per rialzarsi e ritornare più forte di prima.
Sì, vero, questi elementi erano presenti nelle serie precedenti, ma non si può certo nascondere il fatto che con il tempo gli aspetti più negativi, stereotipati, quasi grotteschi e caricaturali che li contrassegnavano siano diventati sempre più preponderanti, fino a toccare l’apice dell’assurdo in questo lungometraggio.

Eppure gli spunti per creare nuovi personaggi carismatici c’erano. Toma mescolava il mistero della sua esistenza al fascino della sua forza, alla bellezza della sua armatura. Lui e gli altri due angeli di Artemide potevano essere dei tipi interessanti, che però di fatto, seguendo ed esasperando ancora di più la tendenza dei lungometraggi precedenti, diventano delle vane figure di contorno, quasi dei fantocci, che fanno da sfondo alle ciance dei Bronze. Ogni accenno di caratterizzazione di Toma, dunque, rimane appena percettibile per poi scomparire miseramente nell’evoluzione finale dell’angelo.
E il finale? Meglio non arrivarci. Meglio non assistere a scene che possano provocare la repulsione. Meglio chiudere prima di trovarsi di fronte a nudi improponibili, a dèi che piangono perché si sono fatti la bua a causa di uno stolto umano che ha appena finito di piangere a sua volta perché è stato consolato dalla sua bella che lo ha preso in braccio – sì, Saori almeno ha messo un po’ di forza nelle braccia.
“Un essere umano che sconfessa un dio. Questo è inaudito…”. Quante volte ancora ci sentiremo ripetere una frase del genere? A lungo andare può portare all’esasperazione. Per non parlare del fatto che, se resa con un doppiaggio di livello infimo quale è quello italiano, provoca l’orticaria.
Trama ripetuta fino al parossismo e doppiaggio raccattato alla meglio rendono il tutto praticamente insopportabile, soprattutto se rapportato alla gloria della serie storica.

Il lato tecnico non salva di certo il prodotto visto che, a parte alcune eccezioni riguardanti la fotografia, per il resto è praticamente da buttare. A proposito di quest’ultima, opera di Fukuda Takeshi e Shiratori Tomokazu, non si possono trascurare i bellissimi fondali dell’inizio del film, i cui colori evanescenti e fantasiosi proiettano lo spettatore in un’atmosfera quasi onirica, quasi come se si trovasse nella coscienza ancora intorpidita e in bilico tra la vita e la morte di Seiya. Ciò aveva dato una bella spinta all’inizio del film, che si è mantenuta costante solo per gli scenari riguardanti il deserto che si estende al posto del Santuario, per le sue rovine dai colori accesi e quasi sanguigni e per quella sorta di non-luogo sospeso in una dimensione alternativa che è la reggia di Artemide - sebbene anche in questo caso non si capisce come i protagonisti vi si ritrovino catapultati: il potere di una divinità è imperscrutabile d’altronde.

Il character design, prodotto delle mani storicamente congiunte dei geni di Shingo Araki e di Michi Himeno, registra una tristissima parabola discendente, che aveva avuto inizio con il Sanctuary, per poi toccare il fondo nell’Inferno. A esclusione di pochi fotogrammi la qualità dei disegni è scarsa, irriconoscibile. I tratti sono grossolani, i chiaroscuri spesso assenti. L’animazione è penosa, va quasi a scatti. La camminata dei personaggi sembra simile a qualcosa come l’ancheggio delle marionette o lo sgambettare dei gabbiani. Non parliamo dei combattimenti, veri e propri scontri frontali in senso letterale, incidenti di corpi impattati l’uno contro l’altro come due veicoli incidentati. Dov’è finita la storica fluidità delle animazioni di Araki? Dove sono finiti i raffinati capelli al vento, i volti espressivi e i movimenti aggraziati? Forse lo spirito originario dell’opera si era concluso già con l’avventura delle dodici case, forse sarebbe stato davvero meglio finirla, vista la triste linea discendente della saga di Nettuno.

La regia, di Shigeyasu Yamauchi, è a dir poco penosa. Sembra il lavoro di collage di un bambino cieco da un occhio. Le scene sono giustapposte l’una all’altra senza fluidità, i dialoghi tra i personaggi si svolgono sullo scorrere di inquadrature di menti, di bocche, di spalle, di piedi: vere e proprie lezioni di anatomia. A lungo andare tutto ciò esaspera la visione, visto che non si tratta di una tecnica sporadica, ma della costante del lungometraggio.

Certo, il tutto si risolleva se consideriamo il versante musiche, opera dello storico Seiji Yokoyama. Per fortuna il tempo non ha potuto cancellare una genialità e un’espressività inopinabili. Melodie inconsuete, innovative, esotiche accompagnano eventi e situazioni che purtroppo non possono essere all’altezza della grandiosità del comparto sonoro. Violini e altri archi danno vitalità a una fotografia e a un’ambientazione stupende, conferendo loro la giusta intensità, in una sinestesia di colori e suoni che da sola, senza articolare vane trame insensate, avrebbe lasciato il posto a un bel quadro suonato, un’opera d’arte.

Peccato che Masami Kurumada per il soggetto e Yokote e Yamatoya per la sceneggiatura abbiano aggiunto traversie inutili per protagonisti che non potevano più dare nient’altro. Il parossismo di certi motivi alla lunga porta alla saturazione parodistica del carattere delle proprie creature, facendo traboccare di ridicolo il prodotto che ne consegue.

Consigliare quest’opera è l’ultima cosa che si può fare: la trama è assente, la ripetizione e lo stereotipo l’hanno uccisa sul nascere. Lo spirito originario si è perso, i motivi sono stentatamente stanchi e, se Kurumada indubbiamente possiede un genio, è meglio che adesso si riposi o che si dedichi ad altro.
Il voto finale non può essere alto: è l’esito di un percorso personale di una fan che, avendo rivisto il lungometraggio dopo un anno di stacco – in cui tra l’altro ha potuto visionare ben altre vette dell’animazione giapponese e prendere coscienza di dove stia il vero valore di un’opera - ne è rimasta a dir poco inorridita.