Recensione
Qualche giorno fa mi accorsi che tra i vari titoli dello studio Ghibli che ancora mancavano alla mia collezione ne balzava subito agli occhi uno fra tutti: "Karigurashi no Arrietty". Un'opera che recentemente ha fatto molto parlare di sé e verso la quale, tuttavia, non nutrivo aspettativa alcuna, come può facilmente immaginare chi mi conosce. Non mi restava altro da fare, dunque, se non correre ad ammirare anche codesto ennesimo capolavoro.
Ebbene, a essere sinceri, si è rivelato un film apprezzabile in maggior misura rispetto ad altri suoi consanguinei: "Arrietty" offre puro intrattenimento senza pretese, senza spacciarsi per perla di impareggiabile profondità e, soprattutto, senza essere inficiato da una mefitica moralità posticcia, cosa che non si può dire della maggior parte dei suoi consimili.
La trama del film è semplice, così semplice e flebile che oserei definirla addirittura scarna o nulla. L'intera narrazione ruota attorno al tramontare del piccolo mondo dei "prendimprestito", minuscoli esseri antropomorfi che vivono nascosti nei reconditi anfratti delle abitazioni, la cui pacifica tranquillità è sovente messa a repentaglio dal sopravanzare dell'uomo; essi infatti, se scoperti, sono costretti a trasferirsi altrove. Altro aspetto fondamentale delle vicende è la storia di amicizia/amore (chiaramente immancabile nelle produzioni Ghibli) che nasce tra i due personaggi principali, rappresentanti delle due razze.
L'intreccio non si distingue certo per originalità o complessità, anzi, mente umana mai avrebbe potuto escogitare qualcosa di più banale. Ciò che tuttavia rende interessante il film è la grande attenzione impiegata per delineare i dettagli di questo piccolo mondo dentro al mondo; nella piccola dimensione certi aspetti degli oggetti e delle cose acquistano un particolare valore e significato, del tutto differente rispetto a quello che siamo soliti attribuire noi. Tale impostazione permette di sfruttare diverse situazioni in modo da rendere piuttosto buffo e divertente l'ambiente circostante, a partire dalle ardue scalate di impervie tovaglie e tende, effettuate utilizzando amo e filo, passando poi per le gocciolone di te, che sembra quasi vischioso, fino ad arrivare alle adorabili scale fatte di chiodi e viti, senza tuttavia dimenticare i goccioloni di pioggia e l'arboreo ombrellino. Cambiando la prospettiva cambia anche il valore e il senso delle cose, e questo è un aspetto che rende il "concept" dell'opera apprezzabile e piacevole. Si può, ulteriormente, annusare nell'aria anche una flebile malinconia, data dal destino affatto funesto dei nostri eroi, costretti controvoglia ad abbandonare la loro adorata dimora, e della loro razza ormai al tramonto. Si può quasi percepire questo senso di ineluttabilità, d'altronde è un ciclo perfettamente naturale: una specie ne scalza un'altra, così come avviene per le culture e le generazioni.
Il film quindi si presenta leggero e piacevole, in grado di regalare novantaquattro simpatici minuti di intrattenimento, senza scadere in morali spicce, buonismo, o altri brutti vizi che spesso inficiano i film di questo studio. Questa leggerezza chiaramente costituisce un suo intrinseco limite, che gli impedisce di figurare come qualcosa di più meritevole d'attenzione riducendosi, un po' come "Totoro", a una semplice storia apprezzabile da tutti, priva di grandi pretese e di chissà-quali riflessioni. A mio avviso questo genere di opere è esattamente ciò che lo studio Ghibli dovrebbe limitarsi a fare, senza corrompere le proprie produzioni cercando di riempirle maldestramente di significato. A memoria di ciò, a mio parere, si possono citare diversi film del passato: "Nausicaa", "Laputa", "Howl", e "La città incantata" ove il tentativo di inserire tematiche altresì potenzialmente serie o interessanti viene (alle volte di più altre di meno) impudentemente avvelenato e reso arido dall'imporsi del dogmatismo tecnofobo, ecologista e pacifista "miyazakiano", per il quale esiste una sola morale giusta, vera e desiderabile: quella che lui propina e costruisce a puntino. Il che estromette qualsiasi possibile approccio profondo alla tematica, permettendo soltanto le superficiali trattazioni di cui già siamo ben edotti. (Come ad esempio in Laputa, dove la natura è buona in sé, le ambizioni umane cattive in sé e i puri e i giusti hanno sempre ragione. Non si mette in discussione nessun valore e nessuna posizione, tutto è prestabilito e rigido). In poche parole, risulta di gran lunga migliore qualcosa di semplice e carino, magari anche divertente e buffo, piuttosto che un qualcosa di viziato dalla nauseante e asfissiante morale tipica del Maestro.
Sul versante tecnico la regia di Hiromasa Yonebayashi è buona, fresca, così come i fondali e le animazioni, la sceneggiatura, curata da "sua Santità", rimane un po' povera e fatiscente, mentre le musiche si rivelano molto indicate e apprezzabili.
Ebbene, a essere sinceri, si è rivelato un film apprezzabile in maggior misura rispetto ad altri suoi consanguinei: "Arrietty" offre puro intrattenimento senza pretese, senza spacciarsi per perla di impareggiabile profondità e, soprattutto, senza essere inficiato da una mefitica moralità posticcia, cosa che non si può dire della maggior parte dei suoi consimili.
La trama del film è semplice, così semplice e flebile che oserei definirla addirittura scarna o nulla. L'intera narrazione ruota attorno al tramontare del piccolo mondo dei "prendimprestito", minuscoli esseri antropomorfi che vivono nascosti nei reconditi anfratti delle abitazioni, la cui pacifica tranquillità è sovente messa a repentaglio dal sopravanzare dell'uomo; essi infatti, se scoperti, sono costretti a trasferirsi altrove. Altro aspetto fondamentale delle vicende è la storia di amicizia/amore (chiaramente immancabile nelle produzioni Ghibli) che nasce tra i due personaggi principali, rappresentanti delle due razze.
L'intreccio non si distingue certo per originalità o complessità, anzi, mente umana mai avrebbe potuto escogitare qualcosa di più banale. Ciò che tuttavia rende interessante il film è la grande attenzione impiegata per delineare i dettagli di questo piccolo mondo dentro al mondo; nella piccola dimensione certi aspetti degli oggetti e delle cose acquistano un particolare valore e significato, del tutto differente rispetto a quello che siamo soliti attribuire noi. Tale impostazione permette di sfruttare diverse situazioni in modo da rendere piuttosto buffo e divertente l'ambiente circostante, a partire dalle ardue scalate di impervie tovaglie e tende, effettuate utilizzando amo e filo, passando poi per le gocciolone di te, che sembra quasi vischioso, fino ad arrivare alle adorabili scale fatte di chiodi e viti, senza tuttavia dimenticare i goccioloni di pioggia e l'arboreo ombrellino. Cambiando la prospettiva cambia anche il valore e il senso delle cose, e questo è un aspetto che rende il "concept" dell'opera apprezzabile e piacevole. Si può, ulteriormente, annusare nell'aria anche una flebile malinconia, data dal destino affatto funesto dei nostri eroi, costretti controvoglia ad abbandonare la loro adorata dimora, e della loro razza ormai al tramonto. Si può quasi percepire questo senso di ineluttabilità, d'altronde è un ciclo perfettamente naturale: una specie ne scalza un'altra, così come avviene per le culture e le generazioni.
Il film quindi si presenta leggero e piacevole, in grado di regalare novantaquattro simpatici minuti di intrattenimento, senza scadere in morali spicce, buonismo, o altri brutti vizi che spesso inficiano i film di questo studio. Questa leggerezza chiaramente costituisce un suo intrinseco limite, che gli impedisce di figurare come qualcosa di più meritevole d'attenzione riducendosi, un po' come "Totoro", a una semplice storia apprezzabile da tutti, priva di grandi pretese e di chissà-quali riflessioni. A mio avviso questo genere di opere è esattamente ciò che lo studio Ghibli dovrebbe limitarsi a fare, senza corrompere le proprie produzioni cercando di riempirle maldestramente di significato. A memoria di ciò, a mio parere, si possono citare diversi film del passato: "Nausicaa", "Laputa", "Howl", e "La città incantata" ove il tentativo di inserire tematiche altresì potenzialmente serie o interessanti viene (alle volte di più altre di meno) impudentemente avvelenato e reso arido dall'imporsi del dogmatismo tecnofobo, ecologista e pacifista "miyazakiano", per il quale esiste una sola morale giusta, vera e desiderabile: quella che lui propina e costruisce a puntino. Il che estromette qualsiasi possibile approccio profondo alla tematica, permettendo soltanto le superficiali trattazioni di cui già siamo ben edotti. (Come ad esempio in Laputa, dove la natura è buona in sé, le ambizioni umane cattive in sé e i puri e i giusti hanno sempre ragione. Non si mette in discussione nessun valore e nessuna posizione, tutto è prestabilito e rigido). In poche parole, risulta di gran lunga migliore qualcosa di semplice e carino, magari anche divertente e buffo, piuttosto che un qualcosa di viziato dalla nauseante e asfissiante morale tipica del Maestro.
Sul versante tecnico la regia di Hiromasa Yonebayashi è buona, fresca, così come i fondali e le animazioni, la sceneggiatura, curata da "sua Santità", rimane un po' povera e fatiscente, mentre le musiche si rivelano molto indicate e apprezzabili.