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8.5/10
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Forse non esiste una condizione più alienante di quella di essere un bambino.
Tutto è più dilatato in quello status. La realtà, lo spazio e il tempo hanno contorni mastodontici.
Vedere il mondo con gli occhi di un bambino significa prendere il tè con Einstein e Schrödinger, seduti sulle ginocchia di Freud.

Nel film "Mirai no Mirai" di Mamoru Hosoda si riesce a cogliere quanto possa essere debilitante la lotta per assumere un'identità, nel più vasto quadro di un "esser-ci".

Kun è un bambino di quattro anni che sperimenta la mortificazione e la gelosia di non essere più figlio unico. La nascita di sua sorella minore ridimensiona il suo ruolo in famiglia, scombinando le gerarchie. L'attenzione dei genitori si catalizza sulla nuova arrivata, Mirai, che sembra fagocitare tutti gli schemi della casa. La reazione più genuina e ovvia per lui è un perenne stato di insoddisfazione. Condizione che si sana solo con la ricerca di distrazioni, dalla quale scaturiscono una serie di avventure per la riconquista di un'armonia perduta, dilatata fra spazio e tempo. Kun deve ridisegnare la sua realtà, e lo fa spinto dalla più pura espressione del mondo dell'infanzia, la fantasia. Seguendo le tracce lasciate dal passato della sua famiglia, Kun troverà un modo per ridefinire le proprie ansie, nell'ombra di un futuro che non promette soluzioni, ma mette radici nel presente.

L'intento del regista è quello di esporre un quadro degli inevitabili problemi insiti nei rapporti familiari, concentrandosi sulla proverbiale difficoltà di coesistenza e relazione tra fratelli.
La via percorsa da Hosoda però amplia le tematiche a un livello più vasto, offrendo una prospettiva sulla crescita e la formazione del protagonista nella scoperta di una architettura interiore autonoma.
Le pulsioni, i sentimenti, le incongruenze di un individuo vengono esposti con un chiaro intento espressivo, volto a rendere visibili sul piano scenico "i lavori in corso" di una mente non ancora separata dalla sua origine, dall'utero materno.

La lotta del protagonista per evitare quella che percepisce come una deriva verso l'oblio si traduce in un iter che, da ricerca di evasione, diviene una genesi che si compone di tutti i personaggi con cui si costruisce l'Io. Reali o percepiti, passati e futuri, gli attori del dramma di Kun non sono altro se non le maschere del teatro che tutti abbiamo nella scatola cranica.
Quello che sembra partire come un problema di relazioni interpersonali evolve come un contorto dialogo con la propria individualità. Come viene espressamente dichiarato nel film, l'origine del viaggio consiste nella "perdita di sé stessi".
La soluzione, secondo un topos della cultura nipponica, consiste nel trovare il proprio ruolo, il proprio posto nel mondo esterno, dopo aver brevemente assaggiato il frutto dell'individualismo, nell'intimo di una fugace registrazione a margine nell'album dei ricordi.
L'epilogo del film infatti non lascia intendere vuote pretese ottimistiche su ipotetici radiosi futuri. Quello che si scopre nel percorso è che non c'è altro che non sia la realizzazione di un futuro preordinato, la conquista di una normalità, senza eccessi di particolarismo. Il finale è quindi velatamente agrodolce, tra ricordi nostalgici, occasioni mancate e promesse non sempre gradite.

I salti temporali (una firma del regista), usati come gli incastri di un giocattolo, rendono perfettamente il peso e la serietà che l'elemento ludico ha nel mondo dell'infanzia. Giocando con il tempo e lo spazio, viaggiamo tra archetipi e fantasie, seguendo la strada tracciata dai processi di crescita. Il flusso altalenante fra passato e futuro aspira a riprodurre le complicate connessioni psichiche che la nostra mente riesce a elaborare.
Emblematici gli incontri speculari di Kun con i membri della sua famiglia, dove si gioca con complessi edipici, surrogati di figure paterne e confronti diretti con il Peter Pan che abita in noi, perennemente insoddisfatto e congelato nei suoi contorni più infantili che l'adolescenza acuisce ed esorcizza, rifiutando ciò che "non è simpatico".
Grazie a questa catarsi progressiva l'ego trova la sua consistenza nello scoprire che è parte di un processo, di un moto costante che a sua volta si regge su altre orbite, i percorsi di altri. In un continuo incrociarsi di vite, ricordi e aspirazioni.

La sintesi fra la circolarità del tempo e l'Io nello spazio fa fede all'enunciato del titolo, che può quindi leggersi come un'equazione. Se "Mirai" significa "futuro", allora la scelta del film è quella di un "futuro del futuro", un eterno ritorno.

La forza narrativa di Hosoda segue il solco di illustri predecessori che, dai fantasmi natalizi di Dickens ai mulini a vento di Cervantes, senza bisogno di presentazioni, sono i tornelli di un ingresso accessibile a chiunque. I richiami autoriali, voluti o meno, forniscono una struttura solida al senso generale del film, che vive così anche di un sottofondo di già vissuto.
Le avventure del protagonista sono eredi di quelle stesse esperienze oniriche che portavano "Little Nemo" a scoprire i labirinti del fantastico in una realtà che collassa sotto il peso delle sue ipocrisie.

Così, la scena in cui Kun esplora la stazione ferroviaria e viene interrogato sulla sua identità dai treni (sua passione) segue lo stesso carattere ammonitore e censorio di "Play Safe", un cortometraggio del 1936 opera dei fratelli Fleischer. Anche qui il protagonista vive la sua formazione attraversando le terre di Morfeo e trovando il suo equilibrio relazionale.
Sullo stesso piano il confronto con Billy Batson, l'alter ego di Capitan Marvel, anche lui bimbo sperduto salito su un treno che lo porta, a metà fra sogno e magia, al suo incontro con un padre che modella l'adulto dalla forma dell'infante.

Le tematiche del film fanno di "Mirai no Mirai" un'opera che offre diverse chiavi di lettura e si presta a parallelismi che, uniti a citazioni del regista a sé stesso, come risultato ottengono un buon racconto, fruibile a chiunque, legandosi alla miglior tradizione delle favole.

Lo Studio Chizu ha espresso egregiamente le sue potenzialità, salvo l'uso poco curato in alcune scene della computer grafica che mal si integra con movimenti e inquadrature ardite.
L'uso di toni da acquerello per gli sfondi del passato e di colori vividi e cangianti per momenti dal maggiore impatto emotivo è giocato in maniera magistrale.
Hosoda sfrutta tutte le sue abilità per confezionare un prodotto che sa emozionare e strappa anche qualche piccola risata.
Una menzione particolare merita anche il doppiaggio italiano, che raggiunge le vette del virtuosismo con Tatiana Dessi che presta la voce al protagonista.
La vis espressiva è totale, e si impone con una efficacia esemplare anche per gli altri personaggi.
Le emozioni del piccolo Kun, i capricci, le urla, le moine divengono palpabili quanto le fantasie che popolano la sua realtà.

Il percorso della propria identità segue processi non lineari. Per andare avanti si può ripercorrere una strada a ritroso o trovare un condotto che, sottotraccia, porta a snodi e incroci che si diramano nei meandri di quel soggetto in divenire chiamato Uomo.
Un soggetto che è esso stesso la meta, e che combatte per diventare il viaggio.