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9.0/10
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“Nostalgia: il ricordo delle cose passate.”

Una sentenza lapidaria è quella che, all’inizio XVII secolo, William Shakespeare inciderà indelebilmente, dai richiami quasi dizionaristici, sull’Otello, opera destinata a marchiare definitivamente la storia universale del teatro. Circa quattrocento anni dopo, però, in un’altra epoca, e dall’altra parte del mondo, in Giappone, tale concetto verrà magistralmente espresso e reiterato, quasi cantato, da Misturo Adachi, poeta, o meglio cantore, della nostalgia e delle emozioni “leggere e potenti” per loro natura, con una “non potenza” che ben si presta alle qualità del genio di Stratford-upon-Avon.
L’avventuroso, Bouken Shounen (冒険少年), è un volume unico, un seinen, contente sette storie ideate e disegnate da Mitsuru Adachi tra il 1998 e il 2005, pubblicate totalmente su Big Comic Original (rivista di proprietà della casa editrice Shogakukan) ed edite, nel gennaio del 2008, in Italia grazie a Star Comics, editore umbro di Bosco che, ormai da decenni, si impegna costantemente (seppur non unicamente) nella fruizione presso il pubblico italiano delle opere del maestro di Isesaki, prefettura di Gunma. In questo caso, è certamente doveroso segnalare l’intuizione, da parte di Star Comics, di adattare il titolo, letteralmente “Il ragazzino avventuroso”, in “L’avventuroso”, celebre testata italiana in attività tra il 1934 e il 1943, della Casa Editrice Nerbini, prima in Italia – proprio tra queste pagine – a riportare integralmente le strisce complete di balloon, utilizzando per altro lo stesso identico font, quindi il logo, di tale periodico. Elementi che segnano inequivocabilmente il rapporto di stima della Nerbini nei confronti di Star Comics, premiata da essa per la diffusione della nona arte giapponese nello Stivale.
Difficile recensire l’opera in questione partendo dalle trame o dalle narrazioni, non solo perché si tratta di sette racconti totalmente autonomi, legati tra loro unicamente da un solo fille rouge che risponde al nome di “nostalgia”, ma anche per la non tangibilità delle trame stesse, semplici, stringate, quasi banali, fumose, intangibili: teatrali, a tutti gli effetti. Non esiste una vera e propria trama in questi mini racconti di Adachi, o meglio, esiste, ma è semplice proprio per sua natura: la semplicità della sinossi, dello sviluppo del racconto e della narrazione spinge così il lettore a focalizzarsi su quello che è il sentimento che l’autore stesso vuole plasmare e riportare su carta, il sentimento di nostalgia, un sentimento tanto forte quanto, a tratti, inutile e inconcludente, un sentimento che calza a pennello con quello che è il pennino di Adachi, capace di ricreare attraverso la poetica del silenzio, degli sguardi e del tutto che ci circonda, un mondo in grado di restituire la nostalgia, diluita – così come nella vita – dal presente, che la crea e la veicola. Proprio grazie alla leggerezza del racconto l’autore riesce dunque ad esprimere, come solo lui sa fare, le più potenti e ricorrenti emozioni della vita. La narrazione è dunque calma, quasi banale, una narrazione tipicamente adachiana, a metà strada dunque tra il virtuosismo narrativo della Takahashi e l’autoritarismo di Taniguchi: qui, come sempre, Adachi ben si districa tra una narrazione contraria all’impeto e alla sagacia, riportando continuamente schemi piatti che, se mal letti, potrebbero quasi risultare banali, e uno sviluppo tracotante e severo, scegliendo invece la via della banalità, quasi della giocosità, come a voler indicare che la vita, in fin dei conti, è costantemente costellata da beffe pronte e ben confezionate, da prendere così come vengono.
Se la recensione dalla/e trama/e risulta difficile, ancor di più è certamente l’analisi del tratto grafico. Dal punto di vista tecnico, l’opera non si discosta minimamente da quello che è il pennino classico di Adachi, così come non possono percepirsi variazioni tra l’ottobre del 1998 e l’aprile del 2005, datazioni del primo e dell’ultimo racconto: Adachi è sempre, costantemente e, meravigliosamente, lo stesso identico disegnatore! Nessun virtuosismo tecnico, nessun linearismo, nessuna stravaganza grafica, il disegno è per Adachi veicolo di emozioni, è qui che risiede la sua bravura, ben evidente in questi sette racconti: tratto morbido e tondeggiante, sfondi chiari ed identificativi, dinamismo ridotto e sapiente uso dei retini, il tutto valorizzato da un gioco di sguardi penetranti e assorti allo stesso tempo e da una strabiliante capacità di restituire le stagioni e le ore del giorno attraverso i fondali, aspetto che solo pochi grandi maestri sono riusciti a compiere così costantemente (per quanto riguarda la nouvelle vague internazionale dei fumettisti, sotto questo punto di vista, si segnalano le straordinarie capacità di Lâm Hoàng Trúc, vietnamita classe 1991).
Degna conclusione di questo commento, riprendendo l’excursus di matrice teatrale iniziale, è un breve (ma sarebbe da scriverci una tesi di laurea), ma importante accenno alla capacità dell’artista in questione di creare continuamente delle maschere. Adachi non usa personaggi, usa delle maschere teatrali: il personaggio è un pretesto, è preso, ripreso, usato, riusato completamente per l’atto creativo. E Adachi è un maestro proprio a tramare alle spalle di essi. L’arte di Adachi non sta nella creazione della storia nella sua originalità, l’arte di Adachi risiede bensì nell’uso forsennato di uno stesso cast che, sulle note di un racconto banale e reiterato, riesce a creare costantemente le stesse identiche emozioni, trasmettendo però, paradossalmente, qualcosa di nuovo. Così come i drammaturghi greci di età periclea usavano e riusavano in continuazione le divinità e i personaggi del mito, “vip” mai esisti materialmente, allo stesso modo Adachi riutilizza in continuazione, senza mai scadere veramente nel banale, gli stessi personaggi, volutamente e, strepitosamente, stereotipati. Il tutto, aspetto importante da sottolineare, senza ricorrere alla malvagità: non esiste un cattivo, tutto fa parte della vita, aspra, dolce, bella e altalenante nella sua linearità.
Adachi, anche qui, costantemente e, come è ovvio che sia, incessantemente, sa muoversi sulle emozioni che la vita da, camminando, in questo caso, come un funambolo tra malinconia, ricordo e lontananza, e disegnando una perla che va sfogliata immergendosi a capofitto, con la convinzione che se ne uscirà più forti e consapevoli di prima, seppur con un briciolo di smielata, quanto ovvia, malinconia.