Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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Sullo sfondo del Giappone tumultuoso del 1868, teatro di scontri feroci e intrecci politici tra le varie fazioni, vedremo nascere l'amore disperato tra Kenshin, "tagliatore di uomini", e la dolce Tomoe, vittima delle conseguenze di questi tumulti.

È un OAV di quattro episodi che racconta la giovinezza e gli esordi di Shinta, divenuto poi famoso come Kenshin Himura Battosai, il più famigerato tra i "tagliatori".

Premetto che la lunga serie animata che racconta la parte centrale della vita di questo personaggio leggendario, la sottoscritta, non l'ha vista, e al riguardo non ha neppure letto il manga. Ma non credo sia necessario al fine di gustare e apprezzare questa piccola perla. Se l'avete fatto, buon per voi, cosicché forse, e se possibile, a questa serie darete maggior valore. Io, questo valore glielo riconosco tutto, nonostante sia completamente ignorante su chi diventerà poi Kenshin.

Definirlo un OAV mi sembra quasi riduttivo. L'impronta di questo anime, nonostante sia uscito nel 1999, è decisamente cinematografica. Ha esattamente vent'anni, quindi, ma li porta più che bene.

Disegni e animazioni sono stati curati al meglio, così dettagliati nella loro crudezza che ad ogni scontro e colpo di spada è in agguato un sussulto in chi guarda. Le atmosfere sono cupe, grigie, di una tristezza invernale. Invernale, sì, avete letto bene, perché è l'inverno la stagione che ospita i nostri attori, e sangue e neve sono onnipresenti. Sebbene definire il tutto di una tristezza "infernale" sarebbe pure corretto, perché tinta del rosso caldo del sangue, che richiama l'inferno. E vendetta, morte e strazio non possono che tristemente accompagnarlo.
Tuttavia, nonostante la drammaticità, che è costantemente palpabile e, anzi, spesso schiaffeggiata in pieno viso, aleggia di pari passo un qualche cosa di poetico, di intensamente suggestivo.

Ma non c'è che dire, quest'anime è spietatamente crudo, violento, introspettivo. E vero. Tanto vero che i personaggi e le loro azioni sembrano bucare lo schermo. Non c'è personaggio che non sia ben definito. Oserei dire che nella caratterizzazione di ciascuno di loro c'è una sorta di regalità, una fierezza solenne. In tutti. Merito va, oltre che alla sceneggiatura e ai dialoghi (brevi, taglienti ed efficaci come le lame delle spade), al doppiaggio. Avendo visto entrambe le versioni, quella in giapponese sottotitolata e quella in italiano, posso dire che sono ineccepibili entrambe. Direi, anzi, che il doppiaggio di Kenshin nella versione italiana io l'ho apprezzato leggermente di più, poiché la voce risulta essere di un timbro più maturo rispetto a quella giapponese, che risulta invece più giovanile. Al contrario, rispetto alla controparte italiana, ho trovato la voce giapponese di Tomoe molto più dolce e soave, in perfetta sintonia con la sua figura. Ma questo è un mio gusto personale, perché penso che in entrambe le versioni, nell'interpretazione, non c'è assolutamente nessuna sbavatura, e risultano, a loro modo, molto soddisfacenti entrambe, e in tutti i personaggi.

Un particolare plauso va alla colonna sonora, superbamente descrittiva, e che definirei evocativa "fuori misura". Al riascolto di "In Memories Kotowari", in un crescendo struggente di archi, fiati e percussioni, non si può non rivedere la determinazione di Kenshin, nonché il suo sguardo duro, severo e profondamente triste. Un solitario e mesto flauto in "In the Rain" evoca per sempre la dolcezza di Tomoe, quelle sue movenze delicate a raccogliere i propri ciuffi di capelli scompigliati dal vento. E le spade si vedono e si sentono preponderanti in "The Wars of the Last Wolves", il cui rumore riecheggia insistente nelle orecchie, al passo di incalzanti percussioni di piatti e tamburi.

Questo anime è semplicemente maestoso. Da vedere, ascoltare e sentire. Vi basteranno le poche scene iniziali per farvi cadere in questa tragica e imponente storia che come una spada tagliente vi fenderà occhi, orecchie e cuore.

E, se dovessi scegliere poche parole a rappresentare al meglio l'essenza di questo anime, deciderei per questa frase: "Non voglio lasciare il mio odore di morte sulle tue vesti". La dirà Kenshin, per allontanare da lui Tomoe.
In essa vi è racchiuso il sangue, il dolore, la morte. E l'amore.

Guardatelo. Non c'è altro da dire.

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"La Crociata degli Innocenti" (インノサン少年十字軍 ) è un manga scritto e disegnato da Usamaru Furuya, autore tra l’altro de "La musica di Marie" ed "Happiness".
I venticinque capitoli che compongono l’opera furono pubblicati tra il 2007 e il 2011 dalla casa editrice Ohta Shuppan e successivamente racchiusi in tre volumi.
In Italia l’opera è edita grazie a Goen, che decise di pubblicarla suddivisa in sei volumi tra il 2014 e il 2015.

Parto col dire che di Furuya lessi alcuni anni fa "Genkaku Picasso", poi solamente questa opera, motivo per cui non posso confrontare "La Crociata degli Innocenti" con altre opere dell’autore e contestualizzarla in base alla crescita personale e artistica proprio di Furuya.
Ci terrei però a sottolineare, durante la mia recensione, i vari aspetti che più mi hanno colpito (sia in positivo che in negativo dell’opera) e in particolar modo il come viene concepito il medioevo, fenomeno esclusivamente europeo, agli occhi dei giapponesi e in questo caso agli occhi di un mangaka.

Cosa c’è di vero nel racconto? Poco, o forse poco nulla, non si può nemmeno valutarlo troppo bene siccome anche dal punto di vista storico questa fantomatica crociata avvenuta nel 1212 è riportato in modo abbastanza incerto dalle fonti, sia dell’epoca che successive.
Per “crociata dei fanciulli” o “crociata dei bambini”, gli storici intendono una serie di fenomeni, più o meno attendibili, avvenuti nel 1212 che interessarono alcuni paesi europei come le attuali Francia, Germania e Italia.
Secondo la tradizione, nel maggio del 1212 a Cloyes-sur-le-Loir, un pastorello francese di nome Étienne ricevette da Gesù l’ordine di radunare una crociata di fedeli e di dirigersi in Terra Santa.
Étienne si presentç così da Filippo II re di Francia il quale, su consiglio dei teologi francesi, decise di ordinare al ragazzo di tornare a casa.
Il fanciullo però non si diede per vinto e riuscì a radunare, grazie alle sue predicazioni alla porta della cattedrale di Saint-Denis, un gruppo di fedeli, probabilmente giovani e poveri.
In questo modo iniziò la crociata ma, una volta giunti al porto di Marsiglia, alcuni bambini, credendo che Étienne potesse compiere il miracolo di aprire il mare, se ne andarono delusi vedendo che il prodigio tardava a compiersi.
I bambini rimasti, compreso Étienne, invece, riuscirono ad avere un passaggio da due individui, che le fonti ricordano come Ugo il Ferreo e Guglielmo il Porco, motivo per cui si imbarcarono su sette navi dirette a Gerusalemme.
Due delle sette navi dirette in Terra Santa, con a bordo i bambini, affondarono a causa di una tempesta proprio nei pressi della Sardegna, vicino all’Isola dei Ratti, mentre i passeggeri delle altre cinque furono venduti come schiavi ad alcuni mercanti musulmani.
Furuya decide di prendere come spunto questo racconto in forma tradizionale e, aiutandosi anche con ricerche storico-scientifiche realizzate più recentemente, sfruttare il materiale come base per il suo racconto.
Ci terrei a precisare che di storico nel racconto c’è poco, veramente poco. Anche lo stesso Furuya ci tiene a sottolineare questo aspetto.
Egli infatti afferma nella postfazione datata primo gennaio 2012 (pubblicata nell'ultimo volume nell'edizione della Goen) che “Infine, se mi dovessero chiedere fino a che punto essa sia fedele con la realtà storica, risponderei che è in tutto e per tutto una creazione originale.” L’obbiettivo dell’autore non è infatti quello di creare un qualcosa di potenzialmente verosimile e difficilmente discutibile dal punto di vista storico.
Il problema però è che Furuya vuole comunque dare al lettore, sempre come riportato nella postfazione, delle fotografie sulle contraddizioni e le sofferenze tipiche della gente dell’epoca. A questo punto ci sarebbe da chiedersi, c’è riuscito? Beh, a parer mio, la risposta non è proprio positiva.
Purtroppo l’opera è un lungo susseguirsi di errori storici; errori estetici, come nella scelta di alcuni abiti e di alcune usanze; errori filosofici, i pensieri della massa non erano propriamente quelli che sono stati riportati da Furuya; errori dal punto di vista culturale e religioso, ogni persona con delle minime conoscenze di teologia riderebbe di alcuni errori del mangaka all’interno del racconto (e, aggiungo io, alcune note della Goen sono ridicole) e inoltre ci terrei a sottolineare i vari errori dal punto di vista architettonico, artistico e, probabilmente, anche geopolitico. Purtroppo tutte queste mancanze, tutte queste lacune e tutte queste imprecisioni di Furuya hanno fatto scendere, di tanto, il mio voto.

Anche dal punto di vista della narrazione ho riscontrato delle imperfezioni, il ritmo si fa a volte troppo lento e a volte troppo veloce, disorientando e sbilanciando il lettore. Purtroppo la velocità narrativa è stata, secondo me, dosata in pessimo modo.
Ci sono però tutta una serie di note positive, come ad esempio la decisione di proporre, in modo più o meno giusto, alcuni personaggi tipici presenti nella società del XIII secolo, cercando così di creare uno spaccato di società che può permettere al lettore di entrare ancor meglio all'interno del racconto.

Per quanto riguarda i disegni che dire? A parer mio bene, molto bene. Ma questo è ovviamente un gusto personale. Il tratto in alcuni punti si fa troppo macchinoso e rovina la narrazione, però generalmente è vario e si adatta omogeneamente al momento che rappresenta, a volte infatti possiamo notare uno stile quasi fanciullesco, molto pulito e leggero, altre volte invece ci ritroviamo immersi in ambientazioni fin troppo oscure e gotiche, in questi momenti il tratto diventa pesante ed opprimente.
La psicologia del lettore è gestita molto bene da Furuya, anche se a volte il disegno diventa quasi ripetitivo, troppo fisso e privo di attrattiva. In parallelo però gli sfondi sono il più delle volte stupendi e, spesso, i vari punti salienti della storia vengono raccontati da immagini di enorme impatto visivo.

Parlando invece dell’edizione Goen non posso non criticare la scelta di dividere un’opera di tre volumi in sei, andando così a pesare non poco sulle tasche dei lettori. Inoltre le sovraccoperte non sono di buona qualità, non aderiscono nel migliore dei modi al dorso dell’albo. Altra pecca, le note: errori, errori ed errori, ovvietà e diverse gravi imprecisioni, provate a leggere e capirete. Inoltre sono presenti alcuni errori di battitura nei dialoghi.
Beh che dire? Pagine bianchissime, è vero, ma per il resto tutto abbastanza pessimo.

In conclusione ci terrei comunque a consigliare l’opera per gli appassionati di storia, specialmente di storia medioevale, anche per valutare criticamente le varie vicende che vengono presentate all'interno del racconto.
Purtroppo nel corso del Settecento e, specialmente, durante tutto l’Ottocento il medioevo è stato visto, studiato e proposto in modo sbagliato, è stato interpretato in maniera fittizia, motivo per cui si è creata nel corso dei secoli un’idea di epoca buia, tetra, un’epoca immobile e senza inventiva.
Fortunatamente questi cliché sono stati solidamente smentiti dagli storici e dal nuovo approccio scientifico che viene dato all’indagine storica. Purtroppo però la frittata era già stata fatta, agli occhi di molte persone, anche europee, il medioevo è visto ancora in modo sbagliato, figuriamoci come può essere visto in Giappone o nei paesi che non rientrano nella realtà europea.
Gli artisti hanno spesso lucrato fin troppo su molti luoghi comuni medioevali che sono stati elaborati a partire dall’Ottocento e che, purtroppo, ancora oggi vengono riproposti costantemente per ovvi motivi commerciali e di immagine.

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C'è una questione irrisolta nei dibattiti sui processi storici. Un dilemma che impegna le competenze e le convinzioni personali sul divenire dell'Umanità.
I grandi uomini fanno la Storia o è quest'ultima a fare gli uomini grandi?
Leggendo il manga "Ad Astra" di Mihachi Kagano si è quasi tentati di dichiarare chiuso il discorso. Perché la sua opera è totalmente dominata da due figure che da sole fanno una storia e La Storia.

Siamo nel III secolo a.C., al tempo in cui Roma e Cartagine si contendono il dominio sul Mediterraneo. Dopo un primo sfavorevole conflitto un uomo a Cartagine fa giurare a suo figlio, un bambino, che dedicherà il resto della sua vita alla rovina di Roma. Quel fanciullo ha degli occhi inquietanti e si erge su diplomatici e dignitari come un dio ruggente e famelico. Quello non è un bambino comune perché il suo nome è Annibale.
Vent'anni dopo il fanciullo è un uomo pronto a mantenere la sua promessa. La sua forza è inarrestabile, le sue capacità belliche sovrumane. L'uomo diventa mito, e quel mito il peggiore incubo di Roma. Disastri e disfatte si susseguono per l'Urbe la cui caduta sembra ormai inevitabile. La vendetta è quasi compiuta, l'uomo compie il fato.
Eppure lentamente il gioco sembra mutare. Le sorti del conflitto non appaiono più tanto chiare e "il fulmine" sembra perdere sempre più velocità e potenza. Sorgono nuovi nemici insospettabili, strategie attendiste ma logoranti, giochi di potere e sotterfugi che strisciano sotto le grandi imprese, rimescolando le carte. La partita non è finita e lentamente, dietro le ombre della disfatta, silente ma inesorabile si muove una figura all'apparenza innocua. Un ragazzo segue Annibale passo passo. È sempre con lui. Lo osserva, lo studia, lo ammira, ma non è un amico. Quel ragazzo ha uno sguardo penetrante quanto quello dell'eroe cartaginese e spiega sempre più le sue ali come un'aquila che esce dal nido. Quello non è un ragazzo comune perché il suo nome è Scipione.

Se si vuole credere che la Storia faccia gli uomini grandi ci si dovrà per forza confrontare con figure come Annibale e Scipione l'Africano.
Mihachi Kagano confeziona un manga storico che non si limita a tradurre in fumetto la Seconda Guerra Punica col puntiglio della storiografia. Se è evidente che l'autore parte dalla premessa di solide basi documentarie, citando espressamente fonti come Polibio o Tito Livio tra i riferimenti, è anche chiaro l'intento di non limitarsi ad una pedissequa traduzione a vignette degli eventi storici.
Kagano condisce il tutto con la sua personale interpretazione che, lungi dallo stravolgere le vicende che tutti abbiamo appreso a scuola, rilegge i dettagli secondo un'ottica meno seriosa e più partecipativa, condizione necessaria alla scorrevolezza della narrativa per immagini. Tale scelta è evidente soprattutto nella resa degli aspetti caratteriali dei personaggi che sono tradotti in un senso forse un po' stereotipato e senza troppe sfumature ma comunque preciso e netto.
La forza principale della trama infatti converge molto sui protagonisti, che godono di attenzioni e zoomate da star del cinema, concentrando i riflettori sul peso storico e personalistico degli attori in scena.
Ma non sono secondarie nemmeno le vicende belliche che si possono considerare anch'esse dei veri protagonisti. Gli aspetti tattici, le operazioni e le strategie, in fede alla coerenza documentale, sono dettagliati ed esposti con la stessa acribia di un volume dedicato alle grandi imprese militari del passato, con mappe e schemi riassuntivi che riportano lo svolgersi dei piani di battaglia come nelle ricostruzioni virtuali o nei diorama dedicati a specifici eventi bellici. L'idea sembra essere quella di riproporre uno stile a metà fra la didattica e il puro intrattenimento tipico delle espressioni videoludiche di strategia militare.

Il risultato è quindi una strana fusione tra lo storicismo (che tende ad estraniare il lettore in favore di una prospettiva zenitale e macrostorica) e una totale immersione nel contesto e nel cuore delle vicende specifiche secondo le percezioni dei protagonisti. I due grandi leader militari sono i veri narratori, soprattutto Scipione.

Tramite i suoi occhi assistiamo alla crescita personale e politica di un gigante che visse il cursus honorum in uno dei periodi più convulsi e drammatici della penisola italiana. Ma anche alle brillanti e folgoranti imprese di uno di quei miti (come Napoleone o Gengis Khan) liricamente tramandati come "mostri", tanto per la misura delle loro abilità quanto per l'odio degli avversari.
Non si può fare a meno di rimanere schiacciati dalla preponderante superiorità di menti così vicine al topos oltreumano. E tale caratteristica oscilla spesso tra la devastante concretezza di Canne e la metaforica predestinazione divina, al punto che i due eroi principali risultano concorrenti non solo nella scalata verso la gloria ma anche nella sfera della semantica cosmocratica.
Annibale e Scipione furono infatti i primi architetti del loro mito propagandistico, inserito nella più vasta tradizione della Imitatio Alexandri. Il Macedone era il modello, l'archetipo di un vertice che aspira a sormontare l'Ecumene.
Viene così a delinearsi un confronto che va ben oltre l'esito della guerra annibalica. La vera contesa è per la genesi dell'imperialismo ultimo, prototipo di tutte le forme di universalismo nei millenni a venire.
In questo si traduce la sintesi formale e simbolica nella citazione del titolo dell'opera, che riconduce alla meta di un'apoteosi presso le stelle, nell'empireo, lì dove solo i grandi possono arrivare.
E i due strateghi sono speculari in questo gioco: inarrivabili e magnetici, sibillini quanto glaciali.

Il mangaka sottolinea il carisma abbagliante e la vis inarrestabile dei due campioni anche e soprattutto delineandoli in confronto con tutti i comprimari dell'epico conflitto.
Sia giganti come Marcello o Fabio Massimo sia "spalle" come Gaio Lelio o i fratelli di Annibale, tutti nelle loro peculiarità, grandezze e debolezze, sono il supporto ideale che marca ancora di più la distanza tra i mortali e gli dèi.
Ma allo stesso tempo l'autore lascia qualche spazio anche ai minori o ad altri grandi dell'epoca, giocando con le ipotesi e le interpretazioni, aggiungendo delle storie extra alla fine di alcuni volumi. Così se nel volume III facciamo un tuffo nell'infanzia di Scipione (scoprendo supposte predisposizioni da enfant prodige), nel volume VII fa una breve comparsa anche Catone il Censore (acerrimo nemico del grande generale) del quale apprendiamo l'origine del risentimento personale verso il trionfatore di Zama in un retroscena inventato per l'occasione.
Se la fedeltà alle fonti è per lo più rigorosa, Kagano non si lascia infatti sfuggire l'opportunità di usare anche un po' la fantasia, senza nemmeno stravolgere gli aspetti più scenografici ed epici del conflitto fra Roma e Cartagine.

Interessanti in tal senso i capitoli dedicati al celebre assedio di Siracusa e al mito di Archimede, con le sue leggendarie invenzioni e macchine da guerra che hanno stimolato per secoli la fantasia dei posteri.

La strada percorsa è quella della tradizione che rispetta tutti i canoni classici dello scontro mortale, anche i più allegorici. L'epos si nutre così di tutti quei dettagli ormai proverbiali che hanno fatto sognare generazioni di alunni e studiosi. La traversata delle Alpi con gli elefanti, gli specchi ustori, le manovre di accerchiamento, gli scontri tete à tete, ... c'è tutto quello che ci si aspetta dalla vulgata.

Il narratore riesce così ad essere allo stesso tempo fedele al mito ma senza rinunciare alle sue istanze autoriali, e compensando anche alle carenze del disegno.
Questo in effetti all'inizio parte in maniera fresca e brillante con un tratto frenetico e chiaroscuri suggestivi (che suggeriscono un piacevole senso di arcaismo), ma poi si fa via via più geometrico e statico, assumendo alla fine quasi un design che volume dopo volume ricorda la grafica di un videogame. Questo dettaglio finisce col guastare un po' la resa scenica nel suo insieme, risultando castigata da un rigidismo che scade in eccessi schematici e di approssimazione. Gli sfondi e le azioni in particolare sembrano a lungo andare il risultato di una grafica computerizzata che stride malamente con il senso dinamico delle vicende e gli accenti scenografici da kolossal hollywoodiano. Anche le ricostruzioni dei centri urbani, delle architetture e dei paesaggi sembrano sempre limitati da una impostazione superficiale e sbrigativa.
I piani spaziali sono totalmente geometrizzati, senza sfumature o cura dei dettagli, creando così degli ambienti che ricordano dei finti fondali o dei diorama da luna park.
Per paradosso quindi, se la resa narrativa è indirizzata su un formalismo e un rigore tendenti al realismo, l'appeal estetico ricorda invece le ingenuità del genere peplum. Una curiosa caduta di stile che però è mitigata da un valido tono teatrale che pervade tutta l'opera grazie allo statuario protagonismo dei personaggi.

Quando si parla di fumetto storico il pensiero corre subito alle produzioni occidentali, soprattutto quelle d'oltralpe. Ma il manga si è ormai inserito a pieno titolo anche in questo filone, spaziando ampiamente dalla storia giapponese a quella occidentale, dall'epoca dei samurai alle epopee della Storia Antica.
"Ad Astra" è un manga ben costruito e fruibile, ricco di dettagli e schematismi tattici che possono risultare avvincenti anche a chi non ama le trame di ambientazione bellica, o magari può fungere da introduzione ad uno studio più approfondito della Storia. Quella che ci regala avventure salgariane e scontri epici non meno dei generi favolistici o dei romanzi d'appendice.

Questo perché in fondo c'è sempre un po' di leggenda e di mito anche negli aspetti meno fastosi del passato. Quelli che sono rimasti in una nota a margine di una cronaca, e che magari diventano lo spunto per poemi e mitologie, per guerre nei cieli e viaggi ermetici in terre esotiche nascoste nelle pieghe della fantasia. Storia e mito non sono mai troppo lontani perché il soggetto è sempre lo stesso: l'Uomo nelle sue limitazioni e nelle sue grandezze. Le stesse che lo spingono a spogliarsi della carnalità e ad andare oltre, verso le terre dell'eternità. Verso le stelle.