Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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Ma come ti vesti? Non venire a lavoro così!
Te la cavi bene per essere una donna!
Alla tua età sei ancora single?
Se non diventi madre, non sarai mai una donna realizzata!
Prima di assumerla, le faccio una domanda: “Ha intenzione di avere figli?”
Ma se lavori, chi curerà la casa?
Una donna vergine è sicuramente una donna piena di giudizio!

Anno Domini, MAI: le radici del pregiudizio nascono nella notte dei tempi, attorno ad un albero, un serpente, una mela e molte, molte sciocchezze. Ma il demonio non ascolta, anzi, attende il momento propizio per il dispetto.

Poche cose al mondo riescono a trasmettere un’intensa malinconia come le note dei brani nipponici di inizio anni settanta, e l’apertura di quest’opera così complessa, così profonda e ancora oggi così tremendamente attuale ci preparano ad atmosfere di rivalsa e sofferenza, speranza e vendetta, odio e coraggio: un ruvido decoupage in movimento appena accennato, un’opera d’arte di difficile, stratificata comprensione.
Ispirato al libro “La strega” di Michelet edito nel 1862, “Belladonna di tristezza” vede la luce nel 1973 ed è pensato come l’ultimo lungometraggio della trilogia “Animerama”, concepita niente poco di meno che dal dio dei manga Osamu Tezuka, che però abbandonerà la produzione proprio alle prime battute.
L’impressione d’impatto è altresì curiosa: dopo pochi minuti e svariati, suggestivi brani, si ha la percezione d’essere di fronte ad un musical d’avanguardia provocatorio e doppiogiochista, intento a rievocare emozioni in chiaroscuro su carta d’acquarello; tuttavia, siccome sia nella vita sia nell’arte niente è destinato a rimanere immobile - tantomeno l’antifona di questo film. Sotto gli occhi dello spettatore le sagome semi-statiche dei personaggi cominciano leste a guadagnare colori, movimento, e proprio come sull’irregolare pergamena di un artista che s’accinge ad inturgidire pennelli in sporchi e datati acquarelli, ecco che il film si rivela per quel che è: un’allegoria in maschera fra il circense e il tardo Ottocento veneziano, a tratti intensamente pigmentata, sia vivida che smorta, cangiante e per questo inquietante, un agglomerato di fermo immagine malamente animati, in modo che l’attenzione dello spettatore si concentri sui singoli, determinati dettagli che faranno l’aspra differenza in ogni singola scena.

Ambientato in un Medioevo simbolico e subdolamente destrutturato, si narrano le vicende di Jeanne, indiscussa, sfortunata protagonista, donna bellissima e conturbante, un incrocio fra Brigitte Bardot e un ruvido sogno di Angelo Stano che andrà in sposa al quasi omonimo Jean, giovane rispettabile in rapida ascesa.
In questo spaccato tanto feudale quanto surreale, sospeso fra l’onirico astratto e l’incubo ricorrente, la gioia di Jeanne finisce quasi subito, dovendo concedersi, dolente o nolente, al nobile locale causa Ius Primae Noctis, la brutale ricorrenza in cui ogni sposa di un determinato rango sociale si trovava costretta a giacere la prima notte di nozze invece che col proprio sposo, nel letto del suo signore e padrone.
Ecco che da subito, inquietante, il lungometraggio prende a deformarsi come un grido distorto, un lamento di fronte a una muta ed eterna ingiustizia, mentalità patriarcale radicata fin da quando l’essere umano si riunisce intorno al fuoco e genera prole, derivante dalla propria bestialità mammifera.
Il baricentro su cui s’equilibra ogni cosa è proprio questo: sarebbe inutile ricordare che dopo secoli e secoli, tutt’oggi, non esiste alcuna parità dei sessi. “Kanashimi no Belladonna” comincia a tracciare un solco proprio da qui: una protesta, un inno femminista a cui ogni maschio degno di educazione e intelletto dovrebbe prendere parte. Il terribile Ius Primae Noctis non tarda a trasformarsi visivamente nell’orrendo stupro che è, violenza immotivata tanto da sfociare in un turbinio di colori e ritagli di volti, corpi, colori accesi e dolori strazianti ritratti confusamente; volti avidi e maligni appaiono nel buio, concubine e cortigiani del sovrano oppressore prendono parte a quel che pare una violenza di gruppo che sgretola in pochi minuti autostima, sanità mentale, quiete interiore e personalità della povera Jeanne. La prima terribile notte ci viene proposta con volti simili a maschere che rimembrano un disturbante horror b-movie, fisionomie deformi e volutamente sproporzionate, instaurando un ponte di dolore fra reale e onirico, dove i protagonisti permangono nella loro immutabile e traumatizzante sofferenza.
Jeanne e Jean, cacofonia di nomi simili in linea nella vita, fatti l’uno per l’altra, uniti oltre il materiale, ignari delle tragedie che il futuro ha in serbo per loro, ove la vergogna e l’onta della “Prima notte” non è che l’inizio delle sventure; sventure a cui, per ironia della sorte, proprio il diavolo tentatore cercherà di porre un freno, mostrandosi infido amico e lussurioso confidente più verso la rabbia di lei che interessato alla disperazione di lui.

Il signorotto locale è quindi il “corrotto”, colui che viene additato come il “cattivo” del momento: impicca nemici e sudditi disubbidienti, azioni da contestualizzare e allocare nella corretta epoca in cui è ambientato, certo, ma che lasciano un segno incancellabile. Decifrando quindi il periodo e il contesto, si può arrivare a comprendere la grottesca usanza, tuttavia l’autore di questo memorabile viaggio ipnotico non lascia niente d’imperdonato, ed ecco che, inevitabilmente, l’intero castello del padrone del feudo viene rappresentato come un confuso, stridente girone dantesco da cui si dipana l’infinita tragedia di Jeanne, vittima bellissima e ignara, deturpata nello spirito come nel corpo.
È un film dotato di una potenza espressiva mostruosamente intensa, come poche altre cose nella storia dell’animazione mondiale. L’allegoria satanica diffusa dall’inizio alla fine non è altro che la rappresentazione astratta del peccato in quanto femmina, la biblica e patriarcale tentazione da cui il maschio padre padrone deve guardarsi per non cedere al Peccato, linea di pensiero radicata in profondità da millenni, ideologicamente ottusa quanto razionalmente assurda.
Jeanne, invero, è uno spauracchio, libera e leggera per questo, svincolata dalle catene del suo sesso. La vedremo cadere in un inferno liberatorio dalle restrizioni terrene, fuori da quella gabbia mentale, traslandosi oltre ogni barriera: il demonio si manifesta come un ossimoro di piacere e peccato, peccato inesistente per chi, coraggioso (o razionale?), decide di guardare oltre; una ramificazione di simbolismi a sfondo sessuale, alcuni mostrati in modo metaforico, altri decisamente espliciti, un librarsi e contrarsi d’orgasmica femminilità, un pugno diretto nello stomaco delle discriminazioni ancestrali di cui la chiesa è fra le prime colpevoli, inquisitrice, crocifiggente la femminilità in quanto tale. Nel “Peccato” e nella complicità di Satana la tormentata protagonista trova quindi una libertà spirituale e mentale: virtuoso, sinistro e deciso preambolo alla Rivoluzione Francese, tempo, memoria e periodo dello sgretolarsi di molti pensieri radicati e abitudini costrittive.

L’impatto visivo è, come detto, decisamente impressionante. Oltre alla particolare scelta di semi-animazione alternata a sequenze classiche, v’è uno studio cromatico di scale incrociate fra toni freddi e toni caldi che, alla stregua di quadrati in una confusa e non intellegibile scacchiera, riempiono lo schermo a ritmi sempre differenti; a volte pigri, a volte ritmati, ansiogeni, psichedelici.
Prima delle animazioni, sono gli impulsi cromatici a suggerire stati d’animo e percezioni sensoriali, e attraverso tale viaggio dalle emozioni e sensazioni discordanti, lo spettatore finisce per perdersi fra sofferenza e piacere, mescolatesi di pari passo nell’insostenibile struggersi della coppia protagonista.

Che ci si creda o meno, “Kanashimi no Belladonna” è un potentissimo manifesto femminista sessantottino capace di annichilire la struttura del patriarcato medievale possessivo, spietato e violento, ormai anacronistico se si pensa alla “rivoluzione della vulva” di fine anni settanta, ove ogni libertà femminile viene esaltata ed ogni donna reclama il diritto, l’utilizzo e il possesso del proprio corpo come (giustamente, va sottolineato) preferisce meglio disporne. Attraverso oscure vicissitudini feudali e situazioni surreali, si punta il dito contro mercificazione, umiliazione, demonizzazione e colpevolizzazione del corpo femminile, imbevendolo di peccato per uscirne martirizzato e insanguinato a causa di tutte le violenze psicologiche e fisiche in millenni di storia, tuttavia puro e privo di un peccato vero e reale, se non quello di desiderare libertà e parimenti rispetto. L’ambientazione medievale del travagliato lungometraggio rimarca il pensiero cavernicolo del maschio dominante meschinamente spaventato dall’utero, così, provocatoriamente e grottescamente, Satana finisce per rivelarsi meno terribile che nelle allegorie cristiane: si gioca a porlo accanto alla donna tentatrice in un irresistibile duo goliardico, tragico ed erotico al tempo stesso.
Come provocazione ultima, è il piacere a dettare la strada: la notte di stupri con il signore locale si rivela un letto di sangue e sofferenze, mentre l’amplesso col demonio - ovvero coi propri desideri più segreti e liberi - si eleva in una sublime perversione di piacere senza obblighi e barriere, una soddisfazione inarrivabile e ineguagliabile per via terrena, poiché raggiunta tramite la parte che si crede più oscura di sé, ma che tutti noi possediamo e così male, in realtà, non può certo fare.
Così, avviandosi verso una tragica ma preziosissima conclusione, l’intero dramma prende i secondi contorni di un inaspettato, amaro scherno: far apparire colei che non è solo più Jeanne - ma la Donna Libera, la Strega fuori dai Canoni e dalle grazie di dio - consorte del Diavolo stesso, poiché assuefatta ai piaceri terreni, come se ella non se ne possa beare in quanto, appunto, donna, obbligata a prigionie mentali e desideri maschili.
Lentamente, ci si dirige verso un epilogo conturbante, simbolico e ricco di similitudini di non semplice lettura: il demonio, ormai compiacente fallo tentatore, accompagna la nuova Jeanne verso il futuro di ogni donna che nascerà nei secoli a venire; la Belladonna, veleno e panacea, cura contro ogni e nessun male si trasforma nel cavallo di battaglia della Strega dal volto affascinante, e la psichedelia anestetizzante, astratta e potente, ritorna ancor più altisonante nell’orgia finale, immensa metafora del popolino oppresso incapace di ragionare con la propria mente, ove l’intero villaggio apre infine gli occhi alle parole della bella/donna e si libera dalle proprie restrizioni mentali e dei propri pudori: una Woodstock dello spirito più che della carne, un pari rituale satanico che per merito di una regia eccezionale viene stigmatizzato per gioco, provocatoriamente, mostrandoci il semplice valore godereccio dell’abbandonarsi a un edonismo istintivo.
Dov’è il peccato, se non negli occhi di chi guarda?
Ogni elemento viene esasperato, distorto, mostruoso e bestiale, come in un antico baccanale. La presenza animale potrebbe scandalizzare, ma è l’ennesima provocazione sottile e mirata: prende nuovamente come bersaglio la soffocante ottusità ecclesiastica medievale. Agli occhi dei penitenti o sei con Dio o sei contro Dio, non esistono mezze misure, poiché proprio a quegli occhi, un atto libero e distantissimo dal loro punto di vista, diviene privo di sacralità e tristemente impuro.
Provocazione o follia collettiva?
Fanatismo di massa?
Cosa sono, esattamente, le religioni?

A tratti grottesco tanto da richiamare il più psichedelico Cyd Barrett, nel computo totale sembra di assistere a un musical di cacofonie epilettiche, una parabola marcescente e in seguito rinascente, un’inarrestabile parafrasi delle paure e dei desideri femminili.
Attraverso questa miriade di elementi e informazioni si giunge così a un finale memorabile, immenso e magnifico sotto ogni aspetto, dove riusciremo a comprendere che tutte le donne sono Jeanne, precursora di battaglie femministe e libertine. La citazione ultima alla Rivoluzione Francese è una perla di rara bellezza, rispecchiante la lotta quotidiana di ogni donna per i propri diritti e la propria libertà fisica e intellettuale, poiché femminismo non significa donna sopra il maschio ma al suo fianco, senza discriminazione alcuna.

Sono passati cinquant’anni e, come possiamo benissimo immaginare, “Kanashimi no Belladonna” risulta dannatamente, amaramente e dolorosamente attuale, fra scarpette rosse di protesta, femminicidi domestici, salari ridotti, body shaming, stupri dove “con quella gonna corta se l’è sicuramente cercata” e altri orrori quotidiani da prima pagina.
Il messaggio è chiaro, forte, potente: dovremmo avere l’obbligo morale di essere tutti Jeanne, un messaggio d’emancipazione e di lotte durate secoli, che tutt’oggi perdurano aspramente e giustamente.
È una quesitone di rispetto fra esseri umani, altro che sessi. Un’abitudine difficile da riscontrare in ogni epoca: il volgo vigliacco, l’anima apparentemente persa di lei ma mai smarrita, l’ipocrisia di una inesistente generosità di chi governa tirannicamente, l’atavica convinzione della donna serpente sorella di Satana tentatore e della Mela dell’Eden; maledetto sia l’essere umano, maledetto sia il patriarcato che di generazione in generazione ha gettato fondamenta sempre più profonde nei pensieri di ognuno di noi, germoglio di un mondo dove il seme della discriminazione è talmente radicato che in molti, tutt’oggi, nemmeno si accorgono dei solchi e dei fossati divisori che ci separano non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente.
Accompagnata da tali grida di protesta, quest’opera grandiosa si conclude con l’ennesima tragedia che ci lascia attoniti ma anche immersi in profonde riflessioni.
Un lungometraggio di difficile comprensione, sicuramente non per tutti, a tratti davvero pesante, arricchito da una colonna sonora indimenticabile: sarebbe vergognosamente riduttivo definirlo semplicemente “bello”.

Quando i titoli di coda iniziano a scorrere, un solo pensiero, un grido, sale alla mente:
Libertà, uguaglianza, fraternità!

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Capelli bianchi, sguardo vuoto e imperscrutabile, la bambina senza nome fugge stringendo ai suoi seni un uovo. Il fruscio del vento, il volto dell’inquietudine sembra affacciarsi dalle finestre delle case abbandonate lungo una città in rovina, la bambina scappa, l’uovo è al caldo, lei lo accarezza. Un futuro tetro, un luogo ove il sole non osa addentrarsi, l’ombra di un’astronave si staglia in cielo; il motore del velivolo grida, ai suoi piedi un uomo armato di un fucile a forma di croce.

“Tenshi no Tamago” è un’opera dannatamente complessa. Mamoru Oshii racchiude in questo film tutto il suo estro, confezionando un prodotto tanto personale quanto introspettivo. Tra tutti è forse il lungometraggio che lo rappresenta meglio. C’è chi considera “L’uovo dell’angelo” un capolavoro allegorico e chi invece un mero esercizio di stile, personalmente lo collocherei a metà tra l’esistenzialismo di Bergman e il cinema muto di Fritz Lang, con evidenti rimandi all’Andrej Tarkovskij di “Solaris” e “Stalker”.

Tecnicamente siamo allo stato dell’arte. Il chara di Yoshitaka Amano è qualcosa di incredibile. L’opera è targata 1985 e visivamente l’impatto è tutt’oggi impressionante, la cura per i dettagli è maniacale e ogni scena è degna di un quadro. L’ambientazione distopica e tenebrosa si amalgama alla perfezione al graffiante tratto dei personaggi. Nonostante il film sia piuttosto statico e poco movimentato, risultano ottime anche le animazioni, intervallate da lunghi fermi immagine di chiaroscuri impreziositi da un’avanguardista regia di Oshii. Il comparto sonoro è da brividi: inquietanti cori biblici e drammatiche note di pianoforte scandiscono i passi della bambina.

L’ermetismo di “Tenshi no Tamago” è tutto nel suo criptico simbolismo. Così numerosi i riferimenti alla religione cristiana che risulta difficile coglierli tutti. L’arma cruciforme, l’arca, il diluvio universale, informi pescatori che come mossi da un’unica coscienza cercano disperatamente di afferrare delle gigantesche ombre di pesce. Ma non c’è mano che tocchi l’intangibile, e l’essere umano mai potrà afferrare certi misteri, proprio come i pescatori mai afferreranno quelle ombre. E qui si ritorna ai fotogrammi iniziali, in cui le mani della bambina stringono qualcosa di invisibile, per poi trasformarsi in mani da uomo e distruggere quel qualcosa. Dov’è Dio? Oshii sfoggia un nichilismo di zarathustriana memoria, e il fatto che si sia avvicinato al cristianesimo, per poi allontanarsene poco prima la realizzazione del film, è espresso con una decadenza tale, da portarci a un’unica inconfutabile risposta: Dio è morto. Questa pellicola non va vista, ma osservata, vissuta e interpretata. “L’uovo dell’angelo” è acqua. L’acqua prende forme diverse a seconda dell’oggetto che la contiene, cosi come “Tenshi no Tamago” prende forme diverse a seconda degli occhi di chi lo guarda.

La mia personalissima interpretazione è che l’uovo custodito dalla bambina rappresenti la sua verginità. La scena in cui l’uomo rompe l’uovo con il fucile mentre la fanciulla dorme, sta ad indicare la profanazione della purezza. La bambina quindi, vittima di stupro, si risveglia gridando, per poi suicidarsi gettandosi da un burrone.

“Tenshi no Tamago” è un unicum, un’opera la cui esegesi non può considerare fattori quali storia o caratterizzazione dei personaggi. Piuttosto bisogna soffermarsi sulla linea che intercorre tra significato e significante, rischiando anche di sovrainterpretare. Il sodalizio tra Oshii e Amano è un meraviglioso connubio di stili e idee. E, se vi stavate chiedendo a chi o cosa si fosse ispirato Hidetaka Miyazaki con il personaggio di Filianore in “Dark Souls 3: The Ringed City”, ora avete una risposta.

Voto: 8,5

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«Colorful» è un film da guardare se sarete disposti a scendere ai suoi compromessi, vi potrà sorprendere nel finale con un colpo di scena che non ho volutamente approfondito in questa recensione. Il mio consiglio è quello di rallentare, dedicare 2 ore del vostro tempo a questa visione e imparare da questa storia di vita apprezzandone i dettagli.
Voglio subito spezzare una lancia in favore del film, non è drammatico quanto potrebbe sembrare dalla cover e dai primi minuti, i quali potrebbero trasmettere un senso di sconforto ricordandoci, se l'abbiamo visto, "La tomba delle lucciole" dello studio Ghibli. Entrambi i film iniziano in una stazione ferroviaria con diverse persone/anime in attesa del proprio turno, per accaparrarsi un viaggio che potrebbe cambiare la loro esistenza.
«Colorful» racconta la storia di un'anima macchiata da un gravissimo peccato, alla quale viene offerta una seconda possibilità per tornare in vita, solo a seguito del superamento di un test in cui prenderà possesso del corpo di un ragazzo di nome Makoto. L'anima reincarnata non avrà né i propri ricordi né quelli di Makoto, riceverà solo alcune informazioni dalla sua guida astrale, un'entità con l'aspetto di un ragazzino di nome Purapura. Avrà un duplice obiettivo, quello di scoprire le motivazioni che hanno portato Makoto a tentare il suicidio e provare a ricordare i propri peccati per redimersi. L’anima tenta di emulare la personalità di Makoto, restando all’interno del personaggio nel tentativo di “vestire i suoi panni”.

La storia ruota intorno alla famiglia e alle conoscenze di Makoto, seppur senza approfondimenti, in quanto la narrazione si concentra sulla quotidianità della vita del ragazzo eludendo persino le personalità dello sceneggiatore e del regista, che sembrano non esserci. Hanno deciso di filmare la storia di questa famiglia mostrando cosa succede nella loro vita dopo il tentativo di suicidio di Makoto. Sarà lo spettatore a dover cogliere le sfumature dei personaggi, le reazioni e stati d'animo non saranno filtrate o passate sotto lente di gradimento per essere immediatamente chiare a tutti. Makoto è il protagonista e la regia segue il suo punto di vista per raccontarci la storia.
Questo metodo narrativo mi ha colpito, funziona se riesce a coinvolgerti, entri a far parte di questa famiglia e inizi a vederne luci e ombre. In una famiglia non esiste “Io o Tu” c’è solo il “Noi” e in quella famiglia tutti hanno le proprie colpe. Partiamo proprio da Makoto, il più piccolo della famiglia, non si apre, interiorizza tutto e per giunta un giorno le sue due uniche fondamenta crollano nello stesso momento. Qualcuno dopo la visione potrebbe pensare che le motivazioni del suicidio siano state futili, ma non è forse vero che basta una goccia per far traboccare il vaso?
Il fratello di Makoto è un ragazzo superbo che non dimostra affetto, da l’idea di pensare solo a se stesso e fregarsene di chi gli sta intorno, “esteriormente” di fraterno non dimostra niente.
I figli hanno sicuramente ereditato dalla madre la sua incapacità di aprirsi ed esporre malcontenti e problemi, dopotutto lei è vittima e carnefice della situazione famigliare. Esterna le proprie frustrazioni attraverso il più primitivo istinto di ogni essere umano, il sesso, ma in assenza di dialogo con la famiglia, con il marito, la si può biasimare se cerca compagnia altrove?
Se la madre in una famiglia di solito è il collante, il padre è la figura di riferimento o dovrebbe esserlo. Apparentemente il padre di questa famiglia potrebbe non avere colpe, ma il silenzio è un’arma micidiale, la più pericolosa, colui che sa - e fa finta di non sapere - evitando di parlarne, non fa altro che aggravare la situazione, il dialogo è fondamentale in una coppia e in una famiglia.
In questo assordante silenzio si sviluppano i drammi e le incomprensioni, Makoto non perdona la madre e la tratta in modo barbaro, la donna cerca di tenere duro nonostante non abbia nessuno con cui poter parlare, il fratello continua ad essere distaccato e il padre continua a rimandare un confronto. Se il capitano non sa governare la sua nave, quella nave è destinata ad andare alla deriva.

Ritornando al concetto di narrazione, ho scritto “funziona se riesce a coinvolgerti”, poiché proprio la scelta narrativa ha in sé pregi e difetti. E’ lenta e poco incisiva se non riesci a seguire i suoi tempi, rischiando quindi di non apprezzare le sfumature di cui invece è ricca.
La storia racconta un sorta di espiazione di colpe per la famiglia e per questo motivo mi ha ricordato da alcuni punti di vista “A Silent Voice”, in cui la narrazione è simile, vera e senza filtri. Quantomeno in quest’ultimo la colonna sonora di tanto in tanto alza il livello di intrattenimento su schermo, si ricorda che è un film e non un documentario. La colonna sonora di «Colorful» fa bene il suo lavoro, accompagna sempre le scene mostrate su schermo con brani che si adattano alla perfezione ma non va mai oltre, non è la musica ad elevare le immagini ma si limita ad accompagnarle, segue fedelmente l’imparziale linea narrativa scelta. Qualche piccola rivisitazione e l’aggiunta di brani leggermente più ritmati ed indirizzati, avrebbero reso la storia più coinvolgente e fluida ad un più ampio bacino di spettatori.
Sono i suoni ambientali ed i rumori a fare da cornice alla colonna sonora, come le scarpe di Shoko che rumoreggiano esprimendo timidezza e impaccio mentre parla con Makoto, o il cinguettio degli uccelli che riempie il silenzio di un dialogo, ed ancora il suono delle bacchette di Makoto dedito a mangiare, che echeggia nella scena in cui la madre tenta di comunicare con un figlio disinteressato ed assente.
A mio parere si adattano bene alla narrazione scelta ed esaltano i momenti e i drammi vissuti dai personaggi, esprimo solo il timore che non vengano apprezzati in quanto lo spettatore medio potrebbe non coglierli. Menzione speciale per il brano “Tegami Haikei Juugo No Kimi He”, che nella parte finale del film apre un dialogo in sottofondo e lo chiude in crescendo. Bello il testo del brano “Aozora” cantato da Miwa che ritma i titoli di coda.

Graficamente la serie si attesta su buoni livelli, quasi tutte le ambientazioni fanno uso di fotografie dal vero riarrangiate poi al computer per animarle e fonderle all’insieme. Le animazioni sono fluide e pulite anche se forse in alcune scene si poteva fare qualcosina di più. L’espressività dei personaggi è ben rappresentata, a volte anche un po’ esasperata per poter rendere al meglio le emozioni, ma sempre corretta e mai fastidiosa. La palette cromatica utilizzata è neutra, la sua particolarità risiede nell’adattare saturazione e luminosità dei colori agli sfondi, in relazione alla vivacità della scena, e ai soggetti in relazione ai loro stati emotivi.

Il film vuole insegnarci ad apprezzare le sfumature di colore di noi stessi e di chi ci sta intorno, stimare chi abbiamo vicino valorizzandolo. Ci ricorda che fare una carezza, regalare un sorriso, donare un abbraccio o un saluto non sono scontati e creano legami. Di contro una ramanzina, una discussione, un confronto non sono mai superflui, ma aiutano a relazionarsi e crescere insieme.