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Nel lontano 1981, Gary K. Wolf pubblicò negli Stati Uniti d’America un romanzo di scarso successo, le cui vendite furono fondamentalmente modeste e di cui, al tempo, si parlò molto poco. Un anno dopo, la Walt Disney Pictures, dall’alto della propria infallibile lungimiranza, acquistò i diritti del romanzo per farne un lungometraggio. Per la sceneggiatura, vennero assunti Jeffrey Price e Peter S. Seaman, mentre alla regia si propose un certo Robert Zemeckis che, all’epoca, aveva diretto alcuni film dalla tiepida accoglienza al botteghino, motivo per il quale la Disney non lo prese inizialmente in considerazione. Nel frattempo, la casa di produzione statunitense aveva creato una divisione autonoma per la produzione e distribuzione di commedie leggere, non appositamente concepite per il pubblico infantile, dal nome Touchstone Pictures – marchio che nel 2018 ha cessato di esistere. La Disney cercò, allora, di assumere Terry Gilliam alla regia del film, ma quest'ultimo rifiutò il ruolo poiché, secondo lui, il progetto di adattamento del romanzo era troppo difficile da realizzare. Intanto, nei cinema statunitensi era uscito un film di discreto successo dal titolo “Ritorno al futuro”, diretto proprio da quel Robert Zemeckis di cui sopra, il che convinse la Disney ad assumerlo alla regia del proprio lungometraggio. Nello stesso anno, ovvero il 1985, Michael Eisner, l'allora amministratore delegato Disney, assunse Frank Marshall, Steven Spielberg e Kathleen Kennedy come produttori della pellicola. Il budget finale stanziato fu di 29,9 milioni di dollari, una cifra non proprio irrisoria per l’epoca. Eppure, le scelte di Eisner pagarono e non poco, perché a livello internazionale il film, adattamento di quel romanzo così poco conosciuto, incassò la bellezza di 351 milioni e mezzo di dollari. Per chi non lo avesse capito, il romanzo in questione è “Who Censored Roger Rabbit?” e il lungometraggio che ne ha tratto ispirazione “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, uscito negli Stati Uniti d’America nel 1988.

Nel 1947, a Los Angeles, esseri umani e cartoons vivono insieme. I toons lavorano come attori nei cartoni animati e abitano a Toontown, una città tutta loro. Roger Rabbit, famoso attore-toon ma molto emotivo, teme che sua moglie Jessica lo tradisca. Per tale ragione, il capo degli studi cinematografici, R.K. Maroon, assume il detective privato Eddie Valiant per scattare foto compromettenti a Jessica. Eddie fotografa la moglie di Roger Rabbit mentre gioca a patty-cake – un’innocua gag – con Marvin Acme, il proprietario di Toontown. Poco dopo, Acme viene trovato morto, ucciso da un pianoforte caduto dal cielo. Ovviamente, tutti sospettano di Roger che, disperato, si presenta da Eddie professando la propria innocenza. Eddie, suo malgrado, finisce per aiutarlo a nascondersi e inizia ad indagare per scoprire la verità.

Ciò che rende “Chi ha incastrato Roger Rabbit” un film cult è la combinazione tra attori in carne ed ossa e personaggi animati, i toons. In realtà, la tecnica usata da Robert Zemeckis è tutt’altro che originale, perché a partire dagli anni ’20 già altri corti Disney e lungometraggi se n’erano serviti: celebri, in tal senso, i prodotti con protagonisti Tom e Jerry. Il grande merito del regista statunitense, invece, è stato sicuramente quello di aver combinato alcuni dei personaggi più famosi provenienti dall’universo Disney con quelli legati alla Warner Bros: Roger e Jessica Rabbit, Baby Herman, Topolino e Paperino, Bugs Bunny e Duffy Duck ecc. Alcuni di questi personaggi fanno solo una breve comparsa all’interno del film; eppure, la loro presenza basta a rendere questa pellicola unica nel suo genere. A ciò, si sommano le performances irripetibili del grande Bob Hoskins nei panni di Eddie Valiant e della seducente Joanna Cassidy nelle vesti di Dolores, la compagna di vita dell’investigatore privato. Zemeckis propone un roster di personaggi ampio ed invidiabile, in cui spiccano inevitabilmente i due protagonisti: Eddie e Roger, il cui rapporto fuori dalle righe rappresenta la linea comica del film.

Eddie Valiant e Roger Rabbit sono come cane e gatto. Roger è affettuoso e giocherellone, un coniglio a cui piace scherzare, fare battute e intrattenere con brevi spettacoli comici gli spettatori – anche quelli non paganti –, il che è giustificato dalla sua natura di cartone animato. Eddie, invece, è scontroso e schivo, e non prova particolare affetto per i toons – per motivi chiariti durante lo svolgimento della storia –, simboli di un mondo da cui preferirebbe tenersi alla larga. Eppure, quando Roger si trova in difficoltà, Eddie, da vecchio cuore quale egli è, non riesce proprio a negargli il suo aiuto, scelta di cui poi avrà più volte a pentirsene. Insieme, l’esuberante coniglio e il rammaricato investigatore privato formano una coppia tutta da scoprire, le cui interazioni fungono da inesauribile motore comico del lungometraggio, che nasce con lo scopo di divertire ed intrattenere, e ci riesce egregiamente, anche a quasi quarant’anni di distanza dal suo lancio.

A proposito di intrattenimento, nulla mi ha colpito maggiormente – in senso positivo – del plot twist finale. A scanso di equivoci, è mia premura chiarire un fatto: ho seguito il film con grandissima attenzione, motivo per il quale credo fermamente di non aver tralasciato nessun segnale inequivocabile, a meno che non abbia iniziato a soffrire a mia insaputa di qualche grave deficit cognitivo. Dunque, escludendo questa estrema possibilità, la conclusione a cui sono giunto è che la trama è stata costruita così bene da non far sospettare di nulla lo spettatore che, arrivato alla fine, resterà sbigottito dinanzi alla rivelazione circa la reale identità del nemico comune di Eddie e Roger – chi ha visto il film capirà la mia allusione. Per quel che mi riguarda, questa è stata la conferma che per ideare un finale ad effetto non serve essere per forza il Christopher Nolan di turno, bensì basta costruire una trama coerente e lineare, rivelando ciò che bisogna sapere al momento giusto, né un attimo prima né un attimo dopo.

A fare da cornice la Los Angeles del 1947 e un’atmosfera da noir americano del dopoguerra, in cui spiccano strade fumose, night club, bar malfamati, tram ormai desueti, corruzione dilagante e una capillare speculazione edilizia. Retaggio di un’epoca ormai molto lontana nel tempo, di cui “Chi ha incastrato Roger Rabbit” si fa carico, portandoci a riflettere su una verità troppo difficile da accettare, ovvero che, sotto sotto, si stava meglio quando si stava peggio.