Nella lunga e onorata storia degli shooter in prima persona, i sottogeneri e le ibridazioni sono stati pressoché innumerevoli. Diversi sviluppatori, in particolare nell’ultima decade, hanno proposto una loro personale visione del genere, o magari anche solo delle affascinanti sperimentazioni. Quella con il genere horror, in particolare, costituisce una congiuntura spesso assai fruttuosa: ricordiamo, a titolo di esempio, le varie iterazioni dell’apprezzata saga di F.E.A.R., ma anche i due più che gradevoli Condemned.

Get Even, ultimo prodotto uscito dalle talentuose fornaci di The Farm 51 (Necrovision, Deadfall Adventures) su PC, PlayStation 4 e Xbox One, si presenta proprio, ad una prima occhiata, come l’ideale figlio biologico dei due suddetti franchise; ma Get Even è anche un titolo assai volenteroso, spesso a proprio stesso discapito, ansioso di costruirsi una reputazione tutta sua a qualsiasi costo, e già dalle primissime battute di gioco non perde tempo ad inondare il giocatore di quesiti sulla natura del gioco in questione, grazie ad una trama accattivante e ad un gameplay profondamente atipico.

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Fin da principio, infatti, il developer non ha mai nascosto la propria intenzione di offrire al pubblico un’esperienza singolare e maggiormente sfaccettata rispetto alla media del genere FPS, un titolo – nelle loro parole - capace di far spremere le meningi al fruitore in più di un modo; tutti gli sforzi, e lo si capisce già nei primi istanti, sono stati concentrati nell’intreccio e nella costruzione di un’atmosfera da vero thriller di qualità cinematografica. E d’altronde, lo studio stesso ha fatto quasi un punto d’orgoglio della mole di lavoro sostenuta dagli sviluppatori nei loro sforzi per portare su schermo un’esperienza quanto più realistica possibile, grazie all’utilizzo di sofisticate tecnologie di scansione 3D e fotogrammetria utilizzate su ambienti reali e riproposte poi quasi pedissequamente nel gioco.

Quello davanti a cui ci troviamo è dunque potenzialmente una piccola perla; è un peccato, perciò, constatare che dopo le prime, suggestive ore Get Even si perde allontanandosi dalle sue premesse e promesse, rivelandosi nulla di più che il tipico studente che è “intelligente, ma non si applica”. Ma vediamo di spiegare meglio cosa intendiamo.

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Come già detto, l’intreccio di base di Get Even sa solleticare il giocatore praticamente fin da subito, promettendo una trama ricca di colpi di scena e faville: interpreteremo il ruolo di Cole Black, un uomo risvegliatosi misteriosamente in un ospedale psichiatrico abbandonato, quasi senza ricordi e con una sorta di visore per la realtà virtuale impiantato nella testa; l’ultima cosa che Black ricorda riguarda il tentativo di salvare una giovane donna tenuta in ostaggio con una bomba legata al corpo. Non passa molto tempo prima che Black venga contattato da un uomo misterioso che si firma solo con lo pseudonimo di Red: apparentemente, costui sembrerebbe solo voler aiutare Black a scoprire la verità, sfruttando il suddetto apparecchio che, si scopre, è chiamato “unità Pandora” e possiede la capacità di far rivivere i ricordi – anche quelli dimenticati – all’interno di una simulazione virtuale. Tuttavia, come si scoprirà presto, ogni personaggio di Get Even ha una propria agenda, e spesso persino gli stessi protagonisti non sono chi pensavano di essere.

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Come si può intuire da tale breve incipit, Get Even propone al giocatore una trama complessa e intricata, che tra l’altro è presentata in maniera mai convenzionale, grazie all’utilizzo di insoliti meccanismi narrativi, di ripetuti rovesciamenti di prospettiva e di un ordine di presentazione degli eventi che non segue l’ordine cronologico nel quale sono avvenuti. Dato anche l’elevatissimo numero di documenti collezionabili che mirano ad approfondire retroscena più o meno reconditi – organizzati sistematicamente mediante una camera specificamente dedicata alla raccolta delle prove – Get Even è un titolo che chiede al proprio fruitore costante attenzione e dedizione, pena l’inevitabile “perdersi” di qualche tassello della trama, magari necessario per comprendere a fondo qualcuno degli elementi più oscuri del plot. Nei momenti più riusciti, Get Even sa intessere una storia complessivamente ben scritta e non banale, ponendosi come un thriller piuttosto riuscito a metà fra l’oscurità di Memento e i virtuosismi di Inception. Sfortunatamente, la bontà di base della sceneggiatura è macchiata da alcune ingenuità che le impediscono di raggiungere il proprio pieno potenziale: tanto per cominciare, l’abnorme quantità di documenti, foto, lettere e email da leggere ha l’inevitabile conseguenza di spezzettare e frammentare eccessivamente la narrazione, cosa che può a volte portare alla confusione i giocatori con meno memoria, o anche quelli che magari si sono persi uno o più collezionabili importanti. E anche la ricerca del colpo di scena a tutti i costi si fa sempre più chiara e pressante nelle battute finali, finendo per essere oltremodo deleteria per l’equilibrio di un plot che, fino a quel momento, era riuscito complessivamente a dosare bene i suoi vari elementi.
 

 
Un’altra criticità va rilevata nel ritmo di gioco: il gameplay di Get Even è un vero e proprio “melting pot” di stili, un misto di generi disparati messi insieme a volte in maniera brillante, ma più spesso con risultati non proprio omogenei. Di base, quello cui ci troviamo di fronte è un misto fra classico shooter in prima persona, stealth game assai elementare e qualche velleità da avventura grafica: Black si ritroverà principalmente a raccogliere indizi e informazioni nell’ospedale psichiatrico – facendo anche attenzione ai pazienti rimasti, squilibrati e pericolosi – mentre nei ricordi che potrà rivivere grazie all’unità Pandora il suo compito sarà di attraversare dei livelli lineari, evitando o affrontando direttamente dei nemici che altro non sono se non delle simulazioni create dallo stesso dispositivo VR a causa della difficoltà di accedere ad una specifica memoria.

Ebbene, se una simile impostazione di base porterebbe a pensare, a prima vista, ad una struttura di gioco varia e mai semplice, così spesso non è alla prova dei fatti; l’amalgama di codici diversi conduce il giocatore lungo un viaggio spezzettato e informe, che non approfondisce bene nessuno degli elementi nei quali è composto. Se dunque la fase shooter si rivela priva di mordente, ciò è dovuto alla deficitaria IA e all’assenza di un armamentario degno di questo nome – fatta eccezione per un’arma che permette di sparare da dietro gli angoli, concetto senza dubbio interessante ma non adeguatamente sfruttato. Anche le fasi stealth sono assolutamente dimenticabili, causa un level design che non riesce ad accompagnare a dovere tale stile di gioco, nonché la mancanza di serie opzioni tattiche che possano sviluppare meglio un approccio meno rumoroso. La frustrazione derivante dall’ennesimo tentativo fallito di entrare in una stanza sorvegliata ci ha condotto più di una volta a sfoderare semplicemente la pistola e far fuori tutti i nemici senza tanti complimenti, e a poco sono valsi i rimproveri di Red in proposito. Sì, perché in Get Even esisterebbe, in teoria, un sistema di moralità le cui conseguenze dovrebbero cambiare alcuni aspetti della narrazione. Fatto sta, in ogni caso, che durante la nostra prova i cambiamenti che abbiamo avuto modo di osservare sono stati decisamente troppo sottili per costituire delle vere e proprie differenze tali da spingere a più di una playthrough.

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Paradossalmente, è nelle fasi investigative che Get Even riesce a scrollarsi di dosso il peso derivante dall’essere, o dover essere, uno shooter, tornando pienamente a fare ciò che sa far meglio, vale a dire intrattenere il giocatore con la forza della sua narrazione. In ogni momento del gioco Black ha con sé uno smartphone dotato di sofisticate tecnologie per l’analisi e la scansione dell’ambiente circostante, da una fotocamera a infrarossi ad un analizzatore 3D di specifici oggetti. Esplorando l’ambiente circostante Black potrà così trovare indizi utili per far luce sul mistero in cui è coinvolto, magari risolvendo occasionalmente dei piccoli puzzle ambientali che, pur non costituendo davvero un serio sforzo per le meningi del giocatore data la loro relativa semplicità, riescono comunque a variare la struttura di gioco quanto basta. Pur non possedendo la tradizionale complessità di un’avventura grafica canonica, le sezioni più introspettive di Get Even sono spesso quelle più interessanti visivamente e narrativamente.

Gli ambienti di gioco non sono, purtroppo, altrettanto accattivanti. La già citata tecnologia di fotogrammetria utilizzata per donare al titolo un’estetica quanto più realistica possibile ha anche avuto l’effetto di rendere le ambientazioni monotone e ripetitive, con interni angusti e stretti ed esterni privi di un vero carisma. Se dunque da una parte ci possiamo trovare di fronte a ricostruzioni fedelissime e sicuramente immersive a sufficienza, dall’altra il level design eccessivamente spoglio e decisamente essenziale toglie un po’ il gusto dell’esplorazione e della scoperta, tanto più che tra ospedali, cimiteri, complessi di ricerca e magazzini abbandonati le idee per ambientazioni memorabili non mancavano. L’anonimità dei locali e il senso di ripetitività non è certo aiutato da una veste grafica che non fa più dello stretto indispensabile, proponendo texture non al passo con i tempi e orpelli grafici decisamente sorpassati.

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Tocca, di nuovo, all’attenzione riposta verso lo storytelling salvare l’esperienza estetica complessiva, grazie ad un doppiaggio di qualità cinematografica e ad una colonna sonora di caratura semplicemente mostruosa; firmata da Olivier Deriviere (Alone in the Dark, Obscure), l’accompagnamento musicale orchestrale costituisce, per la sua qualità e la sua capacità di adattarsi poliedricamente e dinamicamente alle situazioni proposte, un ausilio indissolubile dall’esperienza di gioco complessiva.
 
Seppure il risultato finale non riesca a rendere pienamente giustizia alla visione dei ragazzi di The Farm 51, Get Even rimane comunque un prodotto ambizioso, che fa della propria peculiarità ed ecletticità un punto di forza. Non sempre il gameplay riesce a reggere il peso di tali premesse, e spesso manca la coesione necessaria per fornire un’esperienza di gioco equilibrata. Ma non si può negare il fascino derivante dalla narrazione intrigante e dalla tendenza a sfidare con inusuale coraggio le convenzioni prestabilite del genere.