Nell’imponente palazzo di Southern Cross si consuma la sfida tra Kenshiro, ultimo discendente della leggendaria e letale arte marziale Hokuto Shinken, e Shin, maestro di una delle sei discipline Nanto Rokusei Ken, motivo di contesa la bellissima Yuria, costretta da quest’ultimo ad abbandonare l’amato Ken per amare il rivale. Sconfitto Shin in un combattimento all’ultimo sangue, Kenshiro si mette in viaggio per le lande desolate proprio sulle tracce di Yuria, che lo portano a dirigersi verso la “Città dei Miracoli”, un luogo tra mito e utopia, ricco di acqua ed energia elettrica ma anche impenetrabile per gli stranieri.

Giunto all’ombra delle mura della città, dopo alcuni tentativi andati a vuoto Kenshiro giunge alla conclusione che l’unico modo per varcare l’enorme cancello è farsi arrestare, dopo aver procurato un bel trambusto con un gruppo di fuorilegge si fa dunque sbattere in galera dal capo delle guardie Jagre. Il colosseo dei Gladiatori, che concede ai prigionieri una minima speranza di libertà in caso di trionfo, sembra il tramite per Kenshiro per esplorare la città per trovare qualche indizio che possa condurlo verso Yuria. Con il prezioso aiuto di Xsana, colei che governa Eden, dello stesso Jagre e del guerriero di Nanto Rei, Kenshiro dovrà fare luce sui misteri che nasconde questo luogo, in grado di attrarre sistematicamente invasioni esterne che lo porteranno a scontrarsi con i più formidabili guerrieri, da sedicenti sacri imperatori a fratelli dalla smisurata ambizione.
 

In gergo si definisce retelling, prendere personaggi e alcune situazioni da un’opera precedente e piazzarli in un nuovo contesto con differente sviluppo, ed è esattamente questo che fa Hokuto ga Gotoku (Fist of the North Star: Lost Paradise sulle nostre longitudini). L’opera in questione è ovviamente Hokuto no Ken di Tetsuo Hara e Buronson, storico e mai dimenticato manga del 1983, il cui enorme e inaspettato successo diede il via alla cosiddetta “epoca d’oro” di Shonen Jump, protratta poi da altre serializzazioni quali Dragon Ball, Saint Seiya e Jojo’s Bizzarre Adventure.
Non sono mancate negli anni trasposizioni videoludiche delle avventure di Kenshiro, che dal NEC PC-8801 alla PlayStation 3 hanno visto il guerriero di Hokuto esplorare vari generi, dall’avventura grafica al picchiaduro a scorrimento, dal gioco di ruolo al musou, raggiungendo a volte risultati soddisfacenti (come nel caso del picchiaduro 2D di ArcSystem Works), ma battendo comunque sentieri già ampiamente tracciati, sia dal punto di vista narrativo quanto su quello ludico. A conti fatti, come avviene per la stragrande maggioranza dei videogiochi tratti da anime famosi, i più si sono limitati a fare il classico “compitino”.
 

Ed è per questo che, all'annuncio di un anno fa di un nuovo videogioco dedicato a “Ken il Guerriero” e realizzato nientemeno che dal team artefice dell’acclamata serie Ryu ga Gotoku (Yakuza), l’entusiasmo è cresciuto sia da parte dei fan di Ken quanto di quelli della suddetta saga, che si sono subito resi conto quanto il matrimonio tra l’ambientazione e i personaggi del manga di Jump e la struttura della serie Sega, potesse effettivamente funzionare. Dalla violenza dei combattimenti di strada alla tamarraggine di personaggi fuori da ogni canone, tutto sembra al suo posto per far incastrare elementi portanti delle due serie e mettere in piedi un videogioco divertente, longevo e per quanto possibile rispettoso del manga originale e derivate controparti animate.

La familiarità con messa in scena e dialoghi dell’introduzione, quella dedicata a Shin, lascia ben presto il posto ad uno scenario inedito, avente protagonista assoluta questa Eden che di giorno è la più classica baraccopoli con bancarelle, sentinelle e vagabondi di vario genere, ma che al calare del buio si trasforma in una sorta di Las Vegas post-atomica con bar aperti tutta la notte e casinò dalle insegne luminose. Chi si aspetta da Lost Paradise alta narrativa nonché una fedele riproposta di tutti i momenti più epici dell’epopea di Ken, dovrebbe davvero rivolgere la sua attenzione altrove, come nel caso della serie Yakuza qui si viaggia sul quel finissimo e doppio filo tra melodramma e parodia, un contrasto che tanto bene funziona quando si ha un personaggio come Kenshiro, la cui caratterizzazione monoespressiva ben si presta a situazioni di ordinaria follia che mai ci aspetteremmo di trovare nelle sue avventure originali.
 

Ed è questo lo scopo che sembra prefiggersi Hokuto ga Gotoku: il dramma di Rei, la crudeltà di Souther, la vigliaccheria di Jagi, la saggezza di Toki l’ambizione di Raoh, sono tutte lì, al loro posto, per quanto molti approfondimenti siano inevitabilmente sacrificati, ma di suo però il videogioco sottopone, al di fuori della storyline, un inedito Kenshiro alle prese con sotto-trame ai limiti del grottesco e attività di vario genere, che sia un part-time al bancone di un bar o a capo della gestione di un nightclub, sono situazioni che in certi casi non possono che strappare qualche sorriso, amplificate dalla assoluta dedizione e convinzione con cui Kenshiro affronta anche le più ordinarie mansioni, scaturendo in quella “serietà comica” tipica di manga come Thermae Romae.
 

Il Ryu ga Gotoku Studio estrapola dunque la sua collaudata struttura catapultandola nel desolato mondo di Ken il Guerriero, aggiungendo per l’occorrenza substories (ottanta in tutto) e minigiochi creati ad hoc. Oltre a cimentarsi nel ruolo di bartender o di dottore alla clinica, Kenshiro potrà infatti dare il suo contributo come cacciatore di taglie oppure affrontando i numerosi scontri del Colosseo, attività decisamente più affini a quelle che sono le sue capacità combattive.
Ma la maggior novità introdotta in Lost Paradise è forse rappresentata dalla Buggy, la Jeep di Bat sarà nostra fedele compagna per le esplorazioni oltre le mura di Eden, le cosiddette Westeland. Con i materiali raccolti per queste desertiche lande, l’auto può essere potenziata in tutti i suoi componenti per permetterci di raggiungere nuove aree e perché no, partecipare a delle gare che mettono in palio premi esclusivi.
Non è purtroppo presente la celebre disciplina del “Lancio dell’Uomo” ma al suo posto Kenshiro può dilettarsi nel The Slugger in cui, una volta posizionato sulla casa base di ciò che rimane di uno stadio baseball, dovrà colpire con un’enorme sbarra di ferro dei motociclisti in arrivo a tutta velocità; precisione e tempismo saranno fondamentali per catapultarli verso le stelle, nel vero senso della parola.
Una missione secondaria ci invita a cercare cabinati sepolti nelle Westeland, saremo quindi noi stessi attivi dell’allestimento di una sgangherata sala giochi con al suo interno classici Sega come OutRun, Super Hang-On e Space Harrier, già visti in Yakuza 0; l’idea delle mappe del tesoro, che riceveremo dopo un combattimento o come dono per aver concluso una missione, è carina, anche se il loro essere a tempo (scaduto il quale il tesoro sparisce) ti costringono ad uscire dalla città anche quando magari vorresti fare altro al suo interno.
 

Insomma proprio come ci si aspetterebbe da questo Studio, c’è di che dilettarsi in Fist of the North Star: Lost Paradise per accrescere la longevità del titolo, che dire dunque di quello che è il fulcro del gioco, ossia i combattimenti? L’ossatura ludica e i movimenti sono quelli di Yakuza, con due tasti adibiti a calci e pugni, uno per i colpi speciali e uno per le schivate, con la non trascurabile differenza che rispetto a Kazuma Kiryu il discendente dell’Hokuto Shinken risulta molto più letale sui nemici, che divengono pura carne da macello una volta padroneggiato il sistema di gioco. I fan dell’anime si divertiranno un mondo a far esplodere le teste (lo splatter è comunque regolabile) di queste ormai iconiche orde di “punkettoni” e ad imparare nuove abilità sempre più devastanti, mentre le boss battle si contraddistinguono da scene in cui i QTE (quick time event) le fanno da padrone, a rendere tutto più spettacolare, nonostante non manchino alcune cadute di stile, come l’inspiegabile combattimento “in prima persona” contro Jagi, e un bilanciamento della difficoltà non sempre impeccabile, dovuto, come spesso avviene nella serie Yakuza, da un numero forse troppo generoso di cibario curativo utilizzabile, a rendere in sostanza le battaglie contro i boss delle prove di resistenza.
 

Dove invece Fist of the North Star: Lost Paradise cede decisamente il fianco, rispetto alla serie di Yakuza e videogiochi affini, è sul comparto tecnico. Se le animazioni di Kenshiro e degli altri personaggi principali compiono degnamente il loro dovere ricalcando fedelmente i movimenti dell’anime, lo stesso non si può dire per quel che riguarda buona parte dei NPC, che sembrano risalire alla scorsa generazione, e allo sforzo grafico in generale. Pur prendendo atto che già di suo il tratto di Hara non garantisca molta varietà nel character design, girare nel 2018 per le strade di una città circondati per lo più da cloni (in particolare le donne, di due tipi o giù di lì, vestiario incluso) non è proprio il massimo, a cui si aggiungono effetti di luce fin troppo basilari, fisica dell’auto che definire migliorabile è eufemistico e altre piccole magagne, dovute un po’ all’inesperienza dello Studio su qualunque cosa non abbia uno Yakuza rissoso come protagonista, e un po’ alla svogliatezza generale che tradisce l’importanza di secondo piano di questo progetto rispetto alla suddetta serie di punta.
Accompagnamento sonoro, ovviamente orgogliosamente rockettaro, idoneo, anche se viene da chiedersi quanto meglio avrebbe reso nello stereo a bordo della Buggy uno YOU WA SHOCK rispetto alla musica di Super Monkey Ball (Sega non riesce proprio a non autocelebrarsi). Per concludere vale affermare con forza, cara Sega, che il doppiaggio inglese su un gioco per animefan è un impiego di risorse alquanto discutibile, a cui sarebbe stata di gran lunga preferibile la presenza dei sottotitoli in più lingue, data anche la comprovata fama della serie animata nel nostro paese.
 
 
Trent’anni dopo i trascorsi del Master System Sega ritrova il salvatore di fine secolo di Hara e Buronson, portando anche sull’ultimo hardware di Sony le sue storie di violenza e redenzione, di etica e di fratellanza, di scontri tra diverse visioni del mondo atte a riportare ordine in un’epoca del caos, per quanto il materiale di origine si dimostri inarrivabile. Il mash-up con la serie Yakuza, seppur strutturalmente riuscito, meritava forse maggior rifinitura, denunciando una certa arretratezza tecnica, tuttavia con inevitabile rimando alla pura azione dell'indimenticato God Hand di Mikami, Hokuto ga Gotoku propone quel divertimento immediato e caciarone che l’open world medio occidentale dal miliardo di budget spesso fatica ad esprimere.