L’Impero Ereboniano è una delle più grandi potenze del continente di Zemuria, che in seguito alla “Rivoluzione di Orbal” (una vera e propria Rivoluzione industriale) ha visto crescere il suo potere economico, tecnologico e militare. Ciò però ha portato all’arricchimento e alla formazione nuove e potenti famiglie, la cui ascendenza ha iniziato a minacciare le quattro grandi nobili casate (Kaien, Albarea, Rogner, e Higharms), dando vita ad un clima di movimento riformista, con il cancelliere Giliath Osborne quale figura di spicco, appoggiato dagli alti ranghi militari. Mentre molti vedono questa nuova classe di cittadini una forza positiva di cambiamento in Erebonia, altri sono diventati diffidenti nei confronti di Osborne e della sua continua militarizzazione dell'impero. Con le crescenti tensioni tra i sostenitori di entrambe le parti, il futuro di Erebonia è incerto.

Tra le certezze figura però la storica Accademia Militare Thors, fondata oltre duecento anni fa dall’ imperatore Dreichels Reise Arnor, un prestigioso luogo di addestramento per giovani provenienti da tutto l’impero che hanno come obiettivo quello di essere reclutati nel potente esercito imperiale. La struttura scolastica si compone di cinque classi suddivise in base allo status sociale degli studenti (Classi I e II per i nobili, classi III, IV e V per i comuni), tuttavia il giovane Rean Schwarzer, al suo arrivo all’Accademia, viene assegnato alla misteriosa Classe VII, la quale si compone, per la prima volta nella storia dell’istituto, da studenti provenienti da ogni ceto sociale. Armati dei più moderni ARCUS Orbment, che conferiscono loro sofisticate tecniche di combattimento, e sottoposti ad addestramenti sul campo, i nove studenti della Classe VII dovranno superare i loro conflitti e gli ostacoli di un primo anno, ricco di eventi, che non dimenticheranno facilmente. Ma è solo il preludio di qualcosa di più grande..

 

Unpopolar opinion: chi scrive ha sempre trovato l’ottavo Final Fantasy un gioco di ruolo sotto molti aspetti disastroso, con un sistema di sviluppo delirante e una sceneggiatura che fa dei plot twist un uso scellerato, in particolare nella seconda metà della storia, lasciando sulla sua strada buchi e dubbi grandi quanto le sbandate gestionali dell’odierna Square Enix. Il tempo però tende a rendere più buoni, e più in generale non si può negare che non vi sia miglior giudice della storia, volgere uno sguardo al passato ci aiuta a capire che certe opere, anche quelle costellate da difetti e scivoloni, possono essere collocate in un determinato ingranaggio creativo. Se c’è un merito che attribuisco senza remore a Final Fantasy VIII, in occasione del suo ventesimo anniversario (al di là delle carte e di Liberi Fatali), è quello di aver anticipato il filone degli RPG nipponici con ambientazione accademica, quantomeno nella sua fase iniziale.
Vero, Atlus con Megami Ibunroku Persona e prima di esso Shin Megami Tensei If ci aveva catapultato in una scuola, ma in quei casi un generico istituto superiore giapponese non era che un luogo come un altro in cui intrappolare un gruppo di studenti e far apparire orde di demoni; la scuola non la vivevi, dopo una ventina di minuti di presentazione e dialoghi avevi già evocato il tuo Persona e non ti rimaneva da fare altro che combattere. Final Fantasy VIII era diverso, ti accompagnava per la prima ora di gioco a visitare questa incredibile, a tratti futuristica ma comunque ben presto familiare scuola: l’infermeria, il giardino, le aule, i dormitori, la biblioteca, un luogo di studio dove si impara che la magia non è più una cosa mistica bensì una risorsa limitata da sfruttare, e dove le invocazioni ti vengono consegnate per conseguire un esame neanche fossero dei libri di testo. Il Garden è la “normalizzazione” di tutto ciò che è stato Final Fantasy fino a quel momento, ma soprattutto il Garden è una scuola militare, che addestra veri e propri mercenari in un mondo in cui la guerra sembra l’unica soluzione possibile.
 

Curiosamente, quest’anno cade anche un altro anniversario, ossia quello di The Legend of Heroes, il cui primo capitolo, nato da una costola di Dragon Slayer, usciva trent’anni fa su NEC PC-88. La saga di Eiyū Densetsu è, senza mezzi termini, la più grande epopea mai creata nel genere, l’assonanza del titolo con Ginga Eiyū Densetsu (Legend of the Galactic Heroes) non sembra casuale, con tutte le differenze del caso, poiché è alla celebre space opera che Nihon Falcom sembra ispirarsi, nel tentativo di portare il gioco di ruolo su un livello differente da quello degli RPG anni ottanta, che ruotavano intorno al solo protagonista eroe, concentrandosi per la prima volta sugli aspetti politici e socioeconomici del mondo di gioco.
In The Legend of Heroes si seguono le gesta di un principe bambino, costretto, a causa di un’invasione di mostri, ad abbandonare il suo regno; per Falcom tuttavia i mostri non sono più la minaccia principale di un mondo che attende solo di essere salvato, bensì divengono un mezzo del Barone Ackdam di turno per usurpare il trono e prendere il potere. Praticamente sconosciuti in occidente, la serie di The Legend of Heroes procede prima con la trilogia Garghav e poi con Trails in the Sky confermando i suoi punti fermi, si rifugia nel mercato PC e in quello delle confortevoli console portatili di Sony, distanziandosi dalle giravolte produttive di Square Enix e dalle piattaforme più potenti, facendosi di contro trovare tecnicamente arretrata nel momento del passaggio alla terza dimensione, avvenuto nel 2013 con Trails of Cold Steel (Sen no Kiseki).
 

Il debutto però della serie ad un sistema scolastico, stimolato probabilmente sulla scia dell’enorme successo di Persona 3 (2006) e seguito, viene plasmato magistralmente dalle mani di Nihon Falcom; quella stessa atmosfera da accademia militare citata in precedenza che fu di Final Fantasy VIII, e riproposta nel più recente Type-0, si mescola alla struttura social (link) portata in auge da Atlus, creando così un ibrido di assoluto spessore, che va a smussare e non poco uno dei difetti intrinsechi del genere e dei Persona con i loro interminabili dungeon procedurali, ossia la ripetitività. Nonostante una durata non indifferente (l’avventura sfonda come minimo la settantina di ore), in Sen no Kiseki non si ha mai la sensazione di assistere ad una scena o di fare una cosa due volte, ogni evento, ogni luogo e ogni NPC trova il suo posto nell’enorme intessitura narrativa; se c'è un aspetto che  Falcom non ha mai trascurato, è assicurarsi che nessun frammento di storia e di sviluppo dei personaggi venga lasciato a se stesso.

La mole testuale, ben rappresentata dai romanzi da collezionare che spaziano dalla geografia, alla politica, alla storia di Zemuria (con collegamento al Crossbell Arc di Zero/Ao no Kiseki), non sono che l’emblema dell’enorme cura descrittiva e di worldbuilding di cui si fregia l’opera di Falcom. A differenziare Sen no Kiseki rispetto ad altre serie affini è senza dubbio la sua pianificata serialità, il qui esaminato gioco non è che il primo atto di una trilogia, poi allargata a tetralogia, che si prende carico di introdurre il giocatore in scenari geopolitici via via sempre più vasti. Scendendo a patti con quelli che sono i suoi tempi, spesso dilatati, la storia di Trails of Cold Steel saprà catturare in modo genuino e senza forzature, conosceremo ogni studente e ogni docente dell’Accademia Militare Thors, assisteremo alla loro crescita e vivremo l’evolversi degli eventi con un’immersione che ha pochi illustri paragoni nel ricco campionario di RPG giapponesi.
 

Tutto ciò non funzionerebbe se non fosse sorretto da una solida impalcatura di gioco. Ottemperando a collaudate concezioni, Trails of Cold Steel si impegna nel farci vivere a 360° la nostra esperienza accademica, che si compone di piccole mansioni per il consiglio studentesco, esami scritti trimestrali, esercitazioni pratiche sul campo. Di provenienza Atelier, più che Persona, è il Free Day, una giornata festiva in cui potremo dedicarci ad attività di vario tipo e passare del tempo con i nostri compagni consumando dei Bound Point, che ci verranno elargiti periodicamente oppure compiendo alcune missioni secondarie. Ciò andrà ad aumentare l’affinità con loro e di conseguenza l’efficacia delle tecniche di Link, mentre le attività collaterali ci permetteranno di guadagnare AP (Punti Accademia) extra, che andranno a decretare, alla fine di ogni capitolo, il punteggio di Rean e il conseguente grado accademico.
 

Il passaggio della serie alla terza dimensione si traduce in un sistema di combattimenti a turni disposto in arene 3D, dove coprono un ruolo fondamentale l’assetto stesso dei personaggi e il range delle tecniche offensive a disposizione. Oltre all’attacco fisico, i quattro membri scelti per la battaglia possono effettuare le Orbal Art (magie) e le Craft, ossia le tecniche specifiche per ogni personaggio i cui effetti possono variare dal supporto al raggio d’azione su vasta scala, ma possono anche interrompere un’arte in procinto di essere lanciata dal nemico. I personaggi possono legarsi tra loro con il sistema di Link e in base al loro livello di affinità i benefici in battaglia possono essere molteplici, come ad esempio l’autocura, la copertura di un compagno che subisce un attacco critico o ancora l’esecuzione di nuovi tipi di combo fra attacchi fisici. Il sistema di gestione e sviluppo delle abilità detto Orbment può ricordare a tratti le mai dimenticate Materia di Final Fantasy VII, questo permette una personalizzazione tanto semplice quanto profonda dei singoli cadetti in virtù dell’enorme varietà di Quartz presenti nel gioco, catalogabili in Qaurtz di supporto attivo (le arti, appunto, a loro volta divise per elementi) e passivo (aumento di parametri, guadagno, radar per i tesori nascosti ecc.).
 

Graficamente Trails of Cold Steel già non brillava nel 2013 e di certo non brilla al suo approdo su PS4, dove si porta dietro il suo bel carico di animazioni, texture ed effetti di illuminazione da anteguerra, ma questo è un aspetto ben noto e su cui Nihon Falcom vuole migliorare in futuro. Il remaster si basa sostanzialmente sulla versione PC pubblicata un paio di anni fa da XSEED, che rispetto all’originale PS3 giova di dovute migliorie tecniche, un doppiaggio inglese ampliato (in particolare sul protagonista Rean, che spesso era l’unico a non parlare) e dell’implementazione del Turbo Mode, un’utile strumento, già visto ad esempio nelle recenti riedizioni di Final Fantasy VII e IX, che permette alla semplice pressione di un tasto di velocizzare l’azione di gioco, una manna per liquidare più rapidamente le numerose battaglie semplici. Il remaster PS4 di suo sfoggia un’edizione fisica esclusiva e soprattutto l’aggiunta tra le opzioni, finalmente, del doppiaggio giapponese, in cui spiccano nomi del calibro di Yui Horie (Alisa), Kōki Uchiyama (Rean), Megumi Toyoguchi (Sara) e diversi altri. Presente all’appello la funzione di cross-save con le versioni precedenti, il limite dei Bound Point rende impossibile assistere a tutti gli eventi personaggio in un un’unica partita, quindi potrebbe essere uno stimolo, anche per coloro che hanno a suo tempo concluso l’avventura, importare il proprio salvataggio e ricominciare il gioco nel New Game+ con i punti extra guadagnati. La colonna sonora, pur non raggiungendo a mio avviso gli apici del fratellone Ys, mantiene ben alto il livello qualitativo del Falcom Sound Team JDK, in particolare nei temi da battaglia.
 
 
Sen no Kiseki si manifesta anche sul biscottone nero di Sony, che sia come ideale punto di partenza per il neofita, o in alternativa occasione di riscoperta che fa in pagella mensile. Il team di Toshihiro Kondo rimembra il grado di assioma secondo cui solo il processo di tradizione può rendere tributo ad una saga storica, adattandosi senza stravolgersi ai giorni nostri con proclami di novità e affinità scolastica che guarda ad Atlus e derivate tendenze. Ma di una tale cura descrittiva su ogni cosa a schermo, di un sistema di gioco privo di qualsivoglia incrinatura e di personaggi così caratterizzati, al di fuori di Falcom, possono vantarsene davvero in pochi.