Raymond Lawrence, capitano della nave mercantile Ydas, lascia il pianeta non federato di Verguld per svolgere una missione di trasporto standard per l'azienda della sua famiglia. Tuttavia la Ydas viene improvvisamente attaccata dall'Astoria, una nave da guerra requisita da Bennett Maudsley e che trasporta un membro dell’influente famiglia Kenny della Federazione, Marielle L. Kenny. Raymond e la sua compagna di equipaggio Chloe Kanaris sono costretti ad abbandonare la nave in e dirigersi verso il quarto pianeta del remoto e sottosviluppato Sistema Aster.
All'atterraggio, Raymond si separa da Chloe e viene attaccato da alcuni degli animali selvatici locali, ma viene trovato e tratto in salvo da Laeticia Aucerius, principessa ereditaria del Regno di Aucerius, e dal suo cavaliere Albaird Bergholm. Incuriosita dalle sue misteriose origini, Laeticia offre il suo supporto per la ricerca di Chloe, chiedendo a Ray in cambio di accompagnarla per trovare una persona di nome Midas Felgreed e di aiutarla a salvare il suo regno dalla minaccia del vicino Impero Vey'l.
 

Dopo tre giochi di successo pubblicati tra lo SNES e la PS2, che resero Star Ocean una delle serie di punta di Enix guadagnandosi quel prestigioso posto di serie jrpg sci-fi precedentemente occupato dal Phantasy Star di Sega (divenuto nel frattempo MMO), la saga ideata da tri-Ace ha iniziato a soffrire di una certa crisi di identità a partire dal quarto capitolo, The Last Hope. Il più ambizioso (ben cinque anni di sviluppo), ma anche il più controverso degli Star Ocean incarna perfettamente quel clima di confusione che aleggiava su molti dei developer giapponesi, nel corso della prima metà della generazione Xbox 360/PS3, i quali, forse intuendo la crisi che di lì a poco avrebbe colpito le vendite delle home console tradizionali in terra natìa, iniziarono nel loro processo creativo a guardare sempre più al più vasto e ricco occidente, con risultati spesso artisticamente stridenti o disallineati con quelle che erano le loro tradizioni. Il primo trailer del 2008 così pomposo e cinematografico, la boxart dell’edizione Xbox 360 che oscura le sagome dei due protagonisti quasi come a voler nascondere il character design in stile manga di Katsumi Enami (oggi attivo in Falcom), così come nei ritratti del menu (ripristinati solo nell’edizione PS3), in ossequio ad un processo di occidentalizzazione che faceva però a pugni con la presenza di personaggi come Lymle, divenuta negli anni successivi un meme, una sorta di Jar Jar Binks dei jrpg complice anche il solito, modesto doppiaggio inglese, furono tutti segnali e conseguenze di una visione creativa non ben definita da parte di tri-Ace e Square Enix.
Lo studio prova quindi con una nuova ip, l’interessante ma anche ostico Resonance of Fate (SEGA, 2010), prima di tornare sulla sua serie di punta nel 2016 con Star Ocean: Integrity and Faithlessness, un capitolo che, purtroppo, presenta problemi anche maggiori di The Last Hope, questa volta strutturali più che artistici, che rimarcano un evidente calo dell’investimento da parte di Square Enix su questa serie, rispetto al gioco che lo ha preceduto. Il problema di tri-Ace, motivo per cui ad oggi non naviga proprio in buone acque, è la dilatata prolificità delle sue uscite, contraddistinta da un solo Star Ocean a generazione intervallati da progetti minori, un ritmo parimenti tipico di alcuni studi interni a Square Enix, come quello di Dragon Quest, non fosse però che quella fondata dagli ex Telenet Japan nel 1995 rimane comunque una realtà indipendente e dunque soggetta a notevoli rischi finanziari, qualora qualcosa dovesse andare storto.
 

Tutto ciò per dire che alla prova dei fatti risulta francamente arduo pensare che questo sesto Star Ocean, dal titolo The Divine Force, possa in qualche modo determinare una effettiva rinascita della serie e dello studio artefice dei due bellissimi Valkyrie Profile, l’altro franchise della casa tornato quest’anno con un nuovo gioco realizzato però da Soleil, noti per il brawler online Naruto to Boruto: Shinobi Striker, non proprio la crème de la crème a cui Square Enix poteva affidare la riesumazione di una serie dall’ambientazione nordica tanto breve quanto apprezzata dagli estimatori del genere. Dopo qualche anno dedicato al mobile game Anamnesis, tri-Ace ritorna su console e dimostra invece di non aver perso la mano nel realizzare RPG di spessore, andando a migliorare i problemi registici e strutturali di Integrity and Faithlessness rinnovando totalmente il sistema di combattimento e imbastendo cut-scene decisamente più curate; una delle maggiori critiche rivolte al quinto Star Ocean fu infatti indirizzata alla telecamera libera durante i dialoghi, che trasmetteva una sensazione di sciatteria al tutto, difetto saggiamente risolto per questo nuovo episodio che dimostra quantomeno di voler tornare a dare la giusta enfasi alla narrazione.
 

La scelta iniziale di poter vivere la storia dal punto di vista di due protagonisti, usanza un tempo abbastanza comune nei giochi di ruolo giapponesi ma oggi in disuso (l’ultimo di una certa rilevanza è stato probabilmente Tales of Xillia), ci riporta alla memoria The Second Story, il più apprezzato degli Star Ocean, ed è sicuramente una reminiscenza voluta da parte del team di sviluppo, desideroso di voler riportare la serie alle atmosfere che furono servendosi di quel mix di sci-fi e fantasy che l’ha sempre contraddistinta, qui avvalorato ulteriormente dal fatto che il gruppo si divide in più di un’occasione, avendo di contro l'effetto collaterale di creare deliberatamente dei punti oscuri della trama alla prima run. La coppia di protagonisti del secondo Star Ocean composta da viaggiatore spaziale e indigena viene riproposta in questo capitolo, anche se, rispetto a Rena e Claude C. Kenny, l’incontro-confronto di culture e mondi tra Laeticia e Raymond viene trattato in modo più raffazzonato, quasi distaccato, fossilizzando quello che dovrebbe essere l’evolversi del loro rapporto, relegato a rari tratti dell’avventura, per lo più durante le tradizionali Private Action. La storia infatti nella prima metà alterna saltuari momenti distensivi, con una certa importanza su questioni politiche, ad improvvise accelerate, scaturendo in una “guerra” tra il regno e l’impero che si conclude con una scaramuccia, di conseguenza i personaggi secondari, alcuni dei quali introdotti al gruppo dopo una manciata di scene (Malkya, Marielle), faticano ad emergere, in contrapposizione ad altri non manovrabili, su tutti Lola, che invece si sono dimostrati più interessanti. The Divine Force procede dunque in maniera lineare, tutelando la funzione centrale dei suoi interpreti, a partire da una Laeticia intraprendente e mai doma, personaggi le cui sfumature raramente pendono verso sentieri inaspettati (nonché scevri degli imbarazzanti intermezzi di The Last Hope, pur non mancando di certe assurdità tipicamente nipponiche), restituiscono una sceneggiatura di cui si apprezza l’intrattenimento e il saper mantenere alto l’interesse nell'incedere della vicenda, ma priva, forse, di quel brio tipico della miglior tri-Ace del decennio '96-2006.
 


Star Ocean: The Divine Force come detto rinnova il suo sistema di combattimento riuscendo a perfezionarlo grazie ad una notevole libertà concessa al giocatore sia sui movimenti che sul settaggio delle combo. Al contrario di quanto avviene nei Tales, in cui ad ogni tasto corrisponde una skill, Star Ocean permette la personalizzazione delle combo da tre colpi, ad ognuno di essi è applicabile un’abilità arrivando così ad averne a disposizione in battaglia ben nove, più tre ulteriori con i tasti a lunga pressione. Ma non solo, ai tasti è possibile abbinare anche l’uso degli oggetti, come quelli di supporto, di buff e debuff, per crearci di fatto una shortcut evitando così di fermare l’azione per aprire l’inventario. Questa personalizzazione pressoché totale, applicabile ovviamente all’intero party (con menzione speciale su Nina, curioso esempio di personaggio di solo supporto), verso cui va tenuto d’occhio il consumo di AP unitamente alla nuovissima meccanica del D.U.M.A., il robottino che ci segue ovunque e ci permette di svolazzare in giro (città incluse), di cogliere di sorpresa l’avversario e di effettuare colpi critici, ovviamente anch’esso potenziabile, rendono Star Ocean: The Divine Force un action rpg sorprendentemente profondo e appagante da giocare.



Il nuovo Star Ocean brilla inoltre anche dal punto di vista estetico, nonostante permanga un certo “effetto doll” sui personaggi, complice anche un campionario di animazioni non proprio da top gamma dei jrpg, i miglioramenti rispetto ad Integrity and Faithlessness sono evidenti e tutto sommato la scelta di riconfermare Akira Yasuda al character design si è rivelata vincente (anche se Malkya sembra un po’ fuori posto rispetto al resto). Alter IV offre panorami evocativi e piacevoli da esplorare con il D.U.M.A., le città e le regioni intorno sono grandi il giusto, il gioco permette di scegliere tra le opzioni “performance”, che al prezzo di qualche rinuncia su schermo (per lo più erba e dintorni) garantisce la fluidità dell’azione, o “grafica”, che invece pompa tutto sull’aspetto estetico. Cionondimeno disquisire sull’analisi tecnica mentre milioni di persone giocano all’ultimo abominio tecnologico di Game Freak fa un po’ riflettere sulla sua utilità, in confronto Star Ocean è un juggernaut tecnico, e tanto basterebbe, ma le orecchie da mercante dominano l’industria almeno fino a quando non verseranno lacrime di coccodrillo sulla neanche troppo improbabile dipartita di tri-Ace. Certo Square Enix ha le sue colpe di un’annata tanto ricca di uscite quanto gestita male, al di fuori dei remaster, la speranza è che The Divine Force, che ha avuto il merito di riportare la serie sui livelli che merita, ne sia solo un significativo tassello, e non il suo epitaffio.
 
 
Con Ray si avrà una maggiore impronta sci-fi, con la principessa l’attenzione si focalizza sugli aspetti fantasy e politici; Star Ocean con questo sesto capitolo omaggia le sue due anime, i punti di convergenza sono un appagante sistema di combattimento e un’esplorazione in scenari suggestivi che si fa verticale, riproponendo d’altro canto limiti e pregi di un certo tipo di costruzione del jrpg che a seconda del fruitore possono apparire nostalgici o stantii. All’ultima fatica di tri-Ace si rimprovera giusto la mancanza di organicità tra una prima parte dialogica e avventurosa e una seconda in cui alcuni cliché di genere diventano flussi incontrollati, anziché dare una maggiore caratterizzazione dei comprimari, del villain o una disamina più angolare sullo scontro tra mondi e ideologie.