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Spesso mi chiedo quale sia la ragione per cui ad una persona possa piacere una serie animata. La trama, i personaggi, i disegni, le animazioni, oppure altro?
Davanti ad una serie come Samurai Champloo le domande sorgono spontanee in quanto la serie non presenta una trama collegata di episodio in episodio, se non per quanto riguarda il fattore che fa scatenare tutto. Cioè, la ricerca di un samurai che profuma di girasole.
Fuu, cameriera in un piccolo ristorante “ingaggia” un vagabondo, Mugen, molto abile con la spada e un ronin, Jin, altrettanto abile con la spada, per intraprendere il viaggio che da anni desidera fare. Già dal primo episodio abbiamo a che fare con alcune caratteristiche insolite della serie, soprattutto osservando i due spadaccini: Mugen combatte con uno stile che mescola la capoeira brasiliana e la breakdance, mentre Jin indossa un paio di occhiali che poco hanno a che fare con il periodo storico Edo - chiaramente influenzato dalla fantasia – in cui è ambientata la serie.

Sono ventisei gli episodi (18 + 8 per la precisione) in cui si svolge questo assurdo viaggio. Quindi c’è da chiedersi: cosa rende così bella questa serie? Prima di tutto io parlerei dei personaggi. Questi sono in realtà già molto definiti fin dal primo episodio, ma il lavoro che svolge la serie è quello di sviluppare le relazioni tra i protagonisti, fino a renderli quasi una famiglia. E l’avvicinamento avviene anche in modo fisico, nel senso che ogni episodio è una marchingegno drammaturgico quasi perfetto che in poco più di venti minuti allontana e riavvicina Fuu, Mugen e Jin e permette loro di continuare il viaggio. Meraviglioso! Le cause dell’allontanamento sono sempre la svogliatezza di stare insieme, soprattutto da parte dei due uomini che hanno giurato di ammazzarsi solo dopo la fine del viaggio, mentre le cause dei riavvicinamenti sono un susseguirsi di fatti e coincidenze che rasentano l’impossibile, ma che provocano un certo divertimento nello spettatore.
Inoltre, il fascino della serie sta anche nel riuscire a costruire molteplici situazioni rispettando uno stesso schema, ma senza che ce ne rendiamo conto. Penso a due episodi: “La via delle lettere e delle arti marziali” (18), improntata sul tipico schema shonen, però con al centro non le arti marziali, ma l’arte di scrivere sui muri. Oppure “In quella palla metterci l'anima” (23), improntata sul baseball (una delle più divertenti). Altri episodi sono molto drammatici, altri più seri, altri più assurdi e con un finale senza senso. Con uno “schema” così, è inevitabile ricordare la serie precedente di Shinichiro Watanabe: Cowboy Bebop. Come questa, in Samurai Champloo esiste una trama principale, ma viene seguita in cinque o sei episodi, con un finale degno di questo nome.

Per quanto riguarda i disegni, sicuramente siamo davanti ad un ottimo lavoro, anche se è evidente l’approccio di troupe diverse per alcuni episodi. Ma siamo comunque a livelli molto alti. Stessa cosa per le animazioni: sempre di alto livello, anche perché a Watanabe piacciono molto le scene di azione e gli presta sempre una cura maniacale, che non può che fare tutti contenti. Infine, le musiche. Ancora una volta il regista sceglie una vastissima lista di musiche e canzoni (sono quattro i cd della colonna sonora più varie canzoni, per un totale di più di ottanta brani) che, a differenza del blues della serie Cowboy Bebop, sceglie una variante hip-hop/lounge.
Insomma, al di là della trama non logicissima e il problema che molti personaggi secondari (praticamente tutti) vengano trattati solo per due o tre episodi, la serie merita molto.