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Eccolo infine giungere nuovamente, Kunihiko Ikuhara ha fatto ritorno al mondo dell'animazione. Dopo aver donato al mondo "Shōjo Kakumei Utena" con le relative trasposizioni, scomparve dalle scene, salvo riapparire sporadicamente per svolgere incarichi minori. Tale dipartita non poteva che rammaricare profondamente coloro che avevano intuito e apprezzato il grande valore del suo genio artistico, di colui che per primo aveva creato una serie estesa totalmente simbolista nella storia dell'animazione.
Il suo ritorno su di un progetto proprio e alla guida della regia generale non poteva che apparire come un fulmine a ciel sereno dopo la sua più che decennale assenza. Fin dalla prima visione del nuovo progetto si comprende appieno che valse la pena di aspettare tanto lungamente.
Una doverosa premessa è necessaria, ed è che non sarà mia intenzione porre a confronto la qualità concettuale dell'opera in esame con "Utena", per differenti motivi e soprattutto in virtù del valore affettivo insostituibile che quest'ultima ha per me e ne impedisce un corretto confronto con altri lavori.

"Mawaru Penguin Drum" è un'opera le cui mura concettuali non si lasciano facilmente penetrare, nei quali meandri conducono vie di nobile sperimentalismo ed ermetica semiotica; una vestigia dell'amore avanguardista che ha tanto brillantemente caratterizzato i massimi componimenti degli anni '90 torna a rifulgere in questo esperimento che è "Mawaru Penguindrum", perché di ciò si tratta.
Riconoscendo all'arte il compito che le spetta, l'ultima fatica di Ikuhara si presenta come una serie aperta, giustamente rivolta allo studio che ognuno ne farà, un lavoro che vada a sublimarsi nella soggettività di ognuno.
Ma non s'avrà così a dire che si tratti di mera ermeneutica, un esercizio per l'acume estetico quello che ci viene servito. Con "Mawaru Penguindrum" ci troviamo innanzi a un'opera dalla dosata e coinvolgente pateticità, che ben si giustappone al dinamismo e al criptico andante che cavalca la serie.

Come già detto, nell'opera si osserva bene l'inafferrabile spirito danzante del regista, che sempre s'allieta in un gioco ossimorico: se "Utena" fu la più cinicamente crudele delle favole romantiche, "Mawaru Penguindrum" è la tragicommedia più compiutamente sublime mai inscenata dall'animazione orientale.
Beckett contra Shakespeare, potremmo dire, e d'altronde l'intera rappresentazione altro non è che un perenne gioire e soffrire, ove le lacrime della risata più fragorosa s'infrangono nei singhiozzi della disperazione, in un fuggevole mutamento che solo una volta realizzato viene colto, tanta la sua delicatezza.
Gli stessi personaggi, nella loro estrema inumanità e al contempo nel loro costitutivo realismo, come le migliori maschere teatrali, si muovono tra una perniciosa tragicità, rappresentata dall'onnipresente vocabolo "fato", secondo i più classici canoni della tradizione greca e la spensieratezza del divertissment quotidiano, costituito dalle nevrosi e fissazioni di ognuno, con le sue ambizioni e i suoi dispregi, generando un'eccellente dialettica fra mimesi e catarsi.

Per il recensore si presentano ora i medesimi impedimenti che si avevano nel trattare "Utena", ossia l'impossibilità di fornire non un'esaustiva, ben meno, una qualsivoglia esposizione della trama dell'opera. Ma la questione è presto risolta, dacché, come tutte le grandi opere che s'incastonano nel firmamento dell'animazione, il lavoro in questione s'eleva alla sublime arte dell'ermetismo e della narrazione concettuale, sicché di un intreccio non vi è bisogno alcuno.
Tuttavia, se questo già accadeva in "Neon Genesis Evangelion", dove la trama apparente dei primi ventiquattro episodi serviva solo a imbastire un preludio aleatorio per la magnificente introspezione conclusiva sull'essere umano, ora Ikuhara si spinge ben oltre, annullando agli effetti una possibile concatenazione logica tra gli eventi, senza cionondimeno far venir mai meno - semmai il contrario - le speranze che lo spettatore cova di giungere a trovare il tassello portante di questo impenetrabile mosaico.
Il poco che posso fare per giustificare quest'euforica esaltazione del titolo in esame risiede nella natura dell'opera, una meta-narrazione simbolica, come già avveniva in "Utena", dove, però, anziché rendere immanente il mondo ideale (ossia l'accademia Ohtori), si eleva il reale alla condizione di un flusso di coscienza, rompendo l'unità narrativa del realismo in una difficile poesia che in essa altro non raccoglie se non la veracità più intrinseca. Insomma, giungere al reale tramite l'irreale, trattare l'uomo attraverso le maschere, in definitiva è una grande rappresentazione teatrale.

Sull'estetica dell'opera non vi è nulla da eccepire, il gusto "ikuhariano" per il simbolismo visuale non ha remore a esplicitarsi sin dai primi fotogrammi, accompagnando il pubblico in questo trascendimento del comune scenario urbano, forse per addentrarsi ancor più nell'intimo significato del medesimo.
Si badi bene, non è mia intenzione in questo modo celebrare la qualità tecnica dell'opera, che ad oggi è banalmente elevata come quella di buona parte dell'animazione professionale, quanto esaltarne l'elevatezza concettuale, l'acume dimostrato nell'utilizzo di una rappresentazione scenica squisitamente inattuale, traballante fra l'assurdo e il metafisico nella sua perenne ineffabilità.
Infine, per chi s'avvicinerà a quest'opera spinto dal (ahimè, non abbastanza) buon nome di Ikuhara, un ammonimento: non cercate in "Mawaru Penguindrum" l'avvento di una nuova "Utena".
Per quanto le reminiscenze grafiche siano soventi e spesse volte palesi nel loro citazionismo, le due serie hanno ben poco, contenutisticamente, da spartire, per quanto siano entrambe gioielli dell'animazione sperimentale d'ispirazione teatrale.

Per citare Nietzsche, questa è un'opera "per tutti e per nessuno", che prende le mosse dall'esiguo ma eccellentissimo filone dell'animazione psicologico-paradossale, quella branca dello sperimentalismo che ha in "Gosenzosama Banbanzai!" prima e in "FLCL" poi i suoi più degni antesignani.
Certo in tutto questo non manca, senza troppo puntiglio, di osservare anche le pecche di cui si macchia la serie, quali talune scelte infelici nella scenografia e una certa incapacità nel chiudere degnamente gli episodi, volendo renderli troppo completi, alle quali seguono tal altre motivazioni di carattere unicamente soggettivo, le quali non han grande utilità a essere citate in questa sede. Tuttavia l'elevata qualità di ciò che rimane, che, a onor del vero, è la massima parte, permette largamente di soprassedere a tutto ciò.
Tale critica non sarà esente da accuse, quali quelle all'infondatezza delle presenti riflessioni, si voglia per una pretesa apologetica in virtù del vivo interesse che nutro in cuor mio per la genialità artistica di Ikuhara, tuttavia, come tutta la vera arte, che si volge prettamente a finalità estetiche e non meramente remunerative, il valore definitivo di un'opera è quello che il soggetto giudicante le attribuisce. Farsi in ciò sconfessare dalle intenzionalità, maggiormente o meno occulte, degli sviluppatori del progetto originale ha una valenza in sé nulla, e l'unica utilità di prestare orecchio alle tanto osannate interpretazioni, che hanno la tracotanza di definirsi "ufficiali", risiede nella possibilità di un confronto edificante che permetta di acuire ancor più l'approccio speculativo già prima utilizzato.

In conclusione, l'importanza di quest'opera, che a ben pochi s'aprirà nella sua fine complessità, ma che potrà essere fruita comunque anche da visioni più ingenue, risiede in ciò che rappresenterà per voi e non nelle critiche o negli elogi che di qui innanzi invaderanno l'ermeneutica "ikuhariana".
E ora, si dia inizio alla strategia di sopravvivenza!