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Giappone, ultimi mesi del 1944.
Benché l'apparato bellico sia prossimo al collasso, e l'Esercito Imperiale collezioni sconfitte su tutti i fronti, per il Ministero della Guerra la resa è un'ipotesi da non prendere nemmeno in considerazione: vuoi per un atavico senso dell'onore, esasperato da forti - e folli - correnti nazionaliste, vuoi per l'ottusità tipica di certi ambienti militari, ma il solo parlare di capitolazione è sufficiente per essere etichettato come disfattista.
L'Impero va difeso ad ogni costo, fino all'ultimo uomo.
E non importa che la realtà sui campi di battaglia strida con i proclami dei vertici militari: nel teatro del Pacifico, di fronte alla superiorità americana in termini di mezzi, risorse e tecnologie, i soldati nipponici, a dispetto della propaganda, sono costretti a difendere con le unghie e con i denti le conquiste del primo anno di guerra, inesorabilmente erose dall'efficiente macchina bellica statunitense.

La storia raccontata in "Letters from Iwo Jima" si colloca in questo scenario, nei fatidici mesi in cui l'isolotto dell'Oceano Pacifico, un arido scoglio di roccia vulcanica, diventa improvvisamente per l'America un obiettivo cruciale: una minuscola maglia dell'ultimo anello difensivo giapponese, che ha il pregio di essere una base ideale per accorciare le rotte dei bombardieri diretti sui centri urbani dell'arcipelago, e uno scalo sicuro in caso di emergenza.
Le difese dell'isola vengono affidate al generale Kuribayashi, militare sui generis, di rango aristocratico ma dal carattere schietto ed esuberante - per questo, inviso ai piani alti delle gerarchie di Tokyo: conscio sin dalle prime ispezioni dell'impossibilità di successo dell'operazione affidatagli, lo vedremo dedicarsi anima e corpo all'allestimento della resistenza armata, sfruttando, con l'acume di chi conosce bene l'arte della guerra, le scarse risorse a disposizione.
Nella sua opera di revisione tattica, arriverà perfino a sovvertire, nei mesi precedenti l'attacco, lo stile tradizionale di combattimento dei soldati giapponesi - cosa inconcepibile per gli alti papaveri e per molti dei suoi ufficiali -, ossessionati da sempre dal dover affrontare la morte con 'onore'.
Non più la fine eroica del samurai, la carica suicida sulla battigia sfidando a viso aperto i nemici appena sbarcati, non più urla di guerra o spade sguainate: acquattati nelle trincee, nascosti nei cunicoli sotterranei, i soldati di Kuribayashi dovranno ingaggiare battaglia solo quando i rapporti di forza saranno favorevoli, risparmiando le loro vite per agguati o imboscate.
Vite da non sprecare, da sacrificare a ideali discutibili, con lealtà incondizionata, che faranno emergere con forza la drammaticità del dissidio interiore del generale, tanto premuroso verso le sue truppe al punto da condividerne i disagi, quanto ligio e cinico nell'obbedire agli ordini, benché consapevole dell'ineluttabilità del fato che attende lui e i suoi uomini. Lo stesso fato che incombe minaccioso sul suolo patrio, e che Kuribayashi, con l'olocausto dei suoi soldati, non può far altro che rimandare.

Filtrata attraverso gli occhi sia degli ufficiali di stanza sull'isola, sia, soprattutto, del soldato semplice Saigo, prima impegnato insieme ai suoi commilitoni in estenuanti corvée, poi catapultato nell'inferno di una lotta senza quartiere, Eastwood consegna al suo pubblico una storia dal sapore ecumenico, dipingendo gli orrori della guerra dal punto di vista del 'nemico': calato nell'oscurità dei bunker giapponesi, restituendo dignità all'odiato avversario, il regista americano ci mostra come, in questa tragica epopea, la diversità culturale negli opposti schieramenti sia solo un velo che nasconde sentimenti universali - le lettere inviate dal fronte ai propri cari ne sono la più fulgida testimonianza.
Eroismo e meschinità, codardia e senso dell'onore, crudeltà e magnanimità appartengono a tutti e nessuno: sul palcoscenico della battaglia vengono a galla i chiaroscuri di ogni essere umano, indipendentemente dalla bandiera sotto la quale combatte. Mentre la guerra, proprio per questo, si palesa nella sua grandiosa, spettacolare insensatezza.

Immortalata nella celebre fotografia di Joe Rosenthal - che ritrae i Marines mentre issano la bandiera americana sul monte Suribachi -, la battaglia di Iwo Jima non poteva sperare in un adattamento cinematografico migliore, che rendesse giustizia alle migliaia di caduti tra vincitori e vinti: tanti, troppi, tanto che l'opinione pubblica dell'epoca ne fu scossa profondamente, e la strategia americana ne venne probabilmente influenzata - abbandonati i propositi di invasione del Giappone, essa ripiegò, per risolvere il conflitto, sull'utilizzo degli ordigni atomici.

"Letters from Iwo Jima" è un film d'autore, tecnicamente ineccepibile, con effetti speciali di prim'ordine ma non invasivi, da vedere assolutamente in versione originale con sottotitoli (per chi è abituato ai fansub non è certo un ostacolo!), crudo in certe scene - seppur la regia non si compiaccia nell'ostentarle - e tendente al patetico (forse troppo) in alcune altre, ma che resta un autentico must per gli amanti del cinema di guerra.
Scevra da quella retorica militarista che, sfacciatamente, fa mostra di sé in tanti film bellici, "Letters from Iwo Jima" è una pellicola anomala, focalizzata sugli uomini più che sugli eventi, la cui poetica è da ricercare nel cablogramma d'addio inviato da Kuribayashi al quartier generale, in particolare nelle audaci e commoventi parole della poesia funebre da lui composta in chiusa, mentre a pochi passi infuriano gli ultimi feroci combattimenti:

Impossibilitato ad adempiere a questo duro compito per il nostro Paese,
frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.