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"Formula della mia felicità: un sì, un no, una linea diritta, uno scopo…"
(Friedrich Wilhelm Nietzsche, Crepuscolo degli Idoli)

Di notte, il fiume che attraversa Tokyo è livido e oscuro, melmoso a causa dei rifiuti e dei detriti che vi si accumulano, trasportati lontano dalla corrente che impietosa li sospinge sulle sue sporche anse, luoghi malsani abitati da chi non ha di meglio. Di notte, le luci che sul fiume si affacciano punteggiandolo svelano spietate l'essenza antitetica delle realtà che accanto a lui si creano: da un lato, la città bene brulicante di attività e lucidità prodotta dai suoi accecanti lampioni; dall'altro, il quartiere dormitorio, a stento rischiarato da economiche e lacere lanterne di carta, zona frequentata dai reietti, coloro che sono troppo deboli per inserirsi a pieno titolo nella società e ne sono da questa respinti, come l'acqua fa con l'immondizia. Di notte, i miasmi del fiume alimentano, come un gorgo, la vita alla deriva di questi individui, che a fine giornata rientrano schiacciati dalla fame, mesti per il gramo pasto e le misere prospettive che possono permettersi per sé e le loro famiglie, oppure vinti dall'alcol, fedele amico a cui si affidano alla ricerca dell'oblio ristoratore. Di notte, lo scorrere incessante del fiume ingrossa, come il suo letto, la disperazione e la rabbia di quegli outcasts, che si esprimono in un'antica legge di natura: il più forte divora il più debole, il gruppo sopraffa il singolo.

Ma ciò non sempre è inevitabile: ricambiando a testa alta lo sguardo impassibile del destino, quest'ultimo si può sottomettere e addomesticare, persino quando pare di aver toccato il fondo; può bastare un atto di ribellione, uno dei tanti e apparentemente inutile, per cambiare la propria vita, un semplice gesto, un pugno ben assestato ad esempio. Ed è proprio questo l'incipit della storia di Joe Yabuki: arrivato nel sobborgo unicamente con i suoi abiti, nel cercare un riparo in cui passare la notte Joe si imbatte in un gruppetto di balordi che, per salvaguardare il loro territorio, lo attacca sicuro di intimidirlo, ma Joe Yabuki non è una persona comune: fortificato dalla sua tempra irascibile, testarda e rissaiola, nonché dall'esperienza e da una spiccata inclinazione personale, Joe si sbarazza in un batter di ciglia dei barboni che lo avevano accerchiato. Come accennato, quest'episodio, quotidiano nella sua crudezza per molta gente come Yabuki, può essere sufficiente a innescare una svolta: durante la lotta, infatti, a sua insaputa Joe è stato osservato da Danpei Tange, un vecchio alcolista ex presidente di una palestra di boxe, sport per il quale prova un'immarcescibile passione; non a caso è soprannominato il Pugilomane. Pronto a riscattare se stesso e il giovane sconosciuto, Tange gli propone di diventare un pugile professionista sotto la sua guida, ma non c'è verso: per Joe, la boxe non esiste, esistono esclusivamente i mille disperati espedienti volti a procurarsi la mera sussistenza e a rimuovere gli intralci. E, implacabilmente, in un momento iniziale la permanenza di Joe nello slum segue esattamente questa desolata filosofia: trascinando con sé un gruppetto eterogeneo di bambini, Joe si dà al furto, alla truffa e al gioco d'azzardo, ma non per molto: arrestato dalla polizia, Joe non si redime e anzi esaspera le forze dell'ordine con il suo atteggiamento recidivo e violento, finché non è portato in un riformatorio speciale.
Suo malgrado, all'interno di questa struttura Joe deve misurarsi con una realtà sconosciuta: non più circondato da individui accecati dalle loro brame smodate, ora per Joe è indispensabile scendere a compromessi con esseri che, effettivamente spogliati di qualsivoglia speranza, possiedono una spietatezza interiore indomabile da parte di Joe il quale non ha mai provato un'esperienza così vuota ed emarginata. Qui, Joe Yabuki è spalle al muro ed è costretto a ricorrere agli insegnamenti di Tange, che, nonostante tutto, ha perseverato nel cercare di trarre il ragazzo fuori dai guai, tramite istruzioni inviategli per lettera con la dicitura "per domani", per affinare le sue tecniche e apprendere a sopravvivere.
Nel frattempo, nella prigione Joe stringe una conoscenza fondamentale per la sua crescita successiva: tra i reclusi vi è un ex boxeur di nome Tooru Rikishi, il quale, una volta riscattato il suo debito con la giustizia, programma di risalire sul ring del pugilato professionistico. Egli non è solo in questo progetto: infatti, è aiutato dalla nipote di un ricco mecenate, Yoko Shiraki: della stessa età di Joe ed ereditiera di una grande azienda zaibatsu, Yoko è sensibile alle sorti dei detenuti dell'istituzione, e, tra numerosi atti di beneficenza, organizza un torneo amatoriale per far riprovare a Rikishi il brivido della lotta e per fornire agli altri uno sfogo fisiologico.
Dopo innumerevoli diverbi con Rikishi, l'incorreggibile Joe prende assai a cuore gli incontri e si allena assiduamente, grazie anche all'aiuto di Tange a cui in via eccezionale è permesso l'accesso nella costruzione. L'importanza di questa competizione e di Rikishi è centrale: esortato ad abbracciare la boxe per un'effimera sfida, pian piano Joe coglie il significato profondo e recondito di questo sport, quello dello scontro leale e virile tra due uomini che tende a essere una professione e un'espressione dell'anima.
Carpito ciò, Joe rinasce a nuova vita: uscito dal carcere, accetta di divenire con ogni crisma allievo di Tange nel suo redivivo club, una baracca costruita con mezzi di fortuna sulla riva del fiume del rione dormitorio, a ridosso del ponteggio dal significativo nome di Ponte delle Lacrime, odioso ostacolo concreto, mentale e simbolico che Yabuki si ripropone di attraversare al contrario.

Molteplici sono state le interpretazioni al prodotto: i critici lo hanno paragonato alla condizione di depressione economica ed esistenziale del Giappone post-bellico, alla tensione derivata dalla sua ignominiosa sconfitta verso una ripresa e un avvenire degno; non casualmente, il titolo originale di questo capolavoro è Ashita no Joe (あしたのジョー), il Joe del Domani, con cui si richiamano anche le missive con le spiegazioni degli esercizi spedite da Danpei Tange a Joe.
Che queste visioni siano veritiere o meno, una cosa è certa: realizzato dall'illustratore Tetsuya Chiba e sceneggiato da Asao Takamori per Kodansha dal 1968 al 1973, Ashita no Joe ha goduto di un seguito di lettori senza precedenti nella storia del fumetto di matrice nipponica; leggendario è, ad esempio, il vero funerale organizzato spontaneamente dai fans per commemorare la tragica scomparsa di un suo personaggio.
Ad ogni modo, che il manga si riferisca a circostanze storico-geografiche determinate è indifferente, essendo Rocky Joe una sublime metafora dell'esistenza umana tutta. In effetti, ugualmente al vivere medesimo, il pugilato si configura e nemico giurato, mettendo in pericolo Joe quando non è che uno scapestrato, forzandolo ad abbassare la testa e ad adattarsi, nolente, alla sua volontà, e stagliandogli dinnanzi avversari ancor più temibili e letali, e insostituibile alleato al contempo, poiché gli fornisce i mezzi con cui superare le difficoltà e gli consente di erigere una diga a frapporsi alle spire del fato che rischiano di avvolgerlo irresistibilmente in una stretta omicida: rimettendosi a lui, al pugilato, in occasione del torneo amatoriale, nell'animo allora svuotato e autodistruttivo di Yabuki si irradia una scintilla, quella della possibilità di riscatto da una sterile condotta da delinquente di periferia per mezzo dell'adesione a un ideale, a uno scopo; quello del costante miglioramento di sé, corporale quanto psicologico, fatto di sudore, di percosse devastanti, di innumerevoli traumi, e rinnovato tramite l'incontro/confronto con persone dai differenti stili di combattimenti, credi, estrazioni sociali: c'è Carlos Rivera, fantasista brasiliano che con la sua leggiadria simile a quella di un ballerino è chiamato con l'appellativo di "re senza corona"; c'è Harimao, indomabile belva selvaggia ingaggiata da Yoko Shiraki per scuotere dal torpore l'istinto formidabile di Yabuki; c'è Kin Ryūhi, collega coreano temprato da uno straziante background personale; e, infine, José Mendoza, detentore del titolo mondiale dei pesi gallo e infallibile macchina da guerra, in contrapposizione all'agire impetuoso e il sentire innato del protagonista. Per affrontare ad armi pari questi atleti, Joe dovrà saper far fronte ad altrettanti drammi e fardelli, quali, per citarne uno su tutti, assimilare la dipartita di colui che è stato l'artefice della sua positiva iniziazione alla boxe, a sopportare e interiorizzare gli infiniti patimenti che la sua responsabilità nell'episodio getta come un'ombra sul suo io.

La boxe è pertanto uno specchio dal doppio riflesso, la sua presenza ricopre una duplice funzione: oltre all'immediata componente visiva e spettacolare, è preponderante la possibilità di acquisizione dell'autoconsapevolezza, per sua natura intrinseca, delle doti e delle manchevolezze individuali, e sul profilo inerente al ludo e su quello spirituale. In tal maniera, Joe Yabuki è una perfetta icona attraverso cui rappresentare la redenzione dalla miseria e la sublimazione a un obiettivo.

Nella presente recensione si è ritenuto opportuno sottolineare l'universalità di una produzione grande come Rocky Joe, ma il lettore non si lasci ingannare, la scelta è dettata dal desiderio di far comprendere l'autorità che la suddetta pubblicazione detiene nella letteratura manga, a prescindere dall'aspetto sportivo che potrebbe erroneamente allontanare i non interessati; in effetti, non si sta parlando di una composizione moraleggiante e la boxe, lo si ripete, prima che un messaggio è l'ossatura di Rocky Joe: all'apice della sua carriera, Joe comprende ciò che essa rappresenta nel suo cammino nei termini summenzionati, tuttavia il pugilato qui è azione, è combattimento, è sofferenza, non è "solo" un escamotage narrativo, e nel mentre tutto il mondo del pugilato agonistico viene sviscerato all'attenzione del fruitore, con le sue pozzanghere di luce, le sue ombre, e i suoi intrighi. E le mille battaglie di Joe sono altresì reali: ambientazione principale, soprattutto nella seconda metà, è l'arena, dove Joe dà fondo senza risparmiarsi alla sua forza, alla sua volontà, al suo genio, in una miriade di colpi, movimenti di gambe, e straordinarie mosse speciali, in un insieme che, complice un esteso utilizzo delle linee cinetiche, si ha l'impressione di ricevere sulla propria pelle.

Il suo riscontro di pubblico è facile da spiegare: grazie all'eccezionale sceneggiatura di Asao Takamori, Rocky Joe è caratterizzato da un ritmo narrativo vertiginoso e travolgente, essenziale negli elementi laddove ciascuno è introdotto per una motivazione specifica a corroborazione della vicenda, in un mix che si lascia rallentare appena al, necessario, giro di boa rappresentato dagli eventi svoltisi nel carcere; ma una volta reintegrato Joe Yabuki non si concede né concede un attimo di tregua, in un susseguirsi incessante di match. Sul profilo grafico, il tratto del maestro Tetsuya Chiba si amalgama alla perfezione alla trama in una veste esteriore che, malgrado i suoi venerandi quarant'anni, per quanto più sobria e caricaturale rispetto alle produzioni moderne e assimilabile a quella di Osamu Tezuka, resta sempre incisiva e gradevole alla vista, un'incarnazione perfetta per le idee di Takamori-sensei; testimone ne è l'eccezionale fruibilità che mantiene anche approdando in suolo straniero soltanto alle soglie del nuovo millennio.

Ashita no Joe giunge in Italia per Star Comics, che inizia la stampa a partire dal 2002 in un'edizione aderente a quella originale, mantenendo cioè il numero di 20 tankōbon, e lievemente più curata del livello standard, con un'impaginazione maggiormente rigida e una carta dalla qualità superiore, la quale però tradisce una velata trasparenza; inoltre, il materiale originario è preceduto da un riassunto introduttivo e, in taluni numeri, seguito da brevi bibliografie essenziali sugli autori; al prezzo di copertina di € 4,20, la versione italiana garantisce un ottimo rapporto qualità/prezzo decretato dall'opportunità che offre di avvicinarsi a Rocky Joe.

E, alfine, la travagliata avventura di Joe termina, di notte, ma ora le luci che illuminano questo giovane eternamente irrequieto sono i fari di uno stadio gremito che lo indicano alla folla come un eroe, un modello da emulare, come colui che ha saputo, caparbiamente, risalire a ritroso l'inarrestabile flusso del torrente sopra cui passava il Ponte delle Lacrime, e l'ultima tavola non è che un simulacro attestante l'esortazione a unirci all'inguaribile attaccabrighe nel volgere gli occhi al domani, con nelle orecchie l'eco del suo memento definitivo, le parole: "Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi… quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo... solo cenere bianca".