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9.0/10
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Mushishi, serie animata del 2005 tratta dall'omonimo manga di Yuki Urushibara, può definirsi alla stregua dell'identità interiore di un Giappone ormai iper-modernizzato, ma che al contempo ha sempre gelosamente conservato quelle caratteristiche ancestrali che si concretizzano nel legame spirituale con la natura, nel rapporto con gli antenati e nella fedeltà alle proprie tradizioni. Anche nel vastissimo campo dell'animazione i modelli pratici di tutto ciò sono svariati - si pensi al capolavoro miyazakiano La città incantata, riconosciuto a livello internazionale con il premio Oscar - e spesso si ritrovano nascosti e integrati persino all'interno di opere di tutt'altro genere o contesto. È per questo che ritengo Mushishi - che si fonda esclusivamente sulla magnificenza del folklore nipponico - una serie profondamente giapponese, tanto nella forma quanto nei contenuti; nell'estrema rarefazione dei modelli visivi e narrativi incontra e riporta alla luce l'identità culturale del Sol Levante, sopita ma al contempo sempre viva e rimpianta.
In un vortice di emozioni, filosofia e padronanza del mezzo espressivo, Mushishi si impone così come una delle migliori serie animate degli anni Duemila.

I mushi. Piccole creature primordiali e avvolte nel mistero, esseri vicini alla sorgente di ogni forma di vita e di ogni umana sensazione, che nonostante la loro naturale propensione a vivere nascosti tra le braccia della natura possono entrare in contatto con gli umani, attaccandoli come parassiti: alcuni hanno effetti benefici, altri possono arrivare a provocare conseguenze persino letali.
Ginko. Un mushishi, ovvero un esperto di mushi continuamente in viaggio nei più remoti angoli del mondo. Svolgendo le sue ricerche in solitaria e soccorrendo le persone colpite dai mushi, Ginko si ritrova sovente ad osservare il quieto scorrere delle cose e a contemplare quel legame di "fusione" tra uomo e natura, tanto radicato da aver afflitto il suo stesso passato.

«Ricorda: ogni persona e ogni luogo ha diritto di esistere. E ciò vale anche per te: il mondo intero, nel suo complesso, è casa tua.»
– Ginko –


Approcciandosi alla visione di Mushishi, occorre tenere a mente come la struttura narrativa si fondi essenzialmente su una serie di brevi storie autoconclusive. Non vi è una trama delineata - se non rappresentata dal sottotesto filosofico che permea gli episodi - e pertanto il fascino fiabesco dell'opera è dato principalmente dalle placide atmosfere, alla cui riuscita gioca un ruolo fondamentale il sapiente storytelling.
Per comprendere ciò, è necessario soffermarsi prima di tutto sul perfetto meccanismo estetico-narrativo messo in moto dal regista: la straordinaria direzione di Hiroshi Nagahama si condensa in un comparto visivo che diviene a tutti gli effetti parte integrante della comunicazione, sfruttando il vasto repertorio artistico, auditivo e scenografico al fine di sublimare intense atmosfere, dipingere pittoreschi giochi di luce e suggerire l'immersione totale nell'ambiente rappresentato. Un caldo sussurro in pieno silenzio; un tramonto lontano e malinconico; una solitaria goccia di rugiada nell'intimità della foresta; l'autore racconta storie semplicemente attraverso la concatenazione di immagini, suoni e movimenti di macchina, prima ancora che con la sceneggiatura; la ricchezza dei dettagli, dei fondali statici e delle inquadrature compone un vastissimo quadro espressivo, magnificando e rendendo viva un'ambientazione che di fatto assume un ruolo attivo all'interno dello stesso racconto. Le evocative musiche di un Toshio Masuda mai più così ispirato, che riverberano con le loro sonorità distese e tradizionali, esaltano la ricercatezza stilistica di un comparto sonoro estremamente variegato e immersivo.

A partire dalle curatissime animazioni, tutto in Mushishi si muove con estrema lentezza; la realizzazione grafica contribuisce in modo vitale al mood onirico, iper-dilatato, ipnotico e fortemente teatrale della rappresentazione. Il character design spartano ma elegante si unisce a questa idea minimalista di resa espressiva per "sottrazione": grazie a una fotografia pressoché perfetta, non c'è un solo attimo in cui l'essenzialità prettamente giapponese della messinscena non sia esaltata al massimo delle sue potenzialità. Lo stesso uso del colore, a discrezione di una direzione artistica eccezionalmente ispirata, può dirsi a dir poco magistrale: ogni episodio è caratterizzato da un suo cromatismo dominante, spesso legato a una particolare simbologia visiva - come il verde per gli elementi naturali e il rosso per quelli soprannaturali - sul quale spicca l'assenza di colori - o desaturazione, se vogliamo - della figura di Ginko, che va a rimarcare la sua natura impassibile ed esterna al contesto.

Mushishi è un'opera che fluisce lentamente, che sfuma con un approccio minimale, che si trascina nelle atmosfere dense in cui si muove il protagonista e pone un'attenzione vitale alla ricchezza dei dettagli e della caratterizzazione dei teatranti; all'interno di un vasto microcosmo estraneo a ogni spazio e tempo che, per conformazione, richiama il Giappone rurale del periodo Edo, il mushishi errante Ginko si impone subito come parte integrante della storia: a metà tra un medico/farmacista/psicologo e un viaggiatore che ha nel viaggio in sé il suo stesso scopo, Ginko simboleggia allo stesso modo l'anima più profonda di quel Giappone legato alla tradizione e la passività dell'esistenza, vista come un cammino senza meta ma costellato dai tanti piccoli eventi mutevoli del mondo.
I mushi, d'altro canto, si fanno la piena rappresentazione di quella concezione animista estrapolata dal calderone del sincretismo spirituale giapponese: nella figura di questi piccoli esseri, che nell'ambiente in cui sono inseriti si fanno strettamente legati al sottotesto shinto del popolo nipponico, si può scorgere quella commistione mistica tra l'innata energia naturale e le sue svariate proiezioni nella realtà concreta.

Non c'è aggressività nel loro comportamento né tantomeno benevolenza: i mushi sono creature neutre, assoggettate al naturale fluire delle cose in quell'eterno e impassibile meccanismo che è la Natura. Non vi è presente infatti alcun momento in cui le storie (e i personaggi che si avvicendano in esse) siano svincolati dal senso di "enormità" del circostante; negli effetti spesso funesti sull'uomo non c'è influenza volontaria, e anzi la concezione normalmente antropocentrica di qualsiasi opera di carattere narrativo si ritrova in questo caso letteralmente schiacciata dalle leggi della natura che avvolgono ogni essere in un tutt'uno, e di cui i mushi si fanno involontaria manifestazione, quasi come una "compenetrazione" tra le due dimensioni.
Questa riflessione, che si protrae per l'intera durata dell'opera, va a braccetto dunque con un'altra concezione di stampo prettamente nipponico: il mono no aware, la "precarietà delle cose", che accompagna mestamente il malinconico lirismo messo in rilievo dal susseguirsi delle storie narrate. Tra vite che si spengono e vite che sbocciano, Ginko si fa spettatore super partes degli impenetrabili - seppur talvolta cinici - meccanismi della natura, e di come l'uomo ne sia intrappolato in modo del tutto inconsapevole.

Difficile dunque tracciare una panoramica di Mushishi, essendo essa un'opera talmente ricercata e originale da ritagliarsi un angolino tutto suo all'interno del panorama anime odierno; al contempo però la sua estetica raffinata e la sua amara poeticità lo rendono una visione decisamente appagante, nobilitante e mai scontata. Una serie che trova nella staticità di quei paesaggi rupestri la sua particolare forma di bellezza, mentre siamo travolti dal sense of wonder di un incanto primigenio di cui non eravamo ancora a conoscenza.