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La capacità di coinvolgere il proprio pubblico è alla base del successo di qualunque artista, è necessario avere qualcosa in più, qualcosa di peculiare, un tratto distintivo che crei un collegamento diretto tra nome e immagine. Il giovane Makoto Shinkai è riuscito con notevole audacia e perizia a ritagliarsi una posizione di spicco nel panorama giapponese dell’animazione, grazie a uno stile del tutto peculiare che fa di una cura maniacale delle ambientazioni il proprio punto di forza.
Inizialmente grafico, grazie a una buona dose di esperienza guadagnata nel campo del disegno digitale, decide di licenziarsi dall’azienda in cui lavorava e di dedicarsi all’animazione. Si approccia ad essa nell’unico modo a lui familiare, usando esclusivamente computer e tavoletta grafica, aggiungendo una cospicua dose di lavoro di post-produzione e arricchimento di effetti grafici di ogni sorta, volti a rendere la scena quanto più reale possibile. Shinkai lima tutto, gli elementi in computer grafica hanno ombreggiature e rifiniture in 2D per rendere meno evidente possibile il contrasto, risultando in un connubio quasi perfetto nella maggior parte dei casi. È come un trucco di magia, se non sai che c’è, è molto difficile vederlo.
La cura dei dettagli è seconda forse solo a quella del colore: si percepisce una ponderata e oculata scelta dietro alle sfumature e alle tonalità di ogni filo d’erba, ogni riflesso sui vetri, ogni goccia di pioggia che batte su ombrelli e marciapiedi. Persino le ombreggiature dei volti e dei capelli mutano al variare dell’ambiente in cui i personaggi sono calati. Insomma, per usare una locuzione di moda in questi giorni, il lavoro di Shinkai è puro “color porn”.
Le animazioni sono curate, ma non in modo maniacale come i fondali. Sono generalmente buone, con qualche scena che brilla pure di virtuosismo tecnico e di dinamico realismo; tuttavia sfondo e personaggi sono sempre separati da una barriera invisibile che rende a volte un po’ troppo ovattato il primo e leggermente fuori contesto i secondi. Questo si nota soprattutto nelle scene più evocative, nel giardino di Shinjuku, sotto la pioggia; ironia della sorte, lo stesso distacco che serpeggia negli sguardi dolcemente melancolici dei due protagonisti, evidentemente desiderosi di un riscatto sociale di qualche tipo, ma troppo delusi - da sé stessi - per riuscire a concretizzare in azione queste sensazioni.

Sarebbe lecito ora chiedersi di cosa parli “Il giardino delle parole”, dopo tanto indugio sul lato tecnico. Ahimè, il più grande difetto del film sta proprio qui, manca di sostanza. Nonostante la durata breve, quello che Shinkai è riuscito a creare non è altro che un collage di situazioni evocative solo graficamente, ma non emotivamente. Un ragazzo col sogno di diventare calzolaio, una giovane enigmatica donna che parla per versi di poesie, la pioggia e dei sentimenti un po’ troppo sfuggenti e dispersi, troppo per poter dare spessore a un intreccio appena accennato e poco sviluppato. I personaggi risultano piatti e distaccati, complice anche l’amore impossibile - e improbabile, volendo usare un po’ di malizia - con cui Shinkai ama costringere i propri lavori.
“Il giardino delle parole” è come la pioggia primaverile: malinconico e affascinante. Se l’impatto grafico è l’elemento portante dell’intera carriera di Makoto Shinkai, il più emblematico dei limiti del modo di lavorare del regista sta proprio nell’incuria della sceneggiatura, dovuta al volersi accollare più aspetti decisamente gravosi della produzione di un film d’animazione, limite che in questo mediometraggio risalta in modo lampante. Così, proprio come un acquazzone primaverile, “Il giardino delle parole” passa, e si perde nel panorama del cinema d’animazione ad esso contemporaneo, concretizzando sì i pregi, ma soprattutto i difetti di un artista che è tanto bravo nel suo lavoro, quanto carente nel fare quello degli altri.