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Ne uccide più la lingua della spada. Basterebbe questa antica massima per descrivere in modo conciso, ma esauriente, più o meno tutto ciò che “Kokoro ga Sakebitagatterunda” decide di giocarsi, risparmiandosi - per certi versi pure giustamente - una disamina più meticolosa e completa del titolo in questione. Sarebbe giusto, perché quanto la coppia affermata Mari Okada e Tatsuyuki Nagai, sceneggiatura e regia rispettivamente, ha proposto negli anni passati viene riproposto, quasi immacolato, anche in questo lungometraggio, senza ingenti variazioni sul tema e con modalità più o meno analoghe. Sarebbe meno giusto nei confronti del tempo speso per visionare l’opera, nonché del senso critico che imprescindibilmente mi porta a cercare di razionalizzare i miei pensieri e metterli in forma scritta.
Per iniziare, quindi, si può partire da questo: la parola. Se fino a pochi anni fa la tematica dell’incomunicabilità è stata trattata dagli autori giapponesi su un piano prevalentemente metaforico, come incomunicabilità dei sentimenti e delle sensazioni, per intenderci, ultimamente più di un autore ha tentato di portare il tutto a un livello più pragmatico, per quanto la componente metafisica del problema permanga salda al nucleo della vicenda. “Kokosake” si piazza qui, decide di giocarsi per l’ennesima volta le solite carte, ma alzando l’asticella e tentando di toccare corde, almeno sulla carta, un po’ al di fuori della propria portata. Come ho già detto altrove, lo sviluppo di tematiche delicate è un’arma a doppio taglio, può riuscire a condurre il messaggio degli autori dritto al cuore dello spettatore, così come, facilmente, può peccare di artificiosità nel voler costruire situazioni troppo al limite e risultare inconsistente. Ahimè, è proprio quest’ultimo il caso di “Kokosake”, un’opera che parte da presupposti un po’ ballerini, riacquista un suo equilibrio e una certa sensatezza nella parte centrale per poi crollare in un finale ai limiti dello stucchevole, in barba a quanto ha costruito fino a pochi minuti prima.

Le parole hanno un loro peso, una volta pronunciate non possono più tornare indietro e si marchiano a fuoco nella mente e nei cuori delle persone, possono addirittura condizionare per una vita intera l'esistenza di un individuo, se pronunciate con la giusta enfasi nel momento sbagliato. Per creare la giusta base su cui sviluppare questa tematica, gli autori si affidano a un padre talmente meschino da incolpare la figlia, appena bambina, del divorzio con la moglie - a seguito di adulterio, per giunta - e una madre visibilmente frustrata e imbarazzata per la reazione della piccola che, dopo l’accaduto, si chiude dentro sé stessa fino a smettere completamente di parlare; ecco le solide fondamenta su cui poggia il senso di perenne inadeguatezza che Jun si porta dentro dalla fanciullezza fino agli anni de liceo. Isolamento e frustrazione diventano la retribuzione di un crimine che ella non sente di aver commesso e che eppure le viene attribuito, portandola a un contrasto interiore tra la sé stessa rinchiusa a forza dentro un guscio impermeabile, incapace di reagire agli stimoli interni e solo di subire gli altri, e la maschera inespressiva che decide di indossare al fine di proteggersi dal mondo. Il fulcro della narrazione è il tentativo di un gruppetto mal assortito di compagni di classe, formatosi per caso, di rompere questo guscio e aiutare Jun a esprimere i suoi sentimenti e vincere la sua condizione, ormai fisica, prima ancora che psicologica.

Se per la prima metà, tralasciando la forzatura dell’espediente iniziale, gli autori riescono a caratterizzare i personaggi in modo credibile e a calarli in un contesto realistico, con l’avanzare dell’intreccio vengono a galla tutti i cliché - possiamo definirli tali, dopo dieci anni di meticoloso riciclo e reimpiego - a cui essi hanno abituato, quali sentimenti contrastanti e situazioni ai limiti del credibile, cambiamenti di umore e di atteggiamento repentini, sequenze love-hate-love struggenti, triangoli amorosi e via dicendo; i protagonisti non sembrano vivere dei drammi adolescenziali propri della loro età, incarnano più i dubbi metafisici della tragedia classica, qualcosa di più grande di loro e che inesorabilmente li schiaccia. È una stonatura che non stanca mai gli autori e che non smette di sorprendere me, speranzoso che avvenga prima o poi un’evoluzione della loro poetica, probabilmente invano.
L’esempio più lampante di queste problematiche interne si manifesta proprio nel finale, che dovrebbe essere una sorta di climax, di esplosione di sentimenti, ma che risulta spento e moscio, con l’eclissarsi della protagonista dalla scena e la caduta del carico della scena tutto sulle spalle dei comprimari. Paradossalmente lo stesso tema del lungometraggio diventa una zavorra di cui è impossibile liberarsi, che impedisce al messaggio di passare in modo immediato e genuino allo spettatore.

A parziale compensazione delle manchevolezze della Okada, il film vanta una poetica dell’immagine e una regia degne di nota, che riescono a trasmettere in modo più efficace della sceneggiatura le insicurezze e gli imbarazzi, la tensione e le gioie dei protagonisti. I fondali molto curati ricreano un ambiente rurale ovattato che si sposa bene con la chiusura e la limitatezza del modo di pensare della società che ha incriminato Jun, raggiungendo il proprio apice nella fusione armonica di questo mondo con quello fantastico della protagonista. E, se le sensazioni arrivano allo spettatore, il merito è della regia di Nagai, particolarmente ispirata nei punti nodali dello sviluppo dei personaggi, che ahimè corrispondono anche ai maggiori fallimenti della sceneggiatura.
Dovendo trarre delle conclusioni, il film riesce nel suo intento di trasmettere un messaggio, per vie traverse e spesso tortuose, ma ci riesce, per cui bocciarlo sarebbe ingiusto, anche a fronte di un comparto tecnico e artistico di ottima qualità. Finché Mari Okada si ostinerà a voler ribadire gli stessi temi, non penso potrà portare nulla di innovativo nella scena dell'animazione giapponese, ma soprattutto nulla di più godibile di quello che abbia già portato, che di per sé non è molto. È un’opera che mira più alla pancia degli spettatori, invece che al loro cuore, vive di situazioni, cerca il pathos nella maniera più disperata, perdendo molto, a causa di ciò, sul piano della coesione dell’intreccio. Non mi sento nemmeno di sconsigliarlo a prescindere, gli estimatori di “Toradora”, ma forse più di “Anohana”, hanno più probabilità di apprezzarlo; se tuttavia quel che cercate è il titolo che vi faccia cambiare idea sugli autori, in quel caso “Kokosake” diventa tranquillamente trascurabile.