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Innanzitutto, cos’è "Colorful"? Un film del 2010, firmato Keichi Hara (famoso per il precedente “Un’estate con Coo”). La storia si apre in quella che sembra una rappresentazione astratta del purgatorio in cui varie anime, mere sagome grigie, si mettono in fila per compiere quell’ultimo salto verso l’aldilà. Tra le tante, una viene fermata da Purapura, un’entità astrale che, su comando di Dio, informa l’anima che ha vinto una lotteria celeste.
Lo spirito, di cui non conosciamo il volto, di cui non sentiamo la voce, di cui non sapremo mai il nome, appare però infelice della notizia; non sembra entusiasta dell’idea di tornare di nuovo sulla terra, preferirebbe scomparire per sempre, uscire dalla catena di reincarnazioni. Ma, obbligato, viene spedito nel corpo dello studente Makoto Kobayashi, morto suicida poco prima, dopo aver ingerito delle pillole.
Il patto per quest’angosciata anima, intrappolata in un corpo non suo, è quello di riuscire a scoprire quale sia stato il suo peccato, cosa l’abbia spinto al suo estremo gesto.
Già la trama dovrebbe farci intendere il tono drammatico che prenderà la vicenda, che ci catapulta in una realtà cruda, coperta da una mera facciata di ipocrisia.
Il primo pensiero di Makoto, infatti, è “Come si è potuto suicidare?”. La sua vita sembra perfetta, con genitori amorevoli che si occupano di lui, una buona dote nel disegno artistico e una cotta per una ragazza bellissima. Ma, appunto, si ferma a questo… Al sembrare perfetta. Perché non è che una facciata.
Il film è tutto filtrato attraverso lo sguardo di un ragazzo giovane, che vede il mondo in bianco e nero, che scopre e non perdona la falsa felicità della famiglia. Martirizza la madre fedifraga, sopporta a stento la boria del fratello, non accenna a voler comprendere la posizione di un padre sfruttato. Oltre a questo, Makoto si rende conto che tutto il mondo che lo circonda è falso, che la ragazza bellissima per cui ha una cotta va a letto con uomini più grandi in cambio di denaro; che i compagni di classe lo bullizzano… Incapace di perdonare questa realtà, si chiude in sé stesso, e addirittura gode nel far soffrire chi tenta di avvicinarlo.
La regia di Hara è riuscita a raccontare un dramma serio in maniera semplice, senza ridondanze o abbellimenti. Paradossalmente, se la storia parla di falsità ed ipocrisia, la regia con cui ci viene raccontata è al contrario genuina. Il regista si fa carico di mostrare diverse sfaccettature di trama e diverse tematiche. Non si parla solo di Makoto, ma anche della cultura giapponese (il tutto vista sempre dal punto di vista di un ragazzino), come ad esempio i ritmi estenuanti di lavoro in Giappone.
Il tema principale della pellicola ci viene fatto presente già da un titolo evocativo: l’accettazione delle varie sfumature che compongono l’animo umano, in cui non esiste un solo colore predominante. Tema, per altro, legato alla metafora della pittura di Makoto, il quale - insieme alle sue amiche - non sa dare una vera interpretazione al proprio quadro.
I dialoghi tra i vari personaggi, a questo proposito, sono molto realistici, lenti ma veri. Non ci si aspetta mai, viste le premesse, di vedere Makoto, per come è rappresentato, cadere in sentimentalismi tipici da film per famiglie holliwoodiani. Il suo modo di respingere o accettare le persone è quello tipico di un ragazzo della sua età che non accetta la realtà che lo circonda. Tutto il film è un lento processo che porterà il ragazzo a maturare quale deve essere il suo posto nel mondo.
Ho letto diverse lamentele sull’apatia di Makoto. Per chi ha esperienza con anime o film d’animazione drammatici, che affrontano questo genere di tematiche, potrebbe risultare un po’ noioso vedere lo stesso prototipo di protagonista. Un po’ come il più noto Shinji Ikari che, isolato dal mondo, si piange addosso incapace di accettarsi, anche Makoto sembra un adolescente portato all’estremo, il che per alcuni permette troppo poca empatia.
Oltre a ciò ho visto qualcuno lamentarsi per la lentezza.
Prima di tutto, penso che la lentezza sia il punto forte del film. I cosiddetti “punti morti”, che mostrano scene ripetitive, sono una scelta ben precisa del regista. Attraverso i personaggi, Hara presenta una società tutt'altro che idealizzata, anzi… esalta l'anaffettività, il bullismo, l’emarginazione dell’uomo, e in ultimo, ma non meno importante, il desiderio del singolo di sfuggire a questa prigionia. Non per niente, ci vengono fatte vedere tantissime sequenze di vita famigliare, soprattutto durante i pasti, che mostrano la quotidianità in tutte le sue sfaccettature, per restare legati al titolo del film.
Penso che l’empatia verso la vita e il dolore del protagonista sia soggettiva, nel senso che è normale che non tutti apprezzino questo tipo di personaggio, proprio perché - a meno che non sia siano vissute esperienze simili - non si riesce a simpatizzare completamente per lui. Ma il film non si pone come obiettivo quello di “apprezzare” il protagonista, ma quello di apprezzare le varie sfaccettature della vita.
Anche la scarsa caratterizzazione dei personaggi secondari non la vedo come un probabile difetto, visto che il film non si pone l’obiettivo di parlare di loro, ma li inserisce solo per permettere a Makoto la sua maturazione.
Sul lato tecnico c’è poco da dire. Per quanto poco abbia personalmente apprezzato il chara, c’è da dire che i dettagli sono ben curati, e ho enormemente apprezzato l’OST finale, che accompagna il culmine della vicenda, anche se di musiche ce ne sono davvero pochissime.