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Ultimamente mi capita spesso di approcciarmi a un’opera attirato dalla copertina, immaginandomi una certa serie di contenuti, e di scoprire poi, durante la visione, di sbagliarmi completamente; non so se sia dovuto a una mia assuefazione all’animazione giapponese coi suoi stereotipi o alla mia mancanza di fantasia, ma fatto sta che mi sono approcciato alla visione di “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” (lett. ‘Adorniamo il mattino dell’addio coi fiori promessi’) immaginandomi una certa avventura prevedibile in un universo fantasy, e invece mi sono trovato una storia che, delle mie aspettative, aveva solo l’universo fantasy... e “Meno male!” posso dire ora, perché, con mia gradita sorpresa, ho potuto seguire una storia molto forte, intensa, commovente e dolce, con l’amore, la solitudine e la maternità come temi portanti, classica per certi versi, molto originale per altri, ma che merita senza dubbio la visione.

‘Una volta che avrai amato qualcuno, allora sarai davvero sola.’

Questa è la lapidaria lezione che apprende la giovane Maquia da Racine, l’anziana che comanda il suo clan. A prima vista può sembrare un controsenso, ma nel contesto in cui viene espressa assume ben altro significato: Maquia, infatti, è una ragazza quindicenne membro del “Clan delle Separazioni (o dei Separati)”, un gruppo di esseri speciali che vive nella terra di Iorph, identici agli umani nelle fattezze ma che hanno la capacità di non invecchiare mai una volta raggiunta una certa età, e che, in virtù di questa prodigiosa particolarità, vivono isolati dal resto del mondo e rifuggono contatti e legami con i comuni mortali, consapevoli che questi sarebbero destinati inevitabilmente a durare poco, lasciando dietro di sé sentimenti di tristezza e sconforto. Ma Maquia purtroppo questi problemi li ha già, in quanto ha perso i genitori per motivi non precisati, e lamenta quindi di soffrire già adesso la solitudine, nonostante viva in una comunità ristretta che la accetta e la tratta con rispetto e dolcezza, in cui spiccano Leilia, ragazza quasi identica a lei, e Krim, ragazzo per il quale prova una piccola attrazione, entrambi suoi grandi amici. Compito secolare degli abitanti di Iorph è tessere l’Hibiol, un tessuto pregiato prodotto solo da loro nel quale riversano il passato e i ricordi del mondo che li circonda, e inesorabilmente cambia a dispetto della loro condizione immutabile. Questa pacifica routine viene interrotta dall’attacco dell’esercito del Regno di Mezarte, desideroso di entrare in possesso delle straordinarie capacità degli abitanti di Iorph; nel trambusto che segue quest’invasione, Maquia finisce per separarsi dal resto del suo clan, ma riesce fortunosamente a sopravvivere, ritrovandosi sola e sperduta in una foresta. Il caso la mette però sulla strada dell’incontro che le cambierà la vita: in questa foresta infatti Maquia trova un bambino appena nato, difeso strenuamente dalla madre morta in seguito all’attacco di un gruppo di briganti che ha decimato il gruppo con cui viaggiava; colpita dal discorso sulla solitudine che ha appena ricevuto, prova pena per quella creatura, e decide di adottarla per salvarla da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da un destino di solitudine che lei ben conosce. E’ qui che comincia davvero la storia del film, incentrato sulla crescita del figlio adottivo di Maquia, Ariel, e sul loro rapporto in continua evoluzione tra alti e bassi tipici della crescita di un figlio, e amplificati, in questo caso, dal contesto in cui questa avviene.

Tema portante della pellicola è infatti quello della maternità, affrontata sotto vari punti di vista, non solo quello di Maquia; emblematica in questo senso è una delle scene che ci viene presentata abbastanza presto nel film e che vede protagonista la sconosciuta madre di Ariel che, nel tentativo estremo di difendere il figlio, ha stretto talmente forte la sua mano attorno al capo dell’infante, che Maquia fatica ad aprirla per prenderlo. Ed è una scena questa che ci catapulta subito nelle atmosfere aspre del film, allontanando presto quel tono fiabesco che l’incipit ci aveva fatto immaginare, complice anche una componente grafica deliziosa ma della quale parlerò in seguito.
Altri sono i personaggi che vivranno la condizione di madre in modi e tempi diversi, che spazieranno dalla normale convivenza alla crudele separazione alla quale è condannata, per esempio, Leilia, rapita e costretta a mettere al mondo la figlia dell’erede al trono di Mezarte, senza avere la possibilità di crescerla e conoscerla, in quanto ritenuta una specie di mostro per le sue capacità. Ma sono ovviamente Maquia e Ariel ad occupare la scena per la maggior parte del tempo col loro rapporto tanto tenero quanto complicato da gestire, vista la dote di Maquia, eternamente bloccata nel corpo di una ragazza ma impegnata a fare da madre a un bambino che invece cresce, raggiunge e supera anche l’età apparente che dimostra la madre. E a questo problema specifico si aggiungono anche quelli immaginabili in una situazione simile, visto che Maquia è una ragazza volenterosa sì, ma cresciuta da sola e senza la minima esperienza su cosa significhi davvero l’essere genitore. Ed è su questi contrasti, discussioni, frizioni di un rapporto genitoriale classico e atipico allo stesso tempo che il film dà il meglio di sé, raccontando la crescita di un legame messo costantemente a dura prova, eppure tanto forte e indissolubile da superare gli ostacoli del tempo e del mondo ostile che li circonda, una storia d’amore puro che sa rapirti e riempire il cuore di quei sentimenti e ricordi che tanti hanno avuto la fortuna di vivere e che il trascorrere degli anni rischia spesso di far dimenticare. Non altrettanto coinvolgenti ho trovato invece gli aspetti che fanno da contorno a questa vicenda, come lo scenario politico bellicoso che fa da sfondo alle vicissitudini di Maquia e Ariel, tanto da arrivare a coinvolgerli in prima persona, ma che resta appena accennato e molto poco approfondito, o l’evoluzione che subiscono alcuni personaggi come Krim e Leilia che, da una parte, può essere anche giustificata, vista la durezza delle difficoltà che affrontano nel loro percorso, ma dall’altra stona col messaggio di fondo che vuole lanciare “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro”, che è di stampo positivistico, improntato all’apologia dell’amore, della famiglia e della tolleranza come attributi fondamentali nell’esistenza di ogni individuo. Piccoli difetti, insomma, che non sminuiscono assolutamente il valore della pellicola, che ha la fortuna di fregiarsi di un comparto tecnico davvero di alto livello.

“Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un film prodotto dalla Progressive Animation Works, per gli amici P.A. Works, studio relativamente giovane con all’attivo già diversi titoli di pregevole fattura abbastanza noti dagli appassionati di animazione giapponese, che qui si cimenta nella produzione del suo primo lungometraggio completamente indipendente, affidandosi a uno staff composto da veterani del settore, non tutti impegnati però nei ruoli in cui li si aspetterebbe, e mi riferisco in particolare a Mari Okada, prolifica e conosciutissima sceneggiatrice celebre per serie come “Anohana” e “Nagi no Asukara” , chiamata qui ad occuparsi non solo del suo incarico classico ma anche, e soprattutto, della regia del film, che segna il suo esordio in tal senso, un esordio, mi permetto di dire, decisamente riuscito: “Sayoasa” (l’abbreviazione ufficiale del titolo) è un film scorrevole, armonioso, che raggiunge in pieno il suo obiettivo e trasporta lo spettatore in un mondo dall’apparenza fiabesca estremamente affascinante. Questo grazie al contributo degli splendidi disegni, ovviamente, che emergono nella loro bellezza soprattutto nei fondali delle varie ambientazioni, vero marchio di fabbrica dello studio, rappresentazioni stupende di scenari che fondono natura e fantasia impreziositi da colori forti, brillanti e sempre adatti ad ogni occasione, talmente belli da farmi nascere l’unico vero rimpianto, di non aver potuto godere di tanta eleganza sul grande schermo cinematografico. Al confronto, quasi sfigura, ma anche il character design di Yuriko Ishii, adattamento a sua volta del design originale di Akihiko Yoshida (famoso soprattutto per i suoi lavori in ambito videoludico e, in particolare, su diversi capitoli della saga di “Final Fantasy”), collabora alla riuscita finale della pellicola in modo efficace, un disegno allo stesso tempo semplice e originale che regala dei personaggi non banali eppure di facile presa sul pubblico, che restano rapidamente impressi nella mente di chi guarda. A fare da collante a tutti questi lavori grafici ci sono poi le splendide animazioni, dirette sempre dalla stessa Ishii, impeccabili in ogni sequenza del film, sia in quelle più tranquille sia nelle poche, ma molto coinvolgenti, scene d’azione che “Sayoasa” regala.
Ad accompagnare tanta armonia grafica, c’è poi una colonna sonora di tutto rispetto, affidata a un altro mostro sacro qual è Keniji Kawai, la cui carriera si snoda in oltre tre decenni di partecipazione a serie e film celeberrimi tra appassionati e non, che ci offre musiche evocative e potenti in grado di seguire doviziosamente ogni segmento del film e di guidare lo spettatore, aiutandolo a immergersi completamente nelle atmosfere suggestive della pellicola; anche la theme song, affidata alla cantante Rionos, e intitolata “Viator”, cioè viaggiatore in latino, tocca le giuste corde dell’animo di chi guarda, chiudendo il lungometraggio con una canzone dolce e sensibile che si adatta perfettamente alla storia che racconta e che facilmente chiamerà lacrime di commozione a fare da contorno, cosa provata sulla mia pelle del resto. Impossibile infine non elogiare il doppiaggio giapponese di “Sayoasa”, potendo giudicare solo quello, visto che al momento in cui scrivo il film è inedito in Italia, un lavoro che ha esaltato sia degli esperti del campo come Yuki Kaji (voce di Krim), Miyu Irino (voce di Ariel da adulto), Ai Kayano (Leilia) e Miyuki Sawashiro (Racine), sia doppiatori poco più che esordienti come è, per esempio, Manaka Iwami, doppiatrice della protagonista Maquia alla sua prima prova in un film animato, che ha dato vita in modo più che convincente a un personaggio difficile da interpretare, vista la sua natura tormentata e la sua evoluzione, che la porta a passare dall’essere una ragazzina triste e un po’ piagnucolona a una donna responsabile e sensibile.

Alla luce di quanto scritto finora non è difficile quindi per me racchiudere in poche parole un giudizio su questo lungometraggio: “Sayonara no Asa ni Yakusoku no Hana o Kazaro” è un’opera bellissima, un film emozionante capace di trascinare lo spettatore come pochi e di far vivere tante emozioni diverse nella sua durata, quasi due ore che non ho mai accusato, devo dire, disegnato divinamente, e che merita assolutamente la visione, che consiglio caldamente a tutti senza distinzioni, ma in special modo a chi vive o ha vissuto problemi familiari coi propri genitori, le madri in particolare; la storia di Maquia e Ariel non è sovrapponibile ovviamente alle esperienze che ognuno può vivere nella propria vita, ma ci ricorda ancora di più quanto importante sia provare a instaurare un rapporto sereno e amorevole coi propri genitori e con le persone in generale, in modo da non avere mai il rimpianto di ritrovarci a un certo punto della nostra esistenza come la protagonista Maquia senza la possibilità di poter dire in maniera lucida e convinta: “Sono contento di avere amato!”.