logo GamerClick.it

-

Nel 1985 Miyazaki fonda insieme ad Isao Takahata lo Studio Ghibli. Nonostante già il precedente “Nausicaa della valle del vento” fu concepito da quella che potremmo definire la formazione fondatrice del progetto, Studio Ghibli esordì ufficialmente nel 1986, quando, il 2 agosto delle stesso anno, nelle sale uscì “Laputa, il castello nel cielo”.

Sheeta si trova in un’aeronave, quando il velivolo viene attaccato da un gruppo di pirati dei cieli. La bambina, per sfuggire dalle grinfie dei predatori, precipita dal finestrino. Miracolosamente la pietra che porta al collo si illumina, facendola planare agiatamente tra le braccia del giovane Pazu. Il piccolo minatore ha un sogno: visitare Laputa, la misteriosa isola nel cielo di cui raccontava il suo defunto padre.
L’arcana pietra di Sheeta proviene proprio dalla misteriosa isola celeste, ed è per questo che ha catalizzato su di sé la bramosia del perfido Muska, comandante dei servizi segreti pronto a tutto pur di impossessarsi della gemma. È questo l’incipit della prima avventura targata Studio Ghibli, che nella sua semplicità “lirica” e complessità artistica riesce a coinvolgere trasversalmente qualsivoglia spettatore.
Nella sua classicità, la storia, liberamente ispirata a “L’isola del tesoro”, con rimandi a Jules Verne ed a “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift (Il nome Laputa è preso proprio da un’isola volante presente nel romanzo di Gulliver) funziona bene, non a caso ha a sua volta ispirato opere come “Nadia, il mistero della pietra azzurra”; tuttavia ho trovato alcuni passaggi decisamente precipitosi (come quando Sheeta riacquisisce i ricordi) e, nonostante la linearità della trama, il rischio di rimanere un tantino confusi è sempre dietro l’angolo. Il film supera ampiamente le due ore, il tempo di spalmare meglio alcune vicissitudini c’era tutto e si poteva/doveva far meglio da questo punto di vista, ma per fortuna, grazie a un ritmo convulso e ad una spettacolarità visiva sbalorditiva per l’epoca (e non solo), queste piccole sbavature hanno un peso specifico relativo sulla totalità dell’opera.

Le critiche che Miyazaki e Takahata elargiscono al genere umano sono al solito intelligenti e, pur muovendosi in campi già ampiamente sondati, non cadono mai nel becero moralismo. “Laputa, il castello nel cielo” è un tassello fondamentale dell’infinita sequenza miyazakiana basata sulla dicotomia uomo-natura, iniziata nel lontano 1979 con “Conan”, proseguita e innalzata dal monumentale “Princess Mononoke” nel 1997 e tuttora ancora in corso. I temi trattati quindi, dall’antimilitarismo all’ecologismo, dalla sete di potere alla regressione del progresso, portano avanti i vessilli già issati da “Conan il ragazzo del futuro” e “Nausicaa della valle del vento”.

A colpo d’occhio infatti il richiamo alla serie anime cult degli anni ‘80 “Conan il ragazzo del futuro” è scontato, d’altronde la produsse proprio il duo Miyazaki-Takahata. I protagonisti Sheeta e Pazu “ricordano” (per usare un eufemismo) Conan e Lana, e l’ambientazione post- apocalittica è praticamente la medesima, a metà tra fantasy e fantascienza. In questo limbo l’estro visionario di Miyazaki dà sfoggio di tutta la sua irrefrenabile ispirazione, danzando da buie e claustrofobiche miniere a luminosi scorci di etere. La perfetta fotografia di questo armonico contrasto è tutta in un’immagine: un gigantesco robot di ferraglia porge un fiore a Sheeta, alle loro spalle i raggi del sole trafiggono le rigogliose chiome verdi del bosco, illuminando di luce tenue il prato che calpestano; il chiarore mostra sull’armatura ferrea del robot del florido muschio. A differenza della natura ostile presente in “Mononoke Hime”, dove le azioni dell’uomo portavano spesso conseguenze catastrofiche (animali che mutavano in demoni), qui la natura si limita a modellarsi, conformandosi adeguatamente alle contaminazioni umane senza opporre resistenza. Un approccio meno maturo se vogliamo, ma, anche se in versione beta, la corrente filosofica abbracciata dall’autore è la stessa di “Princess Mononoke”:
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

L’elogio al lato artistico-tecnico è come sempre doveroso. La minuziosità con cui Miyazaki ha realizzato il tutto, dalle animazioni ai fondali, dai velivoli ai robot, è, al solito, maniacale. Memorabile la scena in cui Pazu e Sheeta, lanciati a bordo di un aliante malmesso, attraversano la tempesta per giungere a Laputa: sferzanti saette rosse reticolano lo schermo in un mosaico di impetuosa bellezza, incorniciato da una regia virtuosa. A risaltare il tutto la colonna sonora di Joe Hisashi, storico collaboratore di Hayao, che alterna motivi orecchiabili e leggeri ad altri più intensi e profondi. Su tutti spiccano le struggenti note di piano del tema “Laputa”.

Leggermente deficitaria la caratterizzazione dei personaggi. Se i più riusciti sono il vecchio Pom e indubbiamente Dola e il suo scapestrato equipaggio di pirati, a deludere è su tutti il villain. Soprattutto per gli standard a cui Miyazaki negli anni ci ha poi abituato. Muska risulta artificialmente malvagio, e la sua personalità non è approfondita al punto da giustificare cotanta perfidia, risultando poco più che una macchietta utile a non far andare tutto liscio.

Il cielo, tanto caro a Miyazaki, si rivela stavolta anche luogo ove apprendere oscure verità. Di Laputa infatti altro non resta che un immenso giardino e un robot che lo cura con ammirevole e poetica dedizione. Della popolazione tecnologicamente all’avanguardia nessuna traccia, solo una sconfinata tomba d’alberi.
A livello interpretativo, potremmo intendere la scomparsa della popolazione “celeste” come una sorta di presa di coscienza dell’essere terreno.
Avvicinarsi a dio e costruire città in cielo serve a poco, se non a soccombere soverchiato dalla tua stessa bramosia; il cielo affascina, ma per ora è la Terra il luogo dell’uomo.

“Laputa, il castello nel cielo” ha messo in atto una vera e propria rivoluzione tecnico-artistica nel cinema nipponico, spingendosi oltre la semplice animazione, resettando gli standard di qualità visiva. Ripreso e se vogliamo “superato” dai capolavori successivi dello Studio Ghibli, rappresenta, insieme ad “Akira” di Katsuhiro Otomo, il più influente anime della sua epoca.
Da recuperare.

Voto: 8