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Nella memoria collettiva, ma anche purtroppo da parte della critica ufficiale, il cinema di Isao Takahata resterà sempre l'eterno secondo rispetto a quello del più celebrato quanto osannato collega Hayao Miyazaki, ma evidentemente al regista di essere considerato un "numero 2" non è mai importato più di tanto, specie perché il suo cinema è molto meno improntato alla ricezione immediata e più un'esigenza comunicativa da esprimere quando aveva effettivamente qualcosa da dire. A tre anni di distanza dal capolavoro "Una tomba per le lucciole" (1988), il mai troppo compianto Takahata sforna quello che risulta essere a tutti gli effetti, insieme a "La storia della principessa splendente" (2013), l'altro suo capolavoro assoluto; vale a dire "Pioggia di ricordi" (1991), uno dei più grandi film della storia del cinema e base dal punto di vista tecnico-stilistico di tutta la sperimentazione che si potrà ritrovare nelle sue opere successive.
Siamo innanzi a un film di formazione, costruito con un articolato meccanismo di flashback della vita della ventisettenne impiegata Taeko (io-narrante della storia), che si alterna tra i ricordi degli anni '60, quando la protagonista aveva dieci anni, e un presente negli anni '80, in cui oramai, divenuta adulta, si appresta a compiere un soggiorno in campagna presso la famiglia del cognato, aiutando quest'ultima nella raccolta del cartamo e facendo conoscenza al contempo di Toshio, un uomo dedito allo studio e allo sviluppo dell'agricoltura biologica, come nuovo metodo di coltivazione, che in realtà simbolicamente vuole porsi anche come baluardo della conservazione della simbiosi faticosa quanto laboriosa delle antiche tradizioni del Giappone, minacciate dal capitalismo industriale sempre più crescente, tematica molto cara al regista.
A una lettura poco attenta del film, verrebbe subito da giudicarlo come una banale quanto semplicistica reprimenda della vita alienante di città e la riscoperta della campagna come eden bucolico in cui sviluppare sé stessi; nulla di più sbagliato, se come Taeko si può restare superficialmente estasiati innanzi al paesaggio che si pone innanzi agli occhi rispetto al grigiore della metropoli urbana di Tokyo (lo sono stato anch'io quando visitai il Giappone qualche anno orsono), Toshio argutamente replica come in realtà la vista della campagna non è altro che una simbiosi tra uomo e natura, e in quanto tale una creazione artificiale dei contadini che hanno sgobbato e lavorato duramente per esso. Da qui la conseguenza di come la felicità non esista di per sé dal nulla, come se fosse un qualcosa da trovare, ma deve passare per un laborioso lavoro da parte dell'individuo, il che facilmente si lega con il flusso ininterrotto di ricordi di Taeko, che, per creare la propria felicità presente, deve necessariamente prendere coscienza delle irrisolte problematiche sopite nella propria psiche e perse nelle pieghe del tempo, probabilmente quando aveva dieci anni e frequentava le elementari, e viveva con il proprio nucleo famigliare composto dai genitori, la nonna e le sorelle maggiori Nanako e Yaeko.

Takahata, tramite un montaggio ellittico o per sovrapposizioni emotive, fonde i piani temporali del presente e del passato, unendo il flusso dei ricordi senza generare confusione e con una sensazione di "linearità" sconcertante, nonostante le insite difficoltà nell'uso di tale tecnica e l'uso pretestuoso che specie dagli anni 2000 se ne è fatto. La ricchezza dei fondali in cui è immersa Taeko negli anni '80 sfuma invece nel bianco ovattato dei ricordi degli anni '60, con le sue notevoli evoluzioni sociali e di costume (programmi TV, film, fenomeni musicali come i Beatles etc.), specie nelle sequenze ambientate in esterna, di cui Taeko evidentemente fatica a rammentare i dettagli, concentrandosi invece solo sul nucleo emotivo, risultando in contrasto invece con la sua casa d'infanzia della quale ricorda perfettamente la composizione. Assisteremo così agli eventi quotidiani più importanti dal punto di vista della crescita emotiva della donna, come la prima cotta per un compagno di scuola che giocava a baseball o un rapporto poco empatico con il padre sempre freddo e distaccato, tanto da essere un vero e proprio anaffettivo emotivo dal punto di vista della protagonista. Takahata narra la quotidianità con uno scandaglio psicologico sorprendente, senza scadere nel cronachismo manierista, riuscendo a donare incisività ad ogni frammento di questi ricordi che si susseguono in modo frammentato e scomposto, come lo è d'altronde la vita di ogni essere umano, un qualcosa di irrazionale e contorto, un puzzle esistenziale al quale ognuno tenterà di dare una propria forma, come cerca arduamente di fare Taeko in cerca di spiegazioni del perché è giunta ad essere la donna che è oggi, cercando la risposta negli strappi emotivi del passato, rovistando tra le rimembranze per i vizi relativi al cibo, l'ostinazione nel mangiare un cibo che non piace, la vergogna sui discorsi riguardanti il ciclo mestruale, il primo (e unico) ceffone datole dal padre e infine una carriera da "star mancata" mai intrapresa per la negazione del padre, ma che in realtà mai sarebbe andata in porto per mancanza delle necessarie doti.

Taeko ricorda e narra tutti questi avvenimenti con malcelata sofferenza, trincerandosi dietro le buone maniere e un sorriso artificioso, temendo fortemente che qualcuno possa scorgere le sue fragilità dietro la facciata perbenista da ella auto-impostasi; la strada intrapresa dalla donna non potrà che portarla a vivere in modo sempre più alienato, prigioniera delle sovrastrutture della moderna società di massa, sempre eterodiretta dagli altri e con la solita scusa delle proprie mancanze per colpa delle sorelle o dei genitori, quando in realtà Takeo è solo un'ipocrita incapace di ammettere a sé stessa che mai ce l'avrebbe fatta a concretizzare le proprie fantasie adolescenziali, rimanendo ancorata nella propria convinzione fino alla fine, finché un giorno, oramai sola e anziana seduta sul divano e ipnotizzata dalla TV, avrebbe finito con il rimuovere dalla memoria tale senso di colpa, auto-assolvendosi completamente.
Giunta a ventisette anni, Taeko è vicina ad uno di quei bivi posti innanzi dalla vita: continuare a rivangare il passato oppure risolvere le proprie contraddizioni esistenziali, prendendo in mano la propria vita e costruendo il proprio avvenire, magari sposandosi anche, ma non per via dell'insistenza delle proprie sorelle o per il sentire sociale, ma per libera scelta personale. Però, come il bruco prima di diventare farfalla, deve passare per la fase della crisalide, Takeo deve dare una forma al puzzle della propria vita; in questo le viene in aiuto Toshio, il quale riscuote la simpatia del regista, perché, pur essendo più giovane della donna, nel suo essere un carattere sempliciotto ha evidentemente risolto i propri conflitti emotivi senza lagnarsi per una felicità che deve cascargli dall'alto così dal nulla, ma decide di lavorare sodo, rischiando in prima persona per raggiungere essa. Nelle sue confessioni durante le quali Takeo si apre sempre più, Takahata pone l'inquadratura a tre quarti, facendo collimare nella medesima inquadratura sia il volto di Takeo che quello di Toshio; il viso di quest'ultimo si sovrappone parzialmente a quello della donna, simboleggiando in modo efficace una risonanza emotiva con la donna ma anche un'interessante sottolineatura psicanalitica dell'universalità della condizione umana di Taeko, rispetto allo spettatore non solo del Giappone, ma di tutto il mondo, il quale potrà facilmente identificarsi nel momento delicato della donna, perché il travaglio psicologico di Takeo ha natura universale, quindi facilmente identificabile da chiunque, perché siamo tutti protesi in avanti a cercare un fine, quando esso in realtà andrebbe creato guardandosi indietro. Quindi la conclusione coincide con l'inizio, giungendo a collimare tra loro nello strepitoso climax finale dall'alto tasso di poesia emotiva, nel quale Takahata si apre a una positività che era totalmente assente nel precedente "Una tomba per le lucciole", confezionando un capolavoro assoluto fortunatamente compreso dal pubblico solitamente bue (il più grande successo del 1991 in Giappone), ma giunto estremamente in ritardo qui da noi, riscuotendo fortunatamente il favore della critica nostrana (quattro stelle Mereghetti), venendo purtroppo martoriato da un adattamento abbastanza inascoltabile di Cannarsi, al quale mai verrà posto rimedio (i sottotitoli sono uguali al doppiaggio italiano).