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Un sotterraneo dai riflessi bluastri, un ispettore con la fronte madida di sudore, gli sguardi smaniosi dei poliziotti che, ipnotizzati, si posano sull’algida silhouette dell’interrogata, la quale, all’apice della provocazione, accavalla le gambe con movenze scabrose, mentre una sigaretta si consuma tra le sue dita.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, è una scena cult che ha fatto la storia del cinema.
Se mi chiedessero tuttavia di contestualizzarla all’interno dell’intreccio del film, avrei serie difficoltà: tolti i passaggi più crudi e gli amplessi dei protagonisti, non ricordo con precisione altri dettagli; fatto sta che, vuoi per la trovata scandalosa, vuoi per le polemiche che hanno animato diatribe infinite tra puritani indignati e assertori entusiasti di questo linguaggio cinematografico, la suddetta scena ha garantito a “Basic Instinct” un’indiscutibile immortalità artistica.
Non è il primo caso, non sarà certamente l’ultimo.

«Il sesso è una delle cose più importanti del mondo, non credete? L’altra è la violenza. Il sesso in generale è percepito come creativo e la violenza come distruttiva, ma talvolta la violenza è necessaria e anche il sesso a volte diventa violenza.»
Parole del regista Paul Verhoeven, che sottintendono una ricerca “filosofica” dietro questa scelta stilistica. Non certo originale, e opinabile quanto volete, ma pur sempre frutto di un meditato processo creativo.

Un concetto che, tra la folta schiera di epigoni desiderosi di emularne il successo, sembra essere passato in cavalleria. Ciononostante, mondati di ogni lettura in senso anagogico, sesso e violenza restano un sempreverde specchietto per le allodole, un facile strumento per provare ad ottenere immediata fama, secondo il celebre adagio di Oscar Wilde, «Parlarne bene o parlarne male non importa, purché se ne parli».

Forte di queste (tutto sommato ovvie) considerazioni, cosa sarà frullato nella mente di quel geniaccio di Rui Tsukiyo, autore della light novel fonte della trasposizione animata oggetto della recensione, per tentare di farla emergere dal gorgo dell’anonimato? Rispolverare e riproporre per l’ennesima volta una spudorata componente ecchi in chiave fantasy? Per quanto spinto, l’ecchi è un genere decisamente inflazionato, ingabbiato oltretutto in rigidi cliché. Ecco quindi scaturire la necessità di alzare l’asticella, optando per qualcosa di più estremo, da scovare spulciando nei tabù di norma relegati alle produzioni pornografiche riservate ad un pubblico adulto. Tentativo parzialmente fallito, in quanto, sia la light novel sia il manga ad essa ispirato, in un mercato avvezzo a simili stratagemmi, dalla mediocrità non si sono mai smarcati. Dove sta quindi la folgorante idea, che ha dato all’opera, nella sua serializzazione televisiva, la tanto agognata visibilità? Non certo nella commistione di hentai e fantasy (ampiamente esplorata negli anni dall’animazione di settore), quanto piuttosto nella consapevole finzione di commercializzare un’opera per il pubblico generalista (ignaro dell’esistenza del lavoro originale), aggiungendovi surrettiziamente sesso e violenza a fiotti, destreggiandosi con mestiere tra i limiti imposti a questo tipo di produzione. Pur di passare il vaglio della censura, la regia di Takuya Asaoka non lesina infatti, con funambolica perizia, inquadrature strategiche, oggetti posizionati ad hoc, rozze metafore e grossolane allusioni, mentre serve senza remore tutto ciò che di più licenzioso e sadico è consentito mostrare, nella speranza di incuriosire e attrarre lo spettatore in cerca di emozioni forti. Surfando al contempo con scaltrezza sull’onda delle polemiche scatenate dalla liceità o meno di mostrare in TV programmi così espliciti - gliene va dato atto, la sezione marketing in questo caso ha svolto un ottimo lavoro.

«La mediocrità è perdere il fine attraverso i mezzi.» (Oliviero Toscani)
Purtroppo, depurato da mattanze e abusi sessuali, “Redo of Healer” (alias “Kaifuku Jutsushi no Yarinaoshi”) è, al netto della trama, un anime che, eufemisticamente, si potrebbe definire mediocre, la trita, ritrita, scialba storia di vendetta che calca le orme di un canonico isekai, con tanto di rinascita e annessi super-poteri del protagonista. Un prodotto, tra l’altro, di caratura assai modesta, con abbondanti incoerenze narrative ed evidenti lacune di sceneggiatura - trama ed hentai sono, a ben guardare, due concetti quasi antitetici.
Sorvolando sull’irritante frivolezza di alcune parti, va però detto a suo favore che l’unione di una scrittura indecente e di scene di pessimo gusto, più che cagionare repulsione nello spettatore, ha dato vita a uno spettacolo grottesco, talmente trash da risultare godibile per la sua involontaria comicità, alimentando addirittura nel sottoscritto, durante la messa in onda, una costante e spasmodica attesa per l’episodio successivo. Principale fonte di ilarità è stata l’abborracciata caratterizzazione dei personaggi, dal comportamento alieno ad ogni basilare nesso di causa-effetto, tanto da far sorgere (erroneamente) il sospetto che l’anime fosse una parodia di genere, e non si prendesse poi così sul serio; per fortuna, il finale di stagione fuga questi malevoli dubbi.
Un innocuo passatempo, nelle fasi di stanca, è stato raccogliere tutti i tag hentai presenti nelle varie puntate:
#rape #torture #lesbian #furry #defloration #threesome #gangbang #sadism #fellatio #yaoi #urination #forniphilia #futanari #cannibalism #incest...
A voi il piacere di ampliare e arricchire l’elenco.

Dal lato strettamente tecnico, non c’è granché da raccontare: a parte i dettagli ginecologici, e qualche fugace fotogramma di lotta, disegni e animazioni sono assai poco curati, frutto di un lavoro non certo ispirato e figli di un budget, con tutta probabilità, alquanto risicato. L’OST non è memorabile, tutt’altro, ma questa è una costante del genere di appartenenza, dove l’attenzione è rivolta principalmente alle grida di piacere nei momenti topici (oltretutto, in certi frangenti fuori sincrono).

«Fu vera gloria?»
La risposta al manzoniano interrogativo è ovviamente retorica: una volta dissipato il famigerato polverone, la popolarità inopinatamente raggiunta si sfalderà come neve al sole. Conscio dell’ineluttabile crepuscolo, persino l’autore della light novel si è adoperato con sollecitudine nel tentativo, quasi commovente, di smerciare i suoi precedenti lavori, cavalcando quella risonanza mediatica andata oltre le più rosee previsioni: roba da mercato del pesce di Wuhan.
A dispetto dei ragazzini convinti di aver scovato, in virtù degli aspetti più controversi, una pietra miliare dell’animazione giapponese, al punto da ergersi a paladini di questo presunto capolavoro proibito, quel che rimarrà ai posteri è un anime insulso, sguaiato nei toni e risibile nella sostanza, un feticcio d’ispirazione a onanisti incalliti, prima di pesanti sessioni di autoerotismo. Condannato all’oblio dalla prossima cafonata multimediale.
A chi, più in là con gli anni, lo paragona invece a “Berserk”, consiglio di limitare l’uso di sostanze psicotrope.