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“Japan Sinks”... e si vede, però qualcosa si salva.

Il genere catastrofico è una sorta di evergreen nell’industria dell’intrattenimento, partendo dai film, passando per videogiochi e arrivando alle animazioni, quindi, leggendo il titolo e guardando i pochi secondi del trailer, si “dovrebbe” già sapere cosa aspettarsi.

La prima cosa che salta all’occhio in questa serie è la bassa qualità del comparto visivo, dato che sia i disegni che le animazioni sono piuttosto scadenti: i movimenti dei personaggi sono goffi e sgraziati; le animazioni poco fluide; i personaggi hanno un design che li rende fastidiosi alla vista; le prospettive spesso sono sbagliate; la CGI è quella che è, anche se in giro c’è di peggio. Dal punto di vista grafico si salvano giusto i fondali e niente di più. L’idea che mi sono fatto è che con il budget adatto a fare un episodio in modo decente ne abbiamo fatti ben dieci, oppure che ci sia stata un po’ di confusione tra la produzione e il resto dello staff: magari la regia aveva capito di avere a disposizione centomila dollari a puntata, mentre la somma era di centomila... yen.

Per quanto riguarda la storia, parliamo del classico viaggio dell’eroe che cerca di mettere in salvo sé stesso e i suoi cari da un mondo in rovina e, declinato in questo contesto, ci troviamo davanti a una sorta di odissea “on the road/on the boat”. Dopo una brevissima introduzione, che copre pochi minuti, i nostri prodi si ritrovano subito nell’occhio del ciclone o, per rimanere in tema, “nell’epicentro” della catastrofe. Se le loro prime reazioni sono perfettamente consone alla situazione in cui si trovano, nell’arco di pochi passaggi alle crepe del terreno si cominciano ad aggiungere quelle della trama, con un effetto così paradossale da divenire comico.

Superato un momento di inevitabile smarrimento da parte di tutti protagonisti, in poco tempo si forma una “compagnia” errante che si muoverà a tentoni in un mondo in rovina. A risaltare, in modo negativo, non sono tanto i comportamenti dei più piccoli, che quantomeno possono beneficiare di alcune attenuanti, ma piuttosto quelli degli adulti, che sembrano dei bambini sotto mentite spoglie: tra foto di gruppo con tanto di “cheese” (stile scolaresca in gita), giri sugli acqua-scivolo (manco fossero a Riccione in pieno agosto), una spintarella in un fiume a chi non sa nuotare (“Prima o poi dovrai imparare”), si cominciano ad avere dei dubbi su che genere di opera abbiamo davanti, e soprattutto se la categoria “disastri naturali” sia quella giusta. Dopo pochi episodi, per farla breve, il voto sarebbe gravemente insufficiente.
Il viaggio dell’allegra compagnia è un tumultuoso vortice di eventi fatto di caccia al cinghiale, slalom tra crepe del terreno e macerie piovute dal cielo, raccolta di patate, rifornimenti di carburante ed espletazione di bisogni fisiologici (dove non necessariamente i primi sono più pericolosi dei secondi). Si assiste poi a un continuo avvicendarsi di personaggi più o meno affidabili, tra cui: una star di “YouTube” (“You are very cool”), un autista “arrapato”, il cugino di “Shaggy”, e soprattutto il “nonnino arciere” (che non è cattivo, ma ha solo un brutto carattere).

Inevitabilmente i nostri eroi saranno costretti a dormire in luoghi di emergenza: in un parco, nel bosco, all’interno di un supermarket... per giungere, infine, nel luogo più strano del Giappone o forse dell’intero pianeta, “Shan City”. Questo posto è un po’ come il Circeo per Ulisse e la sua ciurma, è un luogo dove i nostri eroi verranno accolti amichevolmente e saranno messi nelle condizioni di: fare una doccia (da vestiti); piangere le proprie perdite; sanare vecchi dissapori familiari; rifocillarsi con “erbe” energizzanti; studiare trigonometria; esercitarsi con l’arco e, ovviamente, scattare foto (“cheese”). Ben presto cominceranno ad entrare nelle consuetudini sociali degli ospitanti: assistendo un malato; partecipando a rituali mistici; andando in discoteca; sparando musica orribile dalla console di quella discoteca; sballandosi con la prima sostanza che avranno rimediato... Però, si sa, i rapporti sociali sono complicati, cosi, tra incendi appiccati, tentativi di rapimento, progetti di evasione e dribbling fra le pallottole, sarà inevitabile una separazione per certi versi consensuale. In un ambiente del genere, ovviamente, colui che “tirerà” fuori il meglio di sé non potrà che essere il “nonnino arciere” (il quale dimostrerà di avere davvero un pessimo carattere, ma di contro un’ottima mira). Tra dolorosi addii e nuovi incontri, il viaggio potrà continuare verso una destinazione non più ignota.

Arrivati a questo punto, e ci troviamo intorno al quinto/sesto episodio, il giudizio di tale opera sarebbe tra 8 e 9, a condizione però di inserirla nella giusta categoria, e cioè quella “comico/demenziale”.
Dal settimo episodio si apre la fase successiva o, se volete, la “mini-saga” successiva, quella che io chiamerei “On the boat”. Qui si può percepire tutto il dramma che ha vissuto la produzione, che mette decisamente in secondo piano l’evolversi della storia: a causa di un regista spendaccione, che ha dissipato nella prima parte tutto il lauto budget messogli a disposizione (bruciando banconote da mille yen come se non ci fosse un domani), si evince che ai “piani alti” siano stati costretti a correre ai ripari, facendo qualche taglio e portando il team di sviluppo da tre a due unità.
E così, tra onde alte più o meno come quelle che si sollevano quando ci si butta a bomba in una piscina di venticinque metri, una zattera come set, incontri fortuiti in mezzo al Pacifico (manco fosse la fiera del fumetto di un paesino di mille abitanti), canzoncine rap e un’immancabile foto (“cheese”), la nostra avventura correrà velocemente verso il finale.

La cosa incredibile è che il finale invece ha un senso!

Se moltissimi film, serie, saghe, animazioni, creano tante aspettative all’inizio, ma deludono quando si arriva alla fine, perché ad un certo punto si capisce che nemmeno gli autori sapevano dove andare a parare, in “Japan Sinks: 2020” il soggetto è invece chiaro, diretto e per nulla banale. Gli ultimi minuti sono un omaggio al Giappone contemporaneo, dove non vengono esaltate chissà quali imprese tecnologiche, storiche o agonistiche, ma piuttosto viene messa in primo piano la quotidianità delle persone comuni: il loro cibo, le piazze affollate, le strade trafficate, i cosplayer, le giornate spese accanto alle persone care. Insomma, tutte quelle cose che consideriamo banali, scontate, non degne di nota, ma che potrebbero scomparire improvvisamente a causa di un cataclisma.

Alla fine è come se a una classe di un liceo fosse stato chiesto: “Quali ricordi salveresti se il tuo Paese scomparisse domani?”, “Bene, adesso scrivete una sceneggiatura”. Il problema è che un tema di così grande spessore sembra che sia stato affidato a un gruppo di appassionati di “Disaster Movie”, “B Movie” e “Tarantino”, i quali, dopo un acceso “brainstorming”, hanno selezionato rigorosamente le peggiori nefandezze che passavano nella loro testa.

In conclusione, l’unica cosa che non affonda in “Japan Sinks: 2020” è solo il soggetto, e, con la speranza che qualcuno in futuro provi a riscrivere questo tema, il mio voto per questa realizzazione è 5.

P.S. Ma in Giappone le patate a che profondità stanno?