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Miyazaki ha ormai più di ottant'anni, è purtroppo nello sfiorire della sua vita e delle sue forze vitali (anche se così non sembrerebbe), e si ritrova a ponderare certezze, speranze che un tempo dava per scontate. Nel recente documentario "10 Years With Hayao Miyazaki" (2019) troviamo un Miyazaki spesso cinico e quasi disilluso, anche se ancora attivamente curioso della propria stessa disillusione, introspettivo e ricercante. Non sono un esperto biografo dell'autore, ma so che da giovane ha fatto parte di campagne politiche e sociali abbastanza decise e decisive, partecipando e dando anche direzioni future a tutta una serie di battaglie che definiremmo genericamente liberal-progressiste, ecologiste, pro-democratiche. Che Miyazaki stesso, nel recente documentario, e quindi da anziano, si chieda se davvero la democrazia post-bellica si riduca a un banale "esser felici" è un importante punto di contatto tra noi, questo e il precedente film, ossia "Si alza il vento". Questo penultimo film, a mio vedere non emotivamente così scardinante, è comunque un'opera che in un certo senso si distacca dalla sua filosofia ghibliana classica, vertente sulla fantasia e sulla metafora fantasiosa. Miyazaki in "Si alza il vento" ritocca terra e si ricollega col defunto amico Isao Takahata, che ha sempre creato opere molto più radicate nell'umano (si pensi a "La tomba delle lucciole", ma anche al bellissimo "Pioggia di ricordi"). Con "Il ragazzo e l'airone" Miyazaki pare concludere questo suo scettico ripensarsi, ritornando in un certo senso al fantastico, ma mantenendo i dubbi che l'anzianità gli ha offerto. Questo potpourri concettuale d'altronde è anche artistico, ché Miyazaki prende spunto da qui e lì, da sé stesso e da altri, così tanto e in modo così palese da pensare che lo abbia quasi voluto palesare (si veda la ricercata recensione di G. Gangi al riguardo: archive.md/uYHEN).

La dirimente differenza tra il vecchio Miyazaki e il nuovo Miyazaki (anche se il vecchio corrisponde al giovane e il nuovo al vecchio) è nel punto finale e d'arrivo della sua morale. La morte e la distruzione non è la prima volta che capitano tra le mani del regista che, seppure spesso accusato di buonismo, di una visione bambinescamente georgica della realtà, non è mai stato così stupido da creare solo favole à la Totoro e Arrietty (dove comunque il tema della sofferenza rimane accennato, ma tangenziale). La guerra umana e la morte sono lo sfondo de "Il castello di Howl", non bisogna dimenticarlo, ma Howl è una fiaba e finisce bene come ogni fiaba. La guerra tra l'umano e il panteismo spirituale sono lo sfondo de "La principessa Mononoke", ma Mononoke è una fiaba e finisce bene come ogni fiaba, sebbene per ottenere questo bene una grande entità viene sacrificata. Ne "Il ragazzo e l'airone" la sofferenza della morte e della vacuità della vita umana portano i due protagonisti, ossia il ragazzo e il suo progenitore, a creare o sprofondare in un nuovo mondo speculare, una specie di Agartha dantesca, sotto il pretesto della ricerca di quel qualcosa che si è perso e che si vorrebbe riconquistare, che sia la propria madre o semplicemente la conoscenza. L'eclatante sta, però, nel fatto che, sebbene "Il ragazzo e l'airone" sia una fiaba e termini più o meno come una fiaba, una vena di cinica malinconia segna questo finale come mai alcun film di Miyazaki era stato segnato prima. La possibilità che il progenitore, nel finale, dà al giovane di ricreare un mondo speculare migliore di quel che lui ha creato, usando nuove forze vitali giovanili, fresche, viene disatteso per un, diciamo sterile, ritorno al presente. Il presente viene accettato così come è, la morte della madre viene accettata così come è, e si fa ritorno all'esistente con nuove forze e nuovo spirito, ma ricordando che la potenzialità creatrice è stata riposta in un cassetto e dimenticata. Il bel finale, sgargiantemente colorato, d'altronde si chiude, negli ultimi secondi, in un modo abbastanza freddo e sterile.