Di antologie animate ne abbiamo viste diverse nel corso degli anni: Manie-Manie - I racconti del labirinto (1983) e Memories (1995) i più noti, ma vale la pena citare anche Robot Carnival (1987) inedito dalle nostre parti. Vere e proprie raccolte animate che spesso riuniscono la “crème de la crème” di registi e animatori, giovani promesse o artisti affermati di quel preciso periodo, nelle quali in quella manciata di minuti a disposizione ognuno tira fuori il proprio estro artistico libero da vincoli di natura commerciale o di complesse sceneggiature. Quando nel 2012 fu annunciato lo “Short Peace Project” venne immediatamente naturale pensare ad un degno erede di questa tradizione anche alla luce del nome che sta dietro al progetto, quel Katsuhiro Ōtomo la cui partecipazione non è mai mancata nelle antologie sopracitate. In pochi però si sarebbero immaginati che, oltre alle quattro opere presentate in ogni dove grazie alla fama che il regista di Akira vanta all’estero, ne sarebbe seguita una quinta, e che quest’ultimo frammento della raccolta non sarebbe stato un anime bensì un videogame. Un ibrido dunque, che ribadisce ancora una volta di come differenti media possano sposare un unico progetto artistico senza necessariamente cedere alla banalità del semplice “anime tratto dal videogame x” e viceversa.

Ricorderete forse a tal proposito il progetto multimediale di Matrix: ai film dei fratelli Wachowski si affiancarono una raccolta di corti animati, denominati Animatrix, e il videogame Enter the Matrix rilasciato su ogni piattaforma di gioco dell’epoca, che non era un banale tie-in del film ma un vero e proprio capitolo aggiuntivo alla nota trilogia fantascientifica. Se però il videogame e i vari Animatrix facevano parte di un unico universo narrativo e nacquero allo scopo di ampliarlo, gli Short Peace e il suo ultimo episodio in forma videoludica risultano invece totalmente slegati tra loro, al punto che un appassionato di animazione non intenzionato a prendere un Dual Shock in mano, può benissimo ignorare il gioco e gustarsi i 4 cortometraggi come fosse un normale Blu-ray disc. Short Peace: Ranko Tsukigime's Longest Day possiede infatti la particolarità di essere fruibile anche tramite un normale lettore Blu-ray, non richiedendo necessariamente una Playstation 3 per poter vedere i cortometraggi. Inserendolo invece in quest’ultima apparirà l’icona del disco nella XMB sia sotto alla voce “gioco” (che partirà automaticamente nel caso sia impostato l’auto-play) sia sotto a quella “video”, ed è da qui che il produttore di Namco Bandai Naoto Tani ci consiglia di iniziare.

Un filmato di apertura, diretto da Koji Morimoto ("Magnetic Rose" in Memories, “Beyond” in Animatrix) e dalla durata di circa 3 minuti, ci illustra una ragazzina intenta a giocare a nascondino e a chiedere al suo compagno di giochi (che non si vede mai) se è “pronto”. Poco dopo un coniglio bianco appare davanti ai suoi occhi e l’ambiente intorno a sé, e non solo quello, inizia a mutare di continuo rendendo il corto animato un piacevolissimo gioco di effetti e immagini, fino a quando una sfera rossa si tramuta nel logo degli Short Peace.

 

Salito alla ribalta per la sua candidatura agli ultimi Academy Awards, Possessions (Tsukumo in originale) è diretto da Shuhei Morita, regista di Freedom di Katsuhiro Ōtomo ma che già si era fatto notare nel 2004 con il pregevole Kakurenbo (Nascosti nel Buio) pubblicato in Italia da Dynit. La storia e il concept design sono invece ad opera di Keisuke Kishi, che trae spunto dal folklore giapponese degli "Tsukumogami”, ovvero quegli oggetti che, secondo la leggenda, dopo 100 anni acquisiscono una propria anima.

Un viandante viene sorpreso nella foresta da un temporale, smarrendo quindi l’orientamento. Cerca così rifugio in un piccolo santuario abbandonato adibito a magazzino di oggetti rotti, ma questi durante la notte iniziano a prendere vita, tenendo l’uomo bloccato dentro alla struttura. Il nostro protagonista non si perde d’animo ma anzi sfodera il suo contenitore per attrezzi di ogni tipo e inizia a riparare uno ad uno gli oggetti, siano essi ombrelli bucati o vecchi tessuti per kimono, dimostrando sempre un grande rispetto per questi spiriti e restituendo loro una “dignità”. Un cumulo di irrecuperabili rifiuti però, si tramuta in un mostro.

Il cortometraggio utilizza una tecnica 3D di grande fascino che per nulla fa rimpiangere l’animazione tradizionale e il viandante senza nome ispira immediata simpatia grazie alle sue espressioni splendidamente realizzate, con tanto di sbadiglio più lungo (e contagioso) che a memoria si ricordi. Il film mostra il meglio di sé nella rappresentazione degli spiriti grazie ad uno splendido gioco di colori vivaci e accesi, ispirati dalla pittura di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) e altre raffigurazioni d’epoca. Possessions è senza dubbio il più ottimista dell’offerta Short Peace ed è forse anche questo uno dei motivi del suo gradimento all’estero, mentre i successivi punteranno verso una neanche tanto velata drammaticità la loro ricerca visiva.

 

Scritto e diretto da Katsuhiro Ōtomo, tratto da un suo manga breve degli anni novanta (Hi-no-Youjin) e curato nel design dal veterano Hidekazu Ohara, Combustible è stato fin da subito il più pubblicizzato della raccolta proprio per il nome del suo regista. La curiosità di assistere al nuovo lavoro del papà di Akira era alta, per di più cimentato in una storia e un’ambientazione del tutto differenti rispetto a quelle di matrice sci-fi e cyberpunk alle quali ci ha abituato nel corso degli anni.

Edo, XVIII secolo, la rampolla di una ricca famiglia di mercanti, Owaka, è promessa sposa ad un uomo ma non ha dimenticato il suo primo amore Matsukichi, disconosciuto dalla stessa famiglia e divenuto pompiere. Una notte la ragazza provoca accidentalmente un incendio, ma ormai in preda alla disperazione non avverte nessuno e assiste inerme al propagarsi delle fiamme, convinta così di poter rivedere il suo amato.

Ōtomo per il suo cortometraggio decide di fregiarlo di uno stile unico, ispirato agli Emakimono, ovvero quelle illustrazioni tradizionali raffigurate sui rotoli orizzontali (da non confondere con i Kakejiku, che sono i rotoli verticali da appendere alle pareti). Grazie alla loro lunghezza che arriva a coprire diversi metri, questi rotoli venivano tradizionalmente utilizzati per narrare delle storie. La regia sceglie quindi inquadrature dall’alto proprio come le illustrazioni alle quali si ispira (con tanto di bordi sopra e sotto a richiamare il rotolo), senza però rinunciare a dei primi piani nelle scene più concitate.
Gli incendi sono stati per secoli la più grande minaccia per le città giapponesi costruite per lo più in legno e carta, e pagheranno a caro prezzo questa loro fragilità anche e soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Il film ben illustra la potenza distruttiva dell’incendio e di tutta la macchina organizzativa che ne seguiva, come per esempio l’abbattere gli edifici adiacenti per non far propagare le fiamme. Dal punto di vista estetico quindi Combustible non delude, di contro è la narrazione a non convincere del tutto; ad una prima parte un po’ soporifera ne segue una seconda più emozionante, ma che porta ad un finale davvero poco soddisfacente. Una ammirevole esperienza visiva quella di Ōtomo, della quale però potrebbe rimanere ben poco allo spettatore.

 

Hiroaki Ando (Norageki) e Katsuhito Ishii (Redline) ci portano ancora più indietro, in un Giappone rurale del XVI secolo, per narrarci di una storia tra una bambina, un enorme orso bianco e un temibile demone rosso che rapisce le donne di un villaggio per partorire la sua prole. La piccola Kao chiede così aiuto all’orso bianco una volta incontrato nei pressi di un fiume e l’animale, capace di comprendere il linguaggio umano, decide di aiutarla. Alla furiosa lotta si unisce un samurai errante precedentemente suo nemico.

Specializzato in animazione in CG fin dai tempi di Memories, passando per Metropolis e Steamboy, Ando si destreggia nella rappresentazione di una vicenda che se a prima vista può apparire come una tenera storia tra una bambina e un orso, ben presto si dimostra come la più violenta dell’intera antologia. Viene da pensare che Gambo sia in qualche modo sfuggito agli esaminatori del “PEGI” dato che con il suo gore di sangue a quantità industriale e pure una fugace nudità, secondo la classificazione vigente avrebbe potuto benissimo alzare il suddetto bollino a 18. Yoshiyuki Sadamoto è il curatore del character design ma si nota a stento, anzi, se il suo nome non comparisse nei credits con molta probabilità in pochi si accorgerebbero della matita che sta dietro al delicato Wolf Children, complice anche lo sfoggio di una massiccia CG, per quanto indubbiamente efficace con il suo stile “granuloso” nel rappresentare il racconto. L’enfasi concentrata principalmente sulla battaglia tra l’orso e il demone, nel suo impeto di violenza, potrebbe non piacere a tutti cosicché Gambo viene da più parti definito il più debole del pacchetto, ma ciò non rende il cortometraggio non meritevole di una certa attenzione.

 

Tratto da un altro manga breve di Katsuhiro Ōtomo, disegnato nel 1981 e pubblicato nel volume Memorie, A Farewell to Weapon è il più lungo della raccolta e si avvale della regia di un sorprendente Hajime Katoki, poco noto come regista ma figura di grande spicco nel campo del mecha design, e del resto per uno che ha imparato il mestiere da leggende quali Kunio Okawara, Shoji Kawamori e Yutaka Izubuchi non poteva essere diversamente.

La desolante Tokyo di un futuro post-bellico fa da teatro alla missione di un manipolo di soldati, incaricati di setacciare la zona in cerca di ordigni e macchinari da guerra rimasti attivi a scopo di bonifica, distruggendoli se necessario. Quella che si prospettava come una missione tranquilla si tramuta ben presto in una dura battaglia contro un pericoloso mech automatizzato intento a distruggere qualunque minaccia gli capiti a tiro.

A Farewell to Weapon, titolo che rimanda non casualmente al romanzo di Ernest Hemingway sulla prima guerra mondiale, chiude nel modo più movimentato possibile la tetralogia animata degli Short Peace. Il sottofondo rock della parte iniziale accompagna la presentazione dei personaggi prima che l’azione prenda il sopravvento in un susseguirsi di scontri a fuoco e sequenze mozzafiato, esaltate da una cura maniacale nei confronti di sofisticati armamenti bellici, futuristiche tute comprendenti di tutto, droni di ogni dimensione e funzionalità. Il tutto animato senza le sperimentazioni dei precedenti ma il risultato è sempre una gioia per gli occhi nello spettacolo dei 1080p. Katoki è bravissimo a mantenere alta la tensione per l’intera durata del film, e nonostante i risvolti drammatici della missione non si ha la sensazione di assistere ad un’inutile mattanza fine a sé stessa, ma anzi il regista sovente decide di dare un’impronta leggera a certe scene, in cui i personaggi mostrano una simpatica goffaggine. Ma la vera sorpresa è data dal finale, a tratti tragicomico nella sua rappresentazione e fortemente antimilitarista, rendendo A Farewell to Weapon una bella sorpresa che non mancherà di emozionare gli appassionati del genere.

 

Che nel modo di sviluppare videogames da parte di Goichi Suda, aka Suda 51 e da alcuni definito il “Tarantino dei videogiochi”, ci sia qualcosa di eccentrico e di anticonformista, nessuno lo ha mai messo in dubbio fin dagli albori dei Grasshopper Manufacture, studio da lui fondato nel 1998 dopo l’esperienza in Human Entertainment con i giochi di wrestling (una delle sue tante passioni). Ma in realtà c’è di più, con un passato da becchino il game designer dimostra fin da subito un rapporto tutto particolare con la morte e il macabro, complice anche una dichiarata passione per il cinema del nostro Lucio Fulci; in uno dei suoi primi lavori, Super Fire Pro Wrestling per il Super Nintendo, il lottatore protagonista dopo aver ottenuto la cintura del campione, si suicida.

Da allora è un escalation di produzioni e storie spesso fuori di testa che definire semplici giochi potrebbe essere limitante: a partire da quello che è il suo titolo più eccentrico e rappresentativo, lo psichedelico Killer 7, passando per l’altrettanto strano Flower, Sun and Rain fino ai suoi più recenti lavori, forse più ‘normali’ e in parte dettati da alcune regole di mercato ma sempre segnate dalla sua inconfondibile impronta, che siano i deliranti inni al mondo nerd di No More Heroes o le continue allusioni sessuali di Shadow of the Damned.

Perché tutto questo? Perché è consigliabile conoscere il suo autore prima di approcciarsi a Ranko Tsukigime’s Longest Day, o forse sarebbe più corretto dire ai suoi due autori. A lui Bandai Namco affianca Yohei Kataoka di Crispy’s che non è una marca di patatine ma il piccolo studio artefice di uno dei giochi più strani e originali rilasciati sul Playstation Network, ovvero quel Tokyo Jungle che nel 2012 ha messo i videogiocatori nei panni di una razza animale intenta a sopravvivere in una Tokyo abbandonata dagli esseri umani. Con due personaggi così, come si fa a valutare “normalmente” un prodotto simile, facente parte di un progetto così sperimentale, con i soliti canoni di giudizio? Evidentemente alcune testate del settore non si sono poste il dilemma: 5 a Ranko Tsukigime perché dura un ora e poi via di nuovo tutti a contare i frame al secondo in più della versione PS4 di The Last of Us. E vabbé.

Divagazioni a parte, l’ultimo Short Peace vi mette nei panni di Ranko Tsukigime, diciassettenne figlia di un magnate di parcheggi che di giorno è una normale studentessa ma che di notte si trasforma in un killer con indosso un vistoso vestito bianco e armata di un fucile a forma di violino. Stavolta il suo bersaglio è nientemeno che il suo stesso padre, responsabile della morte di sua madre, ma quella di Ranko sarà tutt’altro che una nottata tranquilla.

I pochi mesi e il basso budget a disposizione hanno portato gli sviluppatori a decidere per un videogioco bidimensionale, con un gameplay che si mostra a metà tra l’azione di Strider e la velocità di un Sonic the Hedgehog, ma in realtà la maggiore ispirazione di Suda51 è un certo Genpei Touma Den, datato 1986 (sempre di Namco, tra l'altro) assolutamente sconosciuto in occidente ma molto amato in patria e dal game designer. L’anima arcade di Ranko Tsukigime’s Longest Day è di conseguenza immediatamente palpabile per chi ha qualche annetto in più sul groppone e ha vissuto l’epoca d’oro delle sale giochi. La protagonista è inseguita da una non ben definita legione demoniaca che la costringe a correre sempre verso destra onde evitare una morte certa, armata quindi di spada deve farsi strada tra i vari nemici, incapaci di ucciderla (assente una barra della vita) ma la loro presenza è atta a rallentare pericolosamente la sua corsa. All’occorrenza Ranko può ricorrere al suo fucile per sparare sia avanti (tasto R1) che indietro (L1) allo scopo di sbarazzarsi almeno momentaneamente dei suoi inseguitori, previo ricarica di una barra posta in basso a sinistra dello schermo, tramite l’esecuzione di catene di uccisioni.

I livelli sono brevi ma non lineari, in base alle proprie scelte o abilità si possono percorrere strade differenti, con i percorsi superiori solitamente più appaganti di quelli inferiori che invece vengono avvertiti come punitivi a seguito di una qualche caduta. Esattamente come il porcospino blu di casa Sega, Ranko acquista velocità nelle discese con l'ausilio di una scivolata mentre rallenta vistosamente con le salite; più velocemente correrà e più spettacolari saranno le uccisioni, esaltate da vere e proprie “esplosioni di immagini” sempre più grandi in base al numero di combo, che rendono il gioco una inusuale quanto gradevole esperienza visiva, oltre che ludica, accompagnata dalle musiche di un plasmabile Akira Yamaoka (Silent Hill, principalmente).

Tutto procede regolarmente fino a circa metà gioco, dopo 5 brevi livelli basati su questa struttura infatti il gioco letteralmente impazzisce, sia dal punto di vista narrativo che da quello ludico, in un crescendo di colpi di scena, trasformazioni assurde, e cut-scene che variano continuamente tipologia (si passa dai filmati in cel-shading a dialoghi scritti come le visual novel, per poi propinarci uno stile manga fino ad un vero  e proprio anime). Longest Day decostruisce qualunque modus operandi visto di recente per lo sviluppo sensato di un gioco, con la sua schizofrenia che ben scaturisce nei 3 boss del gioco ognuno a rappresentare un differente genere, dallo shoot’ em up ad una battaglia realizzata in stile 8-bit. E la storia? Un delirio tutto da gustare, anticipare qualcosa considerata l’esigua durata del gioco è inutile, oltre che arduo essendo tutt’altro che chiara e lineare. Lo stesso Yohei Kataoka ammette di non averci capito granché della stesura iniziale di Suda51, il che è tutto dire e se ai titoli di coda la vostra testa sarà pregna più di domande che di risposte, state tranquilli, avete la coscienza a posto.

L’ora necessaria al completamento di Ranko Tsukihime’s Longest Day si rivelerà quindi un’esperienza breve, ma non priva di sorprese. Certo i difetti sono evidenti: la difficoltà, se si escludono le boss battle, tende al basso perpetuo e non darà particolari problemi ai giocatori più esperti. Gli sviluppatori sembrano aver attuato questa scelta per permettere a più persone possibili di gustarsi l’ultimo Short Peace, ma questa appare come una contraddizione dato che Ranko Tsukihime è di suo un prodotto di nicchia, che per giunta strizza l’occhio agli appassionati di retrogame -e non solo- con inevitabilmente una certa esperienza alle spalle. Il lato contenutistico non aiuta: nonostante la presenza di collezionabili sparsi per gli stage a stimolare una rigiocabilità grazie anche ad un comodo selezionatore di livelli, il gioco si presenta abbastanza povero di contenuti, con le sole richieste dei trofei (come per esempio battere un boss entro un certo limite di tempo o sopravvivere ad un altro senza subire danni) a tenere a galla per un’altra oretta una longevità altrimenti ridotta ai minimi termini e inferiore anche a molti titoli venduti a 10/15 euro sul Playstation Store. Eppure anche una semplice implementazione di classifiche online con cui condividere e confrontare con altri esseri i propri punteggi, de facto la versione moderna degli “high scores” da sala giochi (quelli dove in caso di basso punteggio, scrivevi come nome “CUL”), avrebbe un minimo aiutato in tal senso.

Il tema che accomuna gli Short Peace è ovviamente il Giappone, rappresentato fin dal logo tramite il suo simbolo e dal quasi onnipresente Monte Fuji. Il Giappone del passato di Possessions, Combustible e Gambo, mistico, affascinante, ma anche tragico e violento. Il Giappone del futuro di A Farewell to Weapon, avanzato e tecnologico eppure così pessimista e apparentemente privo di valori. Infine il Giappone del presente di Ranko Tsukigime’s Longest Day, veloce, confuso, a tratti incomprensibile ai più con i suoi continui rimandi alla subcultura otaku tramite stereotipi abusatissimi oggigiorno quali l’occhio speciale della protagonista, le trasformazioni, i tokusatsu, il karaoke che cancella tutte le ansie della giornata.
Short Peace: Ranko Tsukigime’s Longest Day è una raccolta di opere assolutamente autoriali e differenti tra loro, al punto che ognuno potrebbe benissimo avere il suo Short Peace preferito. L’insieme di questi grandi artisti rende l’acquisto quasi un obbligo per ogni appassionato di alta animazione che si rispetti con però un occhio di riguardo al prezzo di lancio, decisamente esoso in proporzione al contenuto che offre, rendendo in tal modo ancora più elitario quello che è di fatto un prodotto unico e sperimentale per il nostro mercato.
Nella speranza che Namco Bandai abbia almeno in parte compreso l’antifona, per questa volta aspettando gli sconti estivi la si perdona, considerato il valore artistico e collezionistico del progetto.