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<b>Attenzione! Potrebbe contenere spoiler</b>

Il nuovo vangelo, il vangelo dell'epoca post-moderna.

Scrivere una recensione a proposito di Evangelion nel 2012 non è cosa facile; dal 1995 sono passati quasi diciassette anni e su quest'opera sono stati spesi (metaforicamente parlando) litri e litri di inchiostro, sono state costruite interpretazioni di ogni genere e specie, impalcature spesso infondate, alle volte forzate, in alcuni casi invece interessanti e produttive. Si tratta di una serie che ha segnato intere generazioni di appassionati, e la sua fama ha portato il seme della discordia nel mondo, tanto da far discutere ancora oggi le masse. Con la consapevolezza quindi che ciò che andrò a scrivere forse non sarà nulla di nuovo, né di temerario o straordinario, sicuramente già esplicitato da molti, cercherò comunque di dare un'impronta personale alla mia recensione, sperando di non esagerare, e di non annoiare.

Esordiamo quindi con delle considerazioni introduttive: per comprendere Evangelion nella sua più intima natura, a mio parere, si dovrebbe operare innanzitutto una scissione tra il comparto sfacciatamente esoterico e le tematiche che vengono portate avanti con l'introspezione dei personaggi, cercare di leggere l'opera al di sopra del livello in cui essa si concretizza come mero "giocattolo cabalistico", per usare un'espressione efficace. Molti, troppi dettagli e misteri della trama sono volutamente lasciati irrisolti e nell'ombra, ed è meglio così poiché è certamente preferibile il mistero non svelato piuttosto che una spiegazione forzata e maleodorante. Dopotutto la chiarificazione complessiva di tali elementi non influisce sulla comprensione delle riflessioni e, soprattutto, della fine, per la quale è adeguato (anzi, è fondamentale) ciò che viene esplicitato nei ventiquattro episodi precedenti.
Con le successive ultime due puntate si procede oltre la storia, l'autore si dedica all'investigazione psicologica dei soggetti nel "di loro caso", fino a concentrarsi in modo particolare su Shinji. Il tutto deve tuttavia essere visto a livello metaforico: nell'ultimo episodio la trattazione si estranea addirittura da Shinji stesso, egli si astrae dal suo personaggio per diventare l'uomo che si interroga sui propri esistenza e rapporto con la realtà esterna e le altre persone.

Non si deve essere illuminati, quindi, per comprendere che ritengo come parte meno rilevante ai fini di un'analisi soddisfacente (che non vada a parare in voli pindarici di dubbio gusto e utilità) la storia in sé considerata, che a mio avviso svolge solo una funzione di contestualizzazione, peraltro magnifica e poliedrica, riducendosi a una sorta di splendida cornice: ci si deve dirigere altrove. L'insieme di elementi mistico-religiosi tanto cari a una grossa fetta degli amanti della serie, inoltre, sul quale si sono create le più disparate teorie che lasciano spesso il tempo che trovano e che (per la maggior parte) personalmente aborrisco, spingono verso derive avvilenti e vuote. A mio avviso Evangelion non ha un vero e proprio significato religioso di fondo. D'altronde si vocifera che lo stesso staff (Kazuya Tsurumaki in particolare) si sia espresso in questo senso, dichiarando che il contorno cabalistico fosse un mero specchio per le allodole. Per questi motivi non parlerò dei simbolismi religiosi nella mia recensione, altrove utenti più competenti di me ne hanno già parlato. Quello su cui io voglio concentrarmi è un aspetto singolare di Evangelion, ovvero la sua formulazione, in chiave postmoderna, del problema dato dal rapporto intercorrente tra individuo e società-realtà esterna.

Faccio fatica a considerare Evangelion un anime prettamente mecha, al massimo lo definirei un anime "anche" mecha che prende tuttavia una piega decisamente diversa dai suoi predecessori, mettiamo ad esempio Gundam o Ideon, impostando la storia su un regime di intellettualismo e sperimentalismo efferato, che abbandona gli stilemi convenzionali e strizza l'occhio al '900, proiettandosi verso una mentalità post-moderna, trattando concetti che tendono a essere universali, propri della filosofia e della psicologia. Gli spunti riflessivi in questione traggono ispirazione a piene mani da diverse illustri personalità, in particolare da Pirandello e Freud, ma anche da pensatori meno recenti come Schopenhauer. Le tematiche affrontate sono molteplici e afferiscono tutte a un medesimo genus, ovvero il problema dell'alterità e il dilemma dell'esistenza. Con l'introduzione degli "altri", delle altre persone, la riflessione sul "sé" è destinata completamente a stravolgersi e a complicarsi. Dove risiede il mio vero io? Nella persona che pensa o in quella che agisce? Nel soggetto osservante o nell'oggetto osservato? Sono davvero io il fautore di me stesso? O forse nella determinazione del mio io influiscono l'ambiente esterno e le altre persone? Come la persona percepisce sé e il mondo circostante? Come la società e tutto l'insieme di valori e preconcetti, che ci viene imposto da essa e dalle altre persone, influiscono sulla nostra percezione del mondo? Come il mio animo influisce sulla percezione della realtà?
Questi sono alcuni dei quesiti che vengono più o meno approfonditi nel finale, mediante il dialogo tra i personaggi che, ormai astratti quasi totalmente dal contesto primigenio, svolgono una funzione di attori che rappresentano uno spettacolo a sé stante. Da notare inoltre l'utilizzo interessante delle voci fuori campo, le quali più che rispondere agli interrogativi del protagonista cercano di farlo ragionare (assieme allo spettatore) in modo tale da far sì che risponda da solo, che trovi lui una risposta. Lo stile degli episodi finali si rivela quindi efficace al massimo grado, capace di veicolare in modo sorprendentemente profondo le riflessioni di cui si fa portatrice la serie, sebbene si contraddistingua per un'eccentricità e un'audacia fuori dal comune.

Cerchiamo però di dare una panoramica più completa di alcuni (quelli che ritengo principali) contributi intellettuali e culturali che popolano questa serie, in modo da chiarire al meglio la mia opinione in proposito. A seguire saranno solo speculazioni di natura strettamente personale, dunque senza pretesa alcuna di essere reputate insindacabili.

Sopra si affermava che il grande comparto simbolico-religioso non offra una base solida per un'attività analitica che l'estensore di questa recensione possa definire soddisfacente. Ci si può chiedere dunque su cosa fondare la medesima. La risposta è quasi assiomatica: sui personaggi, sulle loro vicende, e sulle considerazioni che si possono costruire attorno alla trattazione del tema di fondo, che si giostra su riflessioni sparse un po' per tutta al serie ma inevitabilmente concentrate, precipuamente, nel finale. Evangelion è fondamentalmente una storia di comunicazione, di riflessione sulla relazionalità tra gli individui che sfocia in derive esistenzialiste. Questi problemi sono incarnati dai personaggi, che si rivelano incredibilmente umani e "dilemmatici", quanto di più distante dagli eroi senza macchia e senza paura che si affiliano solitamente agli stereotipi più comuni del genere.
Dedichiamo quindi due minuti preliminari a una piccola introduzione circa questi due punti, in vista di una più generale considerazione di tali elementi.

I personaggi sono costruiti in modo impeccabile, in particolare i principali: Shinji, Asuka e Misato, i quali, guarda caso, sono i protagonisti dell'analisi effettuata negli ultimi episodi.
In realtà le loro figure, apparentemente inconciliabili tra loro, sono assimilabili e vicine, poiché si basano tutte su un'esperienza traumatica infantile (dovuta ai genitori) che si mutua in una difficoltà poi a interagire socialmente con le persone, facendo dunque il verso al complesso edipico di Freud. Cercando di essere breve: tutti e tre anelano una via per rifuggire la spiacevole realtà ma, contemporaneamente, un modo per adeguarvisi e relazionarvisi.
Shinji si chiude in sé, serrandosi in un proprio mondo dove confida di essere al sicuro, tuttavia non può fare a meno di desiderare il contatto fisico da cui è tanto spaventato, cercandolo in Rei, Asuka e Misato. Desidera essere apprezzato, essere utile, desidera sapere cosa fare per uscire dalla sua condizione miserabile, per affrontare un futuro ignoto e terrificante, tuttavia è troppo impaurito e debole per poterci riuscire. Per questo si odia, e di riflesso proietta questo odio per se stesso al di fuori di sé, convincendosi che l'intero mondo lo disprezzi.
Asuka, dal canto suo, avendo un carattere forte, reagisce in modo del tutto opposto, diventa esuberante e orgogliosa, cercando di attirare l'attenzione degli altri ostentando la sua genialità di cui va tanto fiera, producendosi in un comportamento esuberante. Con ciò non riesce a soffocare le sue debolezze e fragilità che la porteranno in crisi nella seconda metà della serie.
Misato invece cerca la fuga in Kaji, rendendosi conto solo più tardi che invece ha solo mascherato il problema poiché vedeva in lui la figura del padre, e che quindi lo aveva solo sostituito usando l'amico come palliativo.

Per quanto riguarda il messaggio di fondo che unisce un po' le fila del discorso: arcinota, tanto che quasi me ne vergogno a parlare, è l'interpretazione (almeno sembra) data da Anno in via ufficiale (quella del messaggio salvifico per gli otaku), che ha tanto fomentato discussioni tra i sostenitori e anche tra i detrattori della serie, facendo parlare di presa in giro e di critica ai fan medesimi.
A essere sinceri una simile visione appare piuttosto triste, restrittiva e mefitica, anche se, in effetti, non mi sento di criticarla funditus; sia perché non mi ritengo in grado (in quanto occidentale) di comprendere appieno il fenomeno otaku, sia perché il finale è aperto e interpretabile, e dunque è giusto che prevalga la sensibilità dello spettatore, che si costruisca lui una risposta con la sua attività ermeneutica per convincersene o meno. In ogni caso tali dichiarazioni mi hanno fatto cadere in basso Anno, e quello che sta facendo con il progetto Rebuild non giova certo alla sua reputazione.
Ritengo che sia piuttosto difficile attribuire al tanto celebrato finale un'interpretazione unica.
Potrei cercare di riassumere, nonostante la crudele e limitante contingenza delle parole e del linguaggio, l'idea che mi sono fatto in questo modo: si può vedere in atto il tentativo dei personaggi di cercare di raggiungere e di costruirsi una propria verità che permetta loro di vivere e di relazionarsi con gli altri, ma andando maggiormente in profondità si mostra l'essere umano tormentato dal dilemma dell'esistenza, che risulta a lui irrisolvibile.
Negli ultimi due episodi l'analisi parte dall'uccisione di Kaworu, la perdita dell'unico bene e oggetto di felicità (in quel momento) per Shinji, l'unico spiraglio che gli permette di continuare ad accettare la propria esistenza. Segue dunque il suo percorso di introspezione e di indagine psicologica volto a cercare la soluzione dell'hedgehog's dilemma. Quale sia questa risoluzione è interpretabile e non dettata in modo didascalico e inequivocabile, io propendo per la teoria secondo la quale si deve prendere atto che ipocrisia e falsità siano elementi inalienabili per riuscire a (soprav)vivere nella società, e che sia possibile trovare un valore per poter vivere, seppure nascondendoci dietro delle maschere, seppure sia impossibile sfuggire alla morsa della volontà di vivere e alla dolorosa contingenza: si assiste alla decostruzione e ricostruzione dell'individuo sociale. Volendo essere tuttavia più precisi e meno banali riguardo tali disquisizioni, si deve fare un discorso più schematico e ad ampio spettro.

Schopenhauer e il dolore dell'esistenza.
Per quanto riguarda Schopenhauer già si è detto qualcosa, ma approfondiamo.
I riferimenti sono chiari e fondano l'anima della serie, ne costituiscono l'input primigenio. L'intera opera ruota attorno all'hedgehog's dilemma e al dolore di vivere.
"Vivere" vuol dire "volere", "volere" vuol dire "desiderare", se si desidera significa che ci si trova in una situazione di mancanza, si è insoddisfatti, e questa si rivela ontologicamente incolmabile: ogni qualvolta si soddisfi un desiderio ne subentra un altro ancora, in un circolo senza fine. La felicità non può che essere un momento effimero di breve e perituro appagamento della volontà di vivere, che continuamente anela ad altro. Questo perché la volontà di vivere è un istinto irrazionale e incontrollabile, che deve fare i conti però con la limitatezza contingente del corpo. Vivere significa quindi soffrire, perché si è incompleti, si è soli, si è "individuo" ma nonostante ciò non si può fare a meno di volere e desiderare.
Un altro aspetto affine alla filosofia di Schopenhauer è la visione totalmente pessimistica dei rapporti umani, che si basano su istinti egoistici, sul conflitto e sul tentativo di sopraffazione reciproca. Viene così infranta l'ingenuità della presunta socievolezza e bontà dell'uomo, si dipinge l'umanità come un: "inferno di egoismi". Qui si inserisce il dramma del porcospino: le persone si avvicinano perché desiderano contatto e approvazione, "desiderano di essere desiderate", ambiscono egoisticamente alla felicità e al calore delle altre persone, ma con l'avvicinarsi ci si ferisce e si soffre, per questo si deve trovare la giusta distanza per non farsi del male a vicenda. Tuttavia non si sarà mai affrancati da tale condizione in quanto esseri singoli. La via per superare tale ontologica tragicità, nella storia, è quella di eliminare il problema alla radice, ovvero eliminare la molteplicità dell'esistenza riunendo gli esseri in un solo ente, in poche parole: creare un Dio o comunque creare un'alternativa evolutiva a un'umanità che si è fermata a un punto morto della sua storia. Questo è lo scopo della Seele, ed è a ciò che si cerca di dare una risposta.
Dal punto di vista psicologico la questione si pone però in termini diversi, da un punto di vista interno, ed è questa via che si segue nel finale. L'alternativa si pone tra il nulla, che permetterebbe un effettivo svincolarsi dalla volontà di vivere, e l'esistenza, ma per scegliere l'esistenza si deve cercare di superare il dilemma che essa comporta, si deve trovare una ragione per esistere.

Pirandello e la frantumazione dell'io.
Le riflessioni riconducibili a Pirandello in realtà sono riflessioni attribuibili all'intero '900 in generale. Anno probabilmente non ha mai letto un libro dello scrittore di Agrigento e in ogni caso questa circostanza risulterebbe irrilevante.
Il pensiero relativista e gli elementi teatrali si delineano principalmente verso la fine, in primo luogo nel monologo tra Shinji e se stesso quando è assorbito dall'angelo e successivamente negli episodi finali, precipuamente individuabili nel palcoscenico su cui avviene l'analisi dei personaggi - i quali si trovano al cospetto del loro animo all'interno degli animi delle altre persone - l'uso delle luci e dei monologhi. Si passa a considerare il sé soggetto osservante e il sé oggetto di osservazione, lo stesso ente viene conosciuto in modo diverso, ma quale è il vero ente? Non sono tutte rappresentazioni? Anche quella che ho io di me stesso? Le persone che mi conoscono, non hanno di me la medesima percezione. Ognuno mi conosce in maniera differente, in base al grado di relazioni che ha avuto con me e il lato di me che ha conosciuto. Ognuno mi ha dato, dentro di sé, una sua rappresentazione di "me", una determinata forma, e per ognuno sono tutte differenti le une dalle altre e tutte differenti da quella che io ho di me stesso. Sarebbe proprio come dire che esistono tanti me quante sono le persone che mi conoscono, eppure di me ce n'è uno solo. O forse no? L'oggetto non cambia. Questa è la verità, tu non puoi conoscere te stesso come ti conoscono gli altri e viceversa non puoi conoscere gli altri come loro conoscono se stessi. E allora dove si trova il vero me? Da nessuna parte, o forse da tutte le parti (che sarebbe come voler dire nessuna parte)? E così si mette in crisi la concezione di "Io", che diventa solo una parola. E' facile credere alle parole, ma esse sono il primo grande inganno e semplificazione della realtà. Esistono solo maschere di me stesso, tante quante sono le persone che mi conoscono, e anche io indosso una maschera al cospetto di me medesimo. Parimenti non si può conoscere la realtà come la conoscono le altre persone, poiché l'idea che ognuno ha del mondo è diversa. Il mondo non appare necessariamente a me e agli altri ugualmente e assolutamente, ma solo in modo differenziato e parziale. Ognuno può conoscere solo una parte infinitesima del reale nel suo divenire e solamente attraverso due vie: con l'esperienza diretta delle cose, cioè la parte di conoscenza minore che abbiamo, ovvero con quella mediata da qualcuno, cioè la maggior parte delle cose che conosciamo, quindi mediante il conoscere verità date da altri.
Il cambio di prospettiva permette a Shinji di capire che la realtà che percepiva come brutta e spiacevole era in realtà una produzione del suo animo, un riflesso inconscio del suo odio per se stesso e un qualcosa che si presta a mutare: possono esistere altri Shinji Ikari. Il mondo non è tutto o bianco o nero, ma esso è composto da scale di grigi, da qui l'idea che riuscendo ad apprezzarsi anche la predisposizione ad accettare la realtà sia diversa.

Intermezzo.
Della caratterizzazione si è già parlato, così come della problematica relativa alla figura del padre e della madre. Vediamo più a fondo tali e ulteriori questioni.
Oltre al caso di Shinji, il cui rapporto conflittuale con il padre si configura come un continuo ribellarsi ma al contempo anche desiderarne l'approvazione, che lo porterà a una grande sofferenza, vi è da considerare precipuamente il personaggio di Asuka. Le si costruiscono attorno dei trascorsi piuttosto interessanti e inquietanti. La madre, ormai folle e dissennata, aveva proiettato la figura della figlia su di una bambola, rendendola oggetto del proprio desiderio e conforto, uno strumento del genitore da riempire di false consolazioni. Asuka quindi sviluppa una forte idiosincrasia verso le bambole (da qui il suo odio per Rei), e il loro carattere passivo e docile. Esse diventano tutto ciò che si vuole poiché rispecchiano e assecondano senza protestare i desideri di chi le possiede. La sua forza caratteriale le permette di reagire - "Mamma, io non sono la tua bambola!" - e di cercare di far convergere le attenzioni della madre su di lei, palesandole la sua abilità di pilota. Ciò si dimostra tuttavia insufficiente e la madre, in seguito, si suicida per disperazione assieme alla bambola, credendo di portare con sé la bambina. Tale evento sancisce il decisivo dramma interiore di Asuka e i suoi successivi problemi ad affrontare il mondo. Lei cercherà di essere sempre adeguata a ogni situazione, la migliore, la più in gamba: questo perché in realtà è estremamente fragile ma lo vuole nascondere, e anche per attirare l'attenzione su di sé, per attirare l'affetto e l'approvazione degli altri, per colmare lo scompenso affettivo.
Pilotare l'Evangelion conseguentemente degenera in dipendenza, in un "rapporto di simbiosi", poiché si tratta della sua unica abilità che possa renderla desiderabile e utile. Asuka diventa gelosa quindi di Shinji, che si dimostra migliore di lei, ma ne è anche attratta.

Shinji stesso è afflitto da qualcosa di molto simile, diventa dipendente dall'Evangelion per lo stesso motivo, esso è il medium tra lui e gli altri, ciò che gli permette di avere un'importanza agli occhi di suo padre, unico mezzo per realizzare se stesso e coltivare fiducia in sé. Si può notare nello svilupparsi della trama come speso accada che Shinji acquisti grazie al suo pilotare una falsa sicurezza. E' convinto che se svolge il suo compito tutti lo lodino e si prendano cura di lui, desidera di essere desiderato, cerca la propria felicità nelle altre persone, una felicità fasulla (usufruendo delle medesime espressioni adoperate nella serie).
Purtroppo tale fiducia viene repentinamente messa in crisi dal sopravanzare degli angeli e dall'orrore delle perdite che tale lotta per la sopravvivenza comporta. Come dicevamo, la felicità non è che un attimo effimero nella tempesta.
La figura di Rei è misteriosa, si tratta di un personaggio che non è realmente tale, ma un espediente narrativo, il mistero più grande, che non ha soluzione. Lei è una bambola senza personalità, si adegua a tutto ciò che il suo creatore le impone. Questo stato di sudditanza, ciononostante, è destinato a incrinarsi, poiché Rei stessa cerca di dare un senso alla sua esistenza, di riempire la sua vita con qualcosa che non siano gli ordini impartiti da Gendo. Tuttavia, non è libera di decidere nemmeno della propria morte, e neppure di svincolarsi dal suo stato di soggezione, e ciò le causa grande scoramento e confusione. Si crogiola in dubbi esistenziali e sulla personalità, mirabili le sue poesie, momenti molto toccanti della serie.
Misato è una donna adulta, da tempo ha già compiuto una scelta sul come affrontare la realtà. Ha optato per la fuga, fugge e si inganna con ogni sorta di espediente - sopra accennavamo a Kaji. Anche il suo lavoro e il suo voler essere la tutrice di Shinji, il voler "giocare a fare la famiglia", sono tentativi di distogliere lo sguardo dal problema. Ciò la fa sentire sporca, miserabile, e quindi si frustra e si tortura, svilendo il proprio valore, esattamente come Shinji. E' preda del suo passato che le impone spesse catene dalle quali non riesce a svincolarsi, ma solo fingere che non vi siano. Questa sua ipocrisia e debolezza portano a minare la fiducia che Shinji ripone in lei, inoltre Misato se ne vergogna terribilmente, come si nota negli ultimi episodi, in cui non vuole che a Shinji sia mostrata la vera "se stessa".

La "cerca" comune ai personaggi quindi è chiaramente il "giusto" modo per relazionarsi con l'esterno, sia con la realtà sia con gli individui. Non si può certo sperare che esista una risposta definitiva a questo quesito, anzi, per assurdo tale risulterebbe l'eliminare il concetto stesso di alterità, il che porterebbe però alla fine di tutto. Molto altro ci sarebbe da dire, tuttavia ritengo che voler spingersi oltre implichi molto più spazio da avere a disposizione e un discorso più complesso, non è il caso di rendere questa recensione più lunga di quello che è già.

Freud e un pochino di psicanalisi.
Come già si accennava sopra, i personaggi, nelle ultime puntate, vengono analizzati estesamente, con dovizia di dettagli, seguendo anche nozioni proprie della psicanalisi e senza che tale tentativo si riveli fallace o ridicolo ma, anzi, si riesce a creare un'amalgama coerente e profonda. Un elemento portante di Evangelion è la sessualità, che non deve essere intesa come fanservice, se non raramente. La sessualità è una chiave di volta per comprendere la psiche dei personaggi e le loro reazioni, anzi non la sola dimensione degli impulsi sessuali ma l'intera sfera pulsionale.
Per Freud, come è noto, gli impulsi che muovono dall'Es sono di due tipi, quelli sessuali e quelli di distruzione. Essi vengono poi oggettivati dall'Io, si creano così tutti gli altri tipi di desideri. Eros e Thanatos sono chiaramente due punti cardine della serie. La volontà di distruzione si concreta in due forme: alimentando l'attività del super-io (nell'Io morale, che è il tiranno dell'Io) e contrapponendosi all'affermazione della vita, sostenuta dall'Eros.
I personaggi vacillano continuamente in questa dicotomia: ad esempio l'eccessivo amore di Asuka per la madre, oppure il suo impulso ad autodistruggersi, lo smodato odio di Shinji per il padre, le sue pulsioni verso Asuka e Misato e Rei e il suo colpevolizzarsi. Talvolta i personaggi finiscono per annichilirsi, talaltra si rialzano, ma rimangono sempre in balìa delle loro pulsioni, dei loro desideri inappagati. Il punto maggiormente rilevante che ha a che fare con Freud è proprio quello relativo alla costruzione dell'individuo sociale. Esso in effetti è il fattore più importante tra quelli qui analizzati, ed è il fulcro centrale della serie. Il comune denominatore di queste riflessioni, come abbiamo già detto, è sempre la ricerca della felicità. L'individuo è soggetto a quello che Freud chiama "principio del piacere" il quale stabilisce lo scopo primo dell'esistenza umana. Il problema è che tale programma è in contrasto diretto con il mondo esterno. Il contingente si oppone duramente alla realizzazione della felicità, quasi fosse previsto nella creazione stessa che l'uomo non possa realizzare tale anelito. La realtà si oppone mediante vari ostacoli, e tra di questi il più sentito dall'individuo è sicuramente la sofferenza che proviene dalle relazioni con il prossimo. Infatti per Freud la causa primaria dell'infelicità è la società, o, come direbbe lui, "l'incivilimento". "L'incivilimento è una dura necessità finalizzata ad impedire che gli uomini si sterminino a vicenda. Esso però richiede un prezzo da pagare: l'infelicità di una bestia addomesticata solo superficialmente." La società adempie al ruolo fondamentale di reprimere l'istintualità e l'aggressività dell'uomo, ma questo ha forti ripercussioni sull'individuo, poichè la felicità viene proprio dall'appagamento di questi istinti. Una delle vie con cui si reprimono tali pulsioni è il senso di colpa, che scaturisce dalla disapprovazione sociale. Il senso di colpa porta ad una sorta di "frustrazione civile" per la quale l'individuo può soffrire terribilmente, ed è questo il problema principale di Shinji: sentirsi colpevole per i suoi desideri e, contemporaneamente, affliggersi per l'impossibilità della loro realizzazione. Si afferma perciò una dicotomia nell'animo umano, all'esistenza di un bisogno di socialità si contrappone l'egoismo, il bisogno d'individuazione. E questa è la chiave di lettura di tutta l'opera.
Altri riferimenti, tra i molti, si possono notare nell'episodio venticinque, che esordisce con un dialogo tra Shinji e il suo Super-Io, che lo condanna e frustra per l'azione terribile che ha appena commesso, l'assassinio del suo migliore amico, dell'unica persona che provava per lui affetto. Ciò costituisce la base della sua crisi e delle riflessioni che seguono e di cui si è già parlato.

Nietzsche, o non Nietzsche? Questo è il dilemma.
Voglio affrontare un tema che mi sta a cuore. A mio avviso della filosofia di Nietzsche in Eva c'è davvero poco, e quello che sembrerebbe esserci in realtà non è molto convincente. Vi chiederete allora perché io lo chiami in causa. Mi azzardo poiché, a mio avviso, si tratta di un accostamento che, sebbene abbastanza forzoso e improprio, è in grado mettere in luce degli aspetti interessanti della questione. Inoltre mi è capitato più di una volta di incappare in interpretazioni a favore di un parallelo tra Ubermensch nietzscheano e Shinji, imbastite in modo del tutto sconveniente, poiché le due figure afferiscono a contesti troppo differenti. Tale conclusione è dovuta direttamente alla mia interpretazione della figura di Shinji, e del messaggio di Eva, che ho poc'anzi esposto.
In via preliminare dirò che, anzi, la figura di Shinji è, se proprio si vuole, l'opposto dell'oltre-uomo pensato dal filosofo tedesco. Per affermarlo, però, dobbiamo partire da cosa è l'oltreuomo.
Esso è un qualcosa di astratto, è una meta, la meta cui l'uomo moderno deve portare, ma non che l'uomo moderno può raggiungere. Infatti l'uomo per Nietzsche non è altro che un ponte per il superuomo. Con esso si può identificare (probabilmente) un ideale di uomo che si è liberato dai falsi dèi e dai falsi idoli, dalle credenze maleodoranti e idealiste, dalla morale contro-natura del ressentiment (come gli uomini superiori), ma che, nonostante ciò, riesce a superare il nichilismo, grazie alle sue volontà e attività creatrice. Creando cosa? Creando i propri valori, creando arte, comprendendo la vita nella sua fatalità, apprezzando tanto il dolore quanto il piacere, poiché è da questa dicotomia che scaturisce la vita nella sua essenza. Crea la propria meta. E' un uomo duro, che ascolta i propri istinti, la volontà di potenza, di predominare. Possiede uno spirito quasi "dionisiaco". E' la risposta alla morte di Dio, è la risposta all'errore del fine e dello scopo, alla futilità dell'essere, ma è una risposta del tutto diversa da quella di Eva, anzi piuttosto è il contrario, ed è una risposta a una domanda diversa, poiché il problema in Eva è di natura differente.
Passiamo ora a Shinji: quale soluzione trova al suo dilemma riguardo alla vita? Shinji si ritaglia un piccolo posto per la propria felicità, trova il modo di cercare la giusta distanza a cui stare dagli altri per non ferirsi, non crea dei valori, comprende piuttosto che nella società non si possa vivere se non tramite piccole ipocrisie, mantenendo una maschera. Facendo ciò riesce a stabilire uno "status quo" in grado di permettergli di dare un valore alla sua vita, di apprezzarsi, di emanciparsi, di fuggire dal dolore. Si crea una propria verità, fittizia, per poter vivere. E' un percorso che devono affrontare tutti nella propria adolescenza. La differenza è notevole, l'Ubermensch non tende a un qualcosa di così poco elevato come la felicità e consimili, ogni piacere vuole eternità, e ogni eternità è mortifera stasi.
L'oltre-uomo prende la vita nel suo divenire, nel suo eterno ritorno, pretende la vita in in tutti i suoi aspetti, positivi e negativi, anzi accetta di buon grado questi ultimi. La sua meta è l'elevazione di se stesso a cime inarrivabili: esattamente l'opposto del mantenere lo "status quo" e dell'adattarsi alla società, anzi egli si crogiola nella propria solitudine, ne va fiero.
L'oltre-uomo è in via definitiva un distruttore di confini; Shinji nel suo caso i confini invece li accetta, li riafferma "a sua immagine e somiglianza", implicitamente, dopo averli sondati e analizzati. Shinji è quanto di più umano si possa prospettare, cerca la felicità nell'essere piccolo, nell'accettarsi, nel fuggire il dolore. Inoltre la questione in Eva è più psicologica ed esistenzialista e non prevalentemente etico-morale e metafisica (aspetto che invece appartiene più a un anime come "La rivoluzione di Utena" di Ikuhara). Insistere ulteriormente su tale accostamento risulterebbe sbagliato, e irriguardoso nei confronti di tale personalità, il cui pensiero è di certo immensamente più complesso e profondo di quanto quivi accennato.
La nostra vuole essere solo una retrospettiva che offra un modesto spunto per riflettere.

Preferisco concludere qui la dissertazione, sia perché non è possibile dire tutto in questa sede, sia perché altri aspetti della serie sono già stati sufficientemente messi in evidenza da molti altri scrittori più competenti e valenti del sottoscritto.

Passiamo quindi alla conclusione.
Evangelion non ha la presunzione di essere un compendio di filosofia, né tanto meno di voler dare la risposta ai grandi interrogativi della vita. Evangelion, in una parola, è "introspezione". Il suo messaggio può essere interpretato in modi molto diversi, a seconda dello spettatore e del suo modo di pensare. Questo perché, come è facile constatare dalle considerazioni suesposte, le riflessioni seguono uno schema generale e astratto, impersonale a un certo punto, e quindi ognuno vi si può specchiare in modo diverso o anche non identificare affatto.
Appare però condivisibile al recensore sostenere che questa serie si manifesti come una bellissima metafora dell'uomo moderno, rappresentandone le problematiche e i tormentosi dubbi, che scaturiscono da una presa di coscienza della propria dolorosa condizione. Si rende il tutto in modo coerente e intelligente, l'intera narrazione è coinvolta in ciò, non solo gli ultimi due episodi che sono solo la ciliegina sulla torta.
In particolare si può notare come da metà serie, circa dall'episodio sedici, Evangelion assuma toni sempre più seri e pesanti. E' il tratto discendente della serie, nel senso che negli episodi precedenti si assiste a un innalzarsi della fiducia e dell'ottimismo: Shinji acquista fiducia, in sé e negli altri, in Misato soprattutto, e viene pure elogiato dal padre, finalmente anche lui ne riconosce il valore. Quando tutto sembra andare per il meglio è facile dimenticare la realtà, ed essa si fa ricordare con il fragoroso suono di un martello. La situazione degenera, la serie si fa cupa e tragica, come il destino dell'uomo, salvo poi sollevarsi nel finale. Io ritengo che quest'ultimo sia sì positivo, ma solo fino a un certo punto, poiché ciò che traspare è comunque una concezione nichilista del mondo, e la soluzione che si trova non è una garanzia di liberazione e di felicità, bensì un cercare dentro di sé un adeguamento, un compromesso per poter vivere.

In ultima vorrei aggiungere due righe in proposito a regia, musiche e realizzazione tecnica in generale. Evangelion si presenta come estremamente ben gestito sul lato registico: Anno palesa tutto il suo estro artistico in una produzione davvero soddisfacente e intelligente. Il character design di Yoshiyuki Sadamoto, seppur affilato e leggermente spigoloso, risulta efficace e oltremodo apprezzabile. La realizzazione tecnica è molto buona per l'epoca, però si assiste a un calo progressivo, fino ai due episodi finali, in cui si utilizzano scene riciclate e si percorre la via dello sperimentalismo. Mai coincidenza fu più fortunata, il finale è un piccolo gioiello di sperimentalismo grafico che, voluto o meno, si consacra come uno dei finali più brillanti cui si potesse sperare.
Le musiche di Shiro Sagisu, infine, si rivelano ottime dal lato di esecuzione e adatte alle atmosfere cupe e alienanti: variano da trionfanti fanfare eseguite da orchestra, a brani corali ipnotici e suggestivi, quasi psichedelici, delineando un repertorio poliedrico ed efficace.

Non abbiate timore o remora alcuna quindi ad avvicinarvi a questa serie: a distanza di diversi anni si rivela ancora attuale e interessante. Si tratta di un'opera che può essere goduta a vari livelli di apprezzamento e quindi potrà essere amata anche da coloro che sono in cerca di qualcosa di disimpegnato, tuttavia si aprirà nella sua intimità solo a chi avrà voglia e interesse di mettere un poco di impegno e serietà nella sua visione.