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“Con il nome di selkie si identificano talune creature fantastiche appartenenti alla mitologia irlandese, islandese, e scozzese. Secondo le leggende, le selkie vivono nel mare come foche, ma sono in grado di rimuovere il loro manto per assumere un aspetto umano.
Nelle isole scozzesi si credeva che le foche fossero esseri umani trasmutati, per questo si sospettava che ucciderle portasse sfortuna; le storie più diffuse ruotano intorno a personaggi selkie femminili a cui viene rubato il manto e si trovano quindi costrette a restare sulla terraferma. Il manto delle selkie infatti è l'elemento necessario perché possano trasformarsi nuovamente in animali e tornare in mare. Altre storie narrano di come dei personaggi umani non si accorgano di vivere con una selkie e si risveglino una mattina scoprendo che la loro partner... è sparita.”

Mitologia, tribalismo arcaico, pungente sapore di sale, vento gelido e fiabe ancestrali.
Saoirse è una bambina dolcissima, bella, vivace, imprevedibile e incredibilmente coraggiosa. E proprio oggi compie sei anni! Ma... ancora, strano a dirsi, non ha imparato a parlare. Vive con il padre, il fratello maggiore Ben e il cane Cù, un bestione allegro e giocherellone. Tutti insieme abitano sull’isolotto del faro di uno sperdutissimo paese dell’Irlanda del Nord.
In tale scenario freddo, apparentemente inospitale eppur intriso di una magia che lascia trasparire soltanto parte dell’imminente incanto, scopriremo che questa famiglia ha tragicamente smarrito la madre dei due bambini, una bellissima e rassicurante donna di nome Bronagh, proprio il giorno della nascita di Saoirse: una sparizione misteriosa che col tempo è divenuta, inevitabilmente, un lutto da elaborare e infine accettare, poiché di Bronagh non vi sono state più tracce.
Il prologo de “La canzone del mare” ci mostra - in maniera vaga e confusa - la silenziosa ma sofferta scomparsa della donna, evento che ha contribuito a inasprire il rapporto fra Ben e sua sorella minore, collegando in qualche modo quest’ultima alla mancanza dell’adorata madre. Di fronte a una situazione familiare di difficile gestione, comportamenti incoscienti da parte dei ragazzini e un padre intento ad affogare i ricordi legati alla moglie nei pub sulla costa, la nonna di Ben e Saoirse comprende che ormai è aria di cambiare, e decide prenderli e portarli con sé proprio in città, speranzosa che un drastico cambiamento possa promettere ai piccoli un futuro migliore.
Se agli occhi dei piccoli il cambio di dimora possa inizialmente apparire come un peggioramento del tenore di vita, presto si rivelerà un trampolino di lancio verso una realtà oscura, intrigante e incantata, sospesa a metà fra misticismo e tracce di antiche leggende.

Si tratta di un lungometraggio che ci regala atmosfere uniche, un libro di illustrazioni fra il naif e l’allegorico, una pellicola che snocciola immagini meravigliose, colori brillanti, accesi, ricchi di contrasti studiati e preziosi, e nonostante l’incipit si mostri piuttosto amaro e ci comunichi una situazione poco felice, il celtico connubio di suoni e immagini capace di evolversi minuto dopo minuto stupisce e affascina, ammaliando tramite scenari e melodie estremamente curate e coinvolgenti.
Le inflessioni e le venature di radice prettamente nordeuropea si insinuano ovunque, sin dalle prime battute. È un mondo ispirato a leggende norreno-anglosassoni dalle animazioni spigolose, minimali eppure esaustive, plasmanti un clima inflessibile, gelido, rassicurante e misteriosamente affascinante, con un certo retrogusto d’avventura infantile a cui non possiamo assolutamente sottrarci, poiché solletica i nostri ricordi più lontani, radicati nella nostra testa sin da quando eravamo bambini. Esso li stimola, li desta, e infine li riporta a galla in questo gelido mare familiare e spietato, permettendoci di rimembrare com’era sognare quando il mondo ci appariva più semplice e la fantasia si attestava a nostro impalpabile spirito guida.
Premettendo che anche il doppiaggio italiano risulti di grande qualità, lesti ci si ritrova in una fiaba moderna dai contorni antichi e malinconici, a tratti drammatici; un affresco dai fondali traboccanti di sentimenti che ritrae grandi paesaggi ove cieli sterminati si mangiano la scena, divorando spesso e volentieri i raggi del sole e trascinando lo spettatore nelle terre del Nord Europa, magistralmente trasfigurate attraverso impeccabili allegorie minimali. Apprezziamo così orizzonti nuvolosi ed evocativi, scogliere a picco, pioggia battente, contorni confusi e nebbiosi, spesso acquarellati, idratati da pigmenti che si mischiano su carta e danno vita a un rustico realismo virtualmente increspato, genesi d’atmosfere coinvolgenti, ma che non tentano di nascondere grandi, grigie e lugubri città dell’entroterra, dove Halloween è alle porte e la voglia di viaggiare con la fantasia diviene una necessità dell’anima.
Artisticamente parlando non esistono studi di prospettiva, né grandi virtuosismi di sorta. È un continuo sovrapporsi di ritagli d’immagini e colori, un decoupage di contrasti cromatici talvolta gentili, talvolta aspri e ad ogni modo funzionali alla trama; si ha la costante impressione di sfogliare, come già accennato, un libro illustrato dalle pagine cartonate e consumate, un tomo dall’odore di vecchio ma buono che ci trascinerà in un’avventura fuori dal tempo, arricchita da una colonna sonora elaborata, antica e dolce contemporaneamente, vertiginosa quanto basta per cullarci verso una cultura lontana, mistica, algida e meravigliosamente intrigante (sublimi e indimenticabili i canti in gaelico). In parallelo, i gesti, le emozioni e le reazioni dei personaggi si dimostreranno intensi, forti, improvvisi, ma mai troppo eclatanti, permeati da una misurata freddezza propria degli abitanti delle isole del Nord.

Assistiamo quindi a una rivisitazione della selkie gentilmente ritoccata, senza alcuna intenzione di stravolgere le fondamenta di questo mito, ammantata di un velo di mistero - sia fisico che metaforico -, un velluto baltico pregno d’austero misticismo, ignara dello scorrere del tempo come ogni leggenda radicata, mitologicamente pertinente nel suo semplice occultismo fra fiaba e credenze tramandate di generazione in generazione.
Ne “La canzone del mare” si mischiano credenze popolari e racconti ispirati agli dei della Madre Terra secolare, un’eredità pagana attinta dalle creature del mare e della foresta, focalizzandosi sulla selkie, appunto, un folletto ittico che tutt’oggi popola la fantasia di Scozzesi, Irlandesi, Inglesi e Gallesi, senza escludere i popoli ancora più a Nord. Sono racconti fra il malinconico e il superstizioso, legati alle figure sacre di una religione celtico-sassone lontana un’era e più da quella mediterranea.
L’originalità di questa passa anche per l’assenza di vere e proprie controparti malvagie: chi sembra prendere i contorni di un probabile antagonista, più che cattivo si dimostra rassegnato al proprio destino e schiacciato da tristi eventi passati, in balia di forze ed eventi più potenti della propria volontà, ormai appassita e sconfitta.
Artisticamente anacronistico e per questo ancor più stuzzicante, curioso e calamitante, “La canzone del mare” s’è giocato l’Academy Award nel 2015, perdendo il confronto soltanto con il colosso disneyano “Big Hero 6”, anche se per molti avrebbe meritato la vittoria. La forza evocativa degli ambienti, in netta controcorrente rispetto all’imperante computer grafica che asfissia ogni genere di lavoro contemporaneo, si è dimostrata di una potenza emotiva come non si vedeva da tempo. Ed ecco quindi inquadrature a campo lungo, aperto, scenari più iconografici e di contorno che in cerca di un monotono realismo, veri e propri esercizi estetici capaci di suggerire la libertà d’azione dei giovanissimi protagonisti tramite un’occhiata immediata, prima ancora che gli spazi vengano riempiti dall’azione stessa.
Se è vero che la prima parte scorra pigra e poco incisiva, la seconda metà del film accelera di ritmo e interesse, strizzando l’occhio ai fratelli Grimm e ad Andersen, intrisa di leggende popolari che prendono finalmente vita e ci portano in un mondo fatato dalle sfumature tolkieniane di rara delicatezza; l’andamento non più claudicante ci prende per mano e ci guida verso un finale agrodolce, per nulla scontato e di grande impatto, ma nel contempo decisamente attuale.

La colonna sonora è un vero gioiello, e una doverosa menzione va senza dubbio a “Dùlamàn”, celebre canto popolare originariamente in gaelico: dall’equivoco testo metaforico che sembra parlare di alghe marine e delle profondità dell’oceano, in realtà cela una storia di gelosia, d’amore e di famiglie.
“Ricordami nelle tue storie e nelle tue canzoni”, sarà questo il concetto che ci rimarrà nella testa alla fine della visione, metodo antico e affascinante col quale si sono sempre tramandate la maggior parte delle leggende che tutt’oggi ci affascinano ed emozionano in maniera ipnotizzante e viscerale.
Il segreto per gustarsi questa piccola perla è di non concentrarsi sul ritmo di narrazione, bensì sulle emozioni che ci vengono centellinate di sequenza in sequenza, fino a un finale dove assaggerete felicità e tristezza, in un sol magico boccone.
Catartico, appagante, sincero. Una fiaba da ascoltare davanti a un camino in una fredda notte d’inverno, lasciando che il narratore sia nientemeno che il mare in burrasca.