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Attenzione: la recensione contiene spoiler

Non ho ancora avuto modo di leggere la novel del 2002 e il manga coevo alla trasposizione in anime del 2006, ma devo riconoscere che la serie “Welcome to the N.H.K.” mi ha colpito molto non solo per i contenuti, ma anche per la “forma” espressiva (non mi riferisco al comparto tecnico, sul quale avrei qualcosa da ridire), da intendersi come modalità con la quale gli autori hanno trattato temi tutto sommato “ostici” con una leggerezza struggente e diretta, tipica di quell’ ”approccio” tutto giapponese al contempo realista e poetico di vivere e raccontare la vita.

“Welcome to the N.H.K.” sembra un affresco di una parte di quella della gioventù rimasta ai margini, che vuole illustrarci la “follia della normalità” del modello di vita della società (giapponese e non solo) contrapposta alla “normalità della follia” di coloro che non possono o vogliono vivere nel “sistema”, da intendersi non tanto come modello di società, ma soprattutto come modello di vita, ideali e principi cui ispirarsi posto alla base delle società consumistiche moderne, la cui unica regola sembra essere il raggiungimento del successo.

In un certo senso, e fatte le debite proporzioni, mi ha ricordato un capolavoro della filmografia USA: “American Beauty”. In comune hanno la voglia di documentare, senza “giudicare” o “denunciare” in modo esplicito, uno spaccato della vita/realtà. Se nel film USA viene messa a nudo l'ipocrisia dei falsi miti di progresso raggiunti dal ceto medio americano, in “Welcome to the N.H.K.” vegono rappresentati i risultati deleteri ottenuti dall'esasperazione del sistema giapponese (società, istituzioni, famiglia) e dalla crisi dei valori che propone su un insieme variegato di soggetti che a vario titolo restano “alienati” o diventano “emarginati” per le cause più disparate.

Nel recensire l'anime, non ci si dovrebbe focalizzare solo sulle vicende di Tatsuhiro Sato e il suo dichiarato status di “hikikomori”, perché l'anime offre altre storie paradigmatiche del “disagio” di coloro che non riescono a inserirsi in modo vincente nella società: mi riferisco alla storia di Misaki Nakahara, con la sua affettività ed ego distrutti da una famiglia non più esistente, tanto da attaccarsi inutilmente a un fantomatico progetto di recupero di Tatsuhiro, per sentirsi utile e migliore; di Itomi Kashiwa, con la sua fissazione per i complotti (per giustificare la sua insoddisfazione perenne per quello che è diventata); di Kaoru Yamazaki, conoscente di Tatsuhiro, con la sua sindrome da otaku/Peter Pan contro le convenzioni sociali (salvo poi subirle/accettarle senza tante remore); di Megumi Kobayashi, cinica ex compagna di scuola di Tatsuhiro che non si fa scrupoli del suo “status” per circuirlo, salvo poi rivelare le reali motivazioni sottese alle sue azioni.

I protagonisti dell’anime sembrano in perenne lotta contro la realtà cinica, selettiva ed estremamente crudele della vita, subendola e uscendone sempre sconfitti, al punto che sembrano, a vent’anni, ormai dei totali disillusi, insicuri e pessimisti su tutto ciò che loro malgrado vivono, o meglio, subiscono senza riuscire a reagire come desidererebbero. Tutti loro si vedono costretti a cercare qualcosa di talmente importante e fondamentale che manca alla loro esistenza.

“Welcome to the N.H.K.” è un anime tutt’altro che felice: è intriso di malinconia disincantata, di valori che si sono sgretolati e di un profondo senso di disillusione, che è arrivato da tempo a travolgere i protagonisti della storia.
Vedendo tutte le puntate dell’anime, mi ha richiamato alla memoria il testo di una canzone del 2002 di un noto gruppo rock alternativo milanese che ritengo un piccolo capolavoro che si adatta un po’ al senso ultimo dell’anime: “Quello che non c’è”.
La ricerca della “chiave della felicità” nella canzone sarebbe “la disobbedienza in sé, a quello che non c’è”, riferendosi alla ribellione a tutte quelle cose in cui si crede (o ci viene richiesto di credere) e che poi non si rivelano reali, o anche solo fattibili.

Il dramma dei protagonisti principali consiste nell’accettare l’impossibilità di essere quello che pensano di dover essere, ma anche nel far pace con sé stessi e accettare anche la loro mediocrità, i loro limiti, la loro infelicità e sofferenza. Finché non ci riescono, continuano a cadere nei “sintomi” che vengono mirabilmente descritti nell’animazione: paranoie, complotti, pessimismo cosmico leopardiano (natura o Dio che sono estremamente maligni nei confronti dell’uomo), fuga dalla realtà per vivere in una parallela o “virtuale”, senza rendersi conto che, in fondo, così facendo, si avvitano su loro stessi come descrive mirabilmente la canzone citata: “Curo le foglie, saranno forti/Se riesco ad ignorare che gli alberi son morti”.

Ecco che “Welcome to the N.H.K.” è sia una commedia, perché riesce anche in modo comico a mostrarci la cruda realtà dei drammi esistenziali dei protagonisti (e lo fa con una ironia intelligente e tagliente sotto le mentite spoglie di un’opera “superficiale”), sia una tragedia, perché, in fondo, riesce a farci riflettere sui (e forse immedesimare nei) fallimenti, dolori, negatività dei personaggi, facendoci comprendere che nella vita “you can’t always get what you want”...

Non scriverei pertanto di un’opera di mera denuncia dei mali della società moderna e di assenza di valori e punti di riferimento per un’intera generazione di giovani (se non quello del successo attraverso la competizione più acerrima e senza scrupoli)... Sarebbe riduttivo per un’opera che colpisce (come tante altre che ho potuto leggere e visionare) per l’assenza delle figure di riferimento familiari, per la mancanza di valori trasmessi da quelle persone che dovrebbero essere in primis il sostegno per i ragazzi all’ingresso della vita “adulta” con l’assunzione delle responsabilità che ne conseguono.

Ma allora qual è la soluzione che propone l’anime? Non ne esiste una in particolare universalmente valida per tutti e non tutti pervengono alla soluzione definitiva.

Paradigmatica è la frase di Kaoru Yamazaki, quando saluta per l’ultima volta Tatsuhiro Sato alla stazione, prima di far ritorno dalla famiglia nell’isola di Hokkaido: “Sato, almeno tu non farti sconfiggere”... sembra il testamento di chi, obtorto collo, è costretto ad abdicare dai sogni da adolescente...

Idem per Itomi Kashiwa, la senpai del club di letteratura che rappresenta uno dei tanti punti deboli di Tatsuhiro Sato (portandolo prima quasi al suicidio e poi a proporgli di essere suo amante) e che alla fine si “rassegna” alla sua vita di moglie e di madre, dopo aver giustificato sé stessa e la sua insoddisfazione ai famigerati complotti... lasciando in pace Tatsuhiro Sato.

Per Megumi la soluzione è piuttosto casuale e fortuita, nonché inquietante: la società per cui lavorava viene messa sotto inchiesta (liberandola dai debiti contratti) e il fratello hikikomori per necessità (di alimentarsi) esce di casa e inizia a lavorare... proprio lei che è diversa dagli altri personaggi “fragili” dell’anime si ritrova lo stesso “ai margini”, sebbene abbia seguito le regole del gioco del sistema.

Per Tatsuhiro e Misaki il discorso si fa un po’ più complesso: nel finale dell’anime molto denso e drammatico, trovano una soluzione (o meglio, la trova più Misaki, bisognosa di prendersi cura di Tatsuhiro per sentirsi a sua volta amata) di compromesso che sembra ispirarsi a quanto ho avuto modo di leggere in una intervista di un noto attore romano che ha sintetizzato la sua esistenza: “Ho attraversato il dolore e il dolore mi ha cambiato. Ero più riservato, ma adesso che gli anni passano e la corda brucia da entrambi i lati è come se sentissi un’urgenza e avvertissi la fretta di non perdere tempo e di sbrigarmi: ad incontrare gli altri, a stringere rapporti, a vivere, se capitano, delle storie d’amore... La vita, dicono a Roma, è un mozzico” (Marco Giallini).

È un anime che ritengo un piccolo capolavoro con il giusto mix di lirismo (poco), comicità/ironia/sarcasmo (molto funzionale alla trama, e i monologhi di Tatsuhiro Sato sembrano vagamente ispirati all’umorismo “alla Woody Allen”) e tanto crudo disincanto sulla realtà che toglie ogni speranza consolatoria di un convenzionale happy ending.