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È indubbio che il periodo di maggior prolificità dello Studio Ghibli, fondato nel lontano 1985, sia stato quello a cavallo tra gli anni ’80 e i primi anni ’00. In questo lasso di tempo, i membri dello studio hanno lavorato a più di venti opere, di cui ne hanno curato animazioni e produzione e tantissimi lungometraggi sono stati sfornati, da “Laputa, il Castello nel Cielo” a “La Città Incantata”. Ma è altrettanto fuor di ogni discussione, che l’anno d’oro dello studio d’animazione sia stato il 1988. Un anno indimenticabile per tutti gli appassionati di anime e, ancor di più, dello Studio Ghibli, che ha dato alla luce due autentici capolavori, tanto stupendi, quanto dissimili tra di loro. Miyazaki lavora al famosissimo “Il mio vicino Totoro”, film largamente apprezzato dalla critica e da cui il sensei trarrà ispirazione, per creare il logo dello Studio Ghibli. Un lungometraggio in cui regnano l’allegria e la spensieratezza, infuse nello spettatore per tramite di quella componente fantasy, che sarà il leitmotiv di gran parte delle opere successive del maestro. Contemporaneamente, Isao Takahata, cofondatore insieme a Miyazaki dello studio, mette mano all’altra opera maestra, “Una tomba per le lucciole”. Un film struggente, in cui a dominare è un forte realismo, dettato dalla necessità di tramandare alle generazioni successive gli orrori della guerra, affinché non venissero mai più ripetuti. Un lungometraggio che ha i connotati della fonte storica, in cui il realismo finisce, obbligatoriamente, per diventare pessimismo, fino a lasciare un vuoto incolmabile nello spettatore.

Giugno 1945. Due mesi prima del disastro di Hiroshima e Nagasaki. Nel cielo sopra il Giappone, scorrazzano liberamente i bombardieri B-25 americani, come roboanti angeli, portatori di morte piuttosto che di pace, i quali preannunciano l’arrivo di una catastrofe senza precedenti nella storia del mondo. Diverse piogge di bombe incendiarie divorano la città di Kobe, seminando il terrore fra la popolazione civile e costringendo le persone a cercare rifugio altrove, fuorché nelle proprie dimore, costrette inevitabilmente al crollo. Tra i tanti coinvolti negli orrori della guerra, ci sono il quattordicenne Seita e la sorellina di quattro anni Setsuke. Il primo, dopo aver assistito impotente alla morte di sua madre, fra le atroci sofferenze dovute alle ustioni, e avendo perso anche il padre, ufficiale di marina caduto in un conflitto bellico senza più speranze di vittoria, è chiamato a prendersi cura della sua sorellina, in un paese ormai in ginocchio e allo stremo delle forze.

Attenzione: la recensione contiene spoiler!

Obbligato dagli atroci rivolgimenti della guerra, che in un colpo solo gli hanno portato via entrambi i genitori, Seita, un ragazzo di appena quattordici anni, si trova a dover badare, tutto da solo, ai bisogni della piccola sorellina, oltre che ai suoi. Armato di tanta pazienza e del denaro che il padre aveva gelosamente custodito in banca, Seita, insieme alla sorella, cerca di sopravvivere alla bell’e meglio, nella speranza che ad attenderli ci sia un futuro migliore. Ma qui, in questa speranza “mal riposta”, si viene a consumare il “delitto” dell’opera. Film come “Gen di Hiroshima” o “L’isola di Giovanni”, che raccontano, alla pari di “Una tomba per le lucciole”, le tragiche conseguenze del conflitto mondiale sui giapponesi, dopo una serie di pianti, danno comunque allo spettatore un motivo per sorridere. Il pessimismo permea questi lungometraggi, le cui storie sono un vero e proprio pugno nello stomaco, ma alla fine è costretto a lasciare il posto alla speranza. La speranza affinché tragedie del genere non capitino mai più. La speranza per un domani migliore. Quella stessa speranza, che sembra non avere posto in “Una tomba per le lucciole”. Takahata sbatte in faccia allo spettatore l’orrore della guerra e il danno che quest’ultima ha perpetrato nei confronti di intere famiglie. Il film è reale, non solo perché ha come sfondo il momento più tragico della storia giapponese, ma perché racconta una storia, che non faccio fatica a reputare vera. Seppur in alcuni passaggi manchi di verosimiglianza, trovo altamente probabilmente che, nel 1945, siano esistiti realmente un fratello e una sorella, orfani dei propri genitori, che hanno lottato duramente per sopravvivere, giorno dopo giorno, senza mai perdere il sorriso e sperando in un futuro migliore. Ma questa, in Takahata, è soltanto una vana speranza, destinata ad infrangersi sul muro della realtà. Ancor prima di poter vedere la fine della guerra, i due fratelli muoiono. E a commuovere non è tanto la loro morte, di cui si parla già ad inizio film, bensì la modalità in cui avviene e il pensare che migliaia di bambini giapponesi, hanno realmente incontrato la morte, nei modi più atroci possibili. Bambini a cui è stato sottratto il diritto di sorridere e sognare in grande per il futuro. Quel futuro, a cui non hanno mai potuto assistere.

Contenutisticamente parlando, è veramente uno schiaffo in faccia e, se siete un tantino empatici, alla fine non potrete che ritrovarvi in un lago di lacrime. Straziante come poche altre cose al mondo. Da un punto di vista meramente tecnico, il film è invecchiato parecchio bene. Le ambientazioni, nel loro realismo, sono tetre e cupe, ma fenomenali. Il doppiaggio italiano è ottimo. E, si intenda, per doppiaggio ottimo, intendo il primo, di cui ho potuto fruire su Youtube. Sia benedetto colui che lo ha pubblicato nella sua veste originale. Il mondo intero, l’Italia intera, specialmente chi non sopporta i dialoghi di Cannarsi, ti ringrazia. Musicalmente, infine, è stato svolto il solito ottimo lavoro dello Studio Ghibli e di un Michio Mamiya in grandissima forma.

Per concludere, questo è un film da recuperare assolutamente, vista anche la sua facile reperibilità. Mi sento però di fare due raccomandazioni. La prima, è quella di guardare il film predisposti nella giusta maniera. Cioè, aspettatevi di piangere e di sentire dolore nel profondo dell’animo. Di conseguenza, la seconda raccomandazione, è quella di munirvi di fazzolettini, perché sicuramente vi torneranno utili.