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“Quando c’era Marnie” è un lungometraggio del 2014, uno dei tanti che porta il nome dell’ormai celeberrimo Studio Ghibli. Tratto dal soggetto originale di Joan Gale Robinson e affidato alla regia di Hiromasa Yonebayashi, curatore dei disegni chiave di molti capolavori Ghibli, tra i quali “La città Incantata” e “Il Castello Errante di Howl”. Questo film era a me sconosciuto fino a qualche tempo fa e tale sarebbe rimasto, se non fossi capitato, per puro caso, su un video YouTube di Dario Moccia, celebre divulgatore della cultura nipponica in Italia e grande appassionato di Ghibli, come il sottoscritto. Le parole tanto lusinghiere da lui spese per un film a me ignoto hanno stuzzicato la mia curiosità e invogliato ad approcciarmi a un’opera nuova, che ero certo mi sarebbe piaciuta.

La protagonista della storia è Anna, una ragazzina di soli dodici anni, rimasta orfana di entrambi i suoi genitori e che, dopo una lunga serie di dispute familiari, è finita a vivere con gli zii, che se ne prendono cura tanto amorevolmente. Anna, un tempo, almeno questo è ciò che si racconta all’inizio dell’opera, era una ragazzina solare e vivace, che sembrava andare d’accordo con tutti e si godeva gli anni spensierati della fanciullezza. All’inizio della storia, però, la ragazza che si pone dinanzi ai nostri occhi appare completamente diversa: timida, solitaria e scontrosa con chi cerca di aiutarla. Qualcosa deve esserle capitato e la mamma adottiva non si dà tregua, nel tentativo vano di strapparle almeno un sorriso, con la speranza che la gioia di un tempo possa riaffiorare sul suo volto. Tuttavia, un giorno, Anna viene colpita da uno dei suoi soliti attacchi d’asma e, su consiglio del dottore, se ne va a stare per qualche settimana dagli zii, in una tranquilla cittadina vicino al mare, in Hokkaido. Qui, Anna ha la possibilità di coltivare la sua passione per il disegno e visitare posti a lei sconosciuti, che sembrano essere usciti da una fiaba. Tra questi, una casa all’apparenza abbandonata e in cui vive una ragazza, su per giù della sua stessa età, Marnie. Quest’ultima, non si fa fatica a capirlo, nasconde un segreto, che, in un modo o in un altro, riuscirà a venire a galla.

“Quando c’era Marnie” è un film che ho apprezzato particolarmente, cosa che potrebbe apparire ovvia, data la mia familiarità con lo Studio Ghibli. Il film segue un andamento lento, tipico delle opere più profonde e psicologiche. All’introduzione, necessaria per comprendere il contesto e conoscere i personaggi, segue una parte centrale corposa, sulla quale mi sento di esprimere un parere contrastante con sé stesso. Bella e, con il senno di poi, fondamentale per il finale del film, ma a tratti troppo lenta e soprattutto vaga. Lo si capisce subito che qualcosa non va, che in questa storia c’è un mistero da svelare, ma cosa? Questo rappresenta pregio e difetto, contemporaneamente. Ti tiene sulle spine e ti porta a voler ardentemente sapere come andrà a finire questa storia, ma allo stesso tempo rischia di annoiare, e non dubito sia stato così per gli spettatori poco avvezzi a questo genere di opere. Nonostante ciò, come dicevo poc’anzi, tutto il filone mezzano serve per condurci, mano nella mano, al tanto agognato finale, che rappresenta indubbiamente il momento più alto del film. Tutti i nodi vengono al pettine, le nuvole si diradano definitivamente e quella storia che fino a un attimo prima avresti definito inconcludente si trasforma in una piccola perla. Emozionante e dolce, riesce a toccare le corde giuste per commuovere lo spettatore, e lo fa con una storia, a mio parere, tutt’altro che banale, in cui il passato e il presente si intrecciano, diventando un tutt’uno. Il finale è il vero carico da novanta, che assume un’aura mistica, grazie all’accompagnamento della chitarra e della voce stupenda di Priscilla Ahn e la sua “Fine On The Outside”. Le due protagoniste così diverse, ma allo stesso tempo così simili, sembrano completarsi perfettamente, come le due metà della mela di Platone. Diventano necessarie l’una per l’altra e il loro sodalizio, tanto puro e sincero, stringe il cuore dello spettatore in una morsa. Molto ben scritti anche i personaggi di contorno, specialmente gli zii di Hokkaido, la cui aria familiare ispira una genuina simpatia nei loro confronti. Semplice, ma efficace il character design di Masashi Andō, ma d’altronde stiamo parlando di un altro fenomeno, collaboratore storico di Miyazaki e Takahata. Stupendi i fondali, raffiguranti perlopiù il mare e la campagna. Il verde e il blu dominano le scene del film e riescono a catturare l’attenzione dello spettatore, che si sentirà completamente immerso all’interno di questo paesaggio bucolico, così vicino, ma allo stesso tempo così distante.

Insomma, come c’era da aspettarsi, mi sono ritrovato dinanzi all’ennesimo ottimo lavoro dello Studio Ghibli, che riesce ad ammodernare un romanzo del 1967 e a farlo proprio. La deduzione è una sola e scioccante: Miyazaki e Takahata sono due fuoriclasse, ma la baracca, nel corso degli anni, ha funzionato anche senza di loro, e questo, a mio modesto parere, è un grandissimo risultato.