Recensione
Paranoia Agent
10.0/10
Recensione di Dreamweaver99
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Può un anime surreale e ultra-colorato essere una critica perenne alle illusioni e alla fuga dalla realtà? Un’opera appartenente al medium artistico della giovinezza per eccellenza, in un nuovo millennio dove il digitale ha diffuso ulteriormente l’immersione in mondi privati, fuori dalla socialità?
Dall’altro lato, in arte come nella vita, un nuovo status quo, una nuova realtà sociale porta anche insoddisfazione, e da questa sorgono tentativi di reagire con una spinta contraria. Ed è da queste dinamiche che sono sorti anime opposti alla tipica idea di consolazione evasiva, con tempi rapidi e dirompenti, che non danno il tempo di riflettere.
Uno di questi prodotti in controtendenza è “Paranoia Agent”, un anime che, come anticipato, sicuramente non si focalizza sul dare dignità artistica all’immaginazione (se non più sottilmente), a differenza di opere del fantastico in senso stretto come “Neon Genesis Evangelion” o “Puella Magi Madoka Magica”.
Piuttosto che seguire questa linea o il suo diretto opposto, l’unica serie del grande Satoshi Kon fa del conflitto stesso tra realtà e finzione il suo fulcro, visto nelle sue conseguenze sociali e nella psicologia dei personaggi, attraverso una trama noir che si impadronisce dell’immaginario e delle convenzioni di più generi narrativi, per poter comunicare al meglio i suoi messaggi.
Tutto parte da un’indagine circa un ragazzino detto Shonen Bat, che picchia con una mazza da baseball persone stressate e angosciate, che desiderano perdere la memoria, avere giorni liberi dal lavoro, cambiare in qualche maniera la loro vita, e investigano due poliziotti: Maniwa e Ikari, poliziotto “buono” e poliziotto “cattivo”, metodo deduttivo e metodo induttivo, giovinezza e maturità.
Questa contrapposizione tra i due poliziotti si ramifica anche all’interno degli altri personaggi (cioè le vittime e le comparse) e della vicenda stessa.
Ci sono false piste, casi di giustizialismo, azioni irrazionali, questo smuove insomma l’idea del metodo di investigazione classico, degli ideali di rigore scientifico, ordine e comprensibilità sono destabilizzati e caduti, con una struttura che sembra emulare questa continua caduta di certezze nel suo dipanarsi, che gioca tra precisione geometrica e falsi finali, bruschi cambi di rotta.
Ne è l’esempio più lampante la struttura della serie, che fino al settimo episodio dispiega le varie tessere del puzzle attraverso la caratterizzazione delle vittime di Shonen Bat, che hanno ognuna il suo mestiere, un dissidio con sé stesse o con l’ambiente (anche se lo stesso dissidio interiore viene sempre reso come una conseguenza dell’ambiente, piuttosto che un qualcosa di isolato).
Dopo quei sette episodi di movimento dell’intreccio in senso stretto, la storia si espande verso personaggi più evanescenti, che servono a farsi voce di una condizione più sociale che intima, come se dall’indagine ci spostassimo a come il fattaccio viene interpretato da persone qualunque.
Questa scelta è coraggiosa nello spezzare il ritmo e l’immersione in personaggi conosciuti (che ormai avevano già dato) ed eccelle nel dipingere l’idea di una mitologia moderna della cronaca nera, incornicia l’anima cupa della serie stessa e le sue peculiarità, che guardano sia al Giappone con le sue peculiarità che al mondo capitalistico e industrializzato in generale, di cui la nazione scelta si fa un’iperbole tristemente reale, in quanto sede di grandi business mondiali e di una cultura predisposta all'abnegazione più totale verso il lavoro, fino all'auto-alienazione e il sacrificio del proprio lato umano.
In altre parole, l’investigazione, benché non priva di colpi di scena, è più un pretesto per guardare alla società come un saggio di psicologia delle masse, è un modo (come in ogni grande noir che si rispetti) di scoprire gli scheletri nell’armadio dei personaggi coinvolti (anche minori) che formano l’atmosfera psicologica in cui sono immersi i tanti protagonisti sviscerati in rapida successione quasi come in una serie antologica.
I fil rouge che uniscono tutti questi episodi si evincono solo alla fine di un episodio o addirittura negli ultimi episodi della serie stessa, aumentando il senso di sorpresa, di inafferrabilità e di confusione, così come nello stato d’animo dei personaggi.
L’idea di chiamare il picchiatore “Shonen Bat” (cioè giovane battitore) sembra beffarda, se pensiamo al suo maggiore interesse: un videogioco fantasy simile alle atmosfere di anime e manga di target shonen (cioè per adolescenti maschi), che vediamo concretizzarsi per alcuni momenti davanti ai nostri occhi, così come la paranoia che diventa deformazione fisica e allucinata delle persone intorno a uno dei protagonisti, o il mondo evasivo di Ikari, che è un’evocazione di un Giappone stereotipato, frugale e bidimensionale, contraddistinto da una calma zen ma monotono.
“Paranoia Agent” è, insomma, un’opera che ha sia dei micro-stili “interiori” creati su misura per i personaggi che una linea “globale” caratteristica del disegno e dell’estetica generale, come la splendida colonna sonora elettronica di Susumu Hirasawa. Gli originali disegni dall’aspetto leggermente morboso e grottesco, spesso anche quando sono personaggi positivi, sembrano più o meno semplici e realistici come in qualsiasi altro anime, ma pur sempre rappresentati come maschere in pelle, quasi come in un quadro di Munch o di Ensor, e Kon non teme di renderli anche brutti esteticamente, pur di tradurre con più accuratezza nella foggia dei tratti somatici un temperamento, una visione del mondo.
Con lungimiranza, l’anime non menziona questi mondi interiori da lontano, ma piuttosto ci immerge nel loro immaginario, lo fa proprio attraverso alcuni passaggi in cui l’immaginazione e la realtà si confondono con una spontaneità che non porta confusione gratuita, nonostante i momenti immaginifici non siano sempre pensati sul momento dai personaggi, ma sono anche la descrizione dell’essenza di questi personaggi, una sorta di lettura onnisciente ed esistenziale con la quale Satoshi Kon crea un gioco con lo spettatore, gli chiede contemporaneamente di immergersi e di decodificare quello che sta guardando; è soprattutto da questo che deriva la complessità della serie.
Come anticipato all’inizio, in “Paranoia Agent” viene criticata l’evasione dalla realtà, eppure questi mondi sono abbastanza complessi, pittoreschi e stranianti da essere seducenti per lo spettatore più di quanto lo siano spesso per i personaggi stessi. I mondi interiori sono insomma il fulcro della sperimentazione formale e dei virtuosismi d’animazione della serie, generando quindi una contraddizione solo apparente con il messaggio dell'opera.
Infatti, l’occhio dei personaggi e dello spettatore vengono messi in contrapposizione, il primo vive all’interno nell’immaginazione, ma ne trae poco a livello mentale, noi però vediamo tutto questo con distacco e in prospettive differenti, facendo confronti anche istintivi con il resto dei contenuti della serie e con noi stessi.
L’occhio di “Paranoia Agent” è, insomma, un occhio di satira mimetica che, invece di ergersi su un pulpito distante rispetto al soggetto della critica lasciato all’immaginazione del lettore, lo rende parte della storia per descriverlo così com’è, in modo da mostrare come sia in grado di suscitare sdegno da solo senza tagli, fintanto che viene visto in relazione al contesto sociale in cui ha modo di nuocere.
Questo messaggio non è però una sterile critica verso il valore artistico del fantastico (com’è possibile vedere ad esempio da “Paprika” dello stesso Kon che è di fantascienza e ha tutt’altro messaggio), ma è più una critica a come venga sfruttato dai mass media, fino ad alienare le persone influenzabili o con problemi psicologici. Per paradosso corrobora la potenza dell’immaginazione, perché riflette su quanto sia in grado di cambiare il mondo concreto intorno a noi attraverso menzogne che si radicano nella collettività, modi di mentire a sé stessi; anche l’arte se mal utilizzata può diventare un mezzo per alienare piuttosto che per migliorare i fruitori.
Come tutti i più grandi capolavori da pantheon delle varie arti, “Paranoia Agent” riesce a trascendere il proprio medium, per diventare parte di un apparato simbolico profondo della cultura umana. Da un lato è, infatti, una massimizzazione del potenziale creativo del proprio medium da serie animata, perché scuote il rapporto con lo spettatore, gli approcci standard e i generi. La struttura seriale viene scelta e usata da Kon per sperimentare qualcosa di nuovo attraverso il formato a episodi, che concede una maggiore poliedricità rispetto al lungometraggio con una narrazione ferrea, che permette a questa mutevolezza di diventare più esauriente e ricca di differenze interne, senza essere puro esercizio di stile.
Ma, oltre a questo, questa pietra miliare di Satoshi Kon mette in dialogo i generi, per dare la sensazione di complessità a tratti vertiginosa e versatile della realtà e del suo inconscio collettivo, cosa a dir poco inconsueta sia nelle opere di fantasia che strettamente realistiche, sia animate che non, come a trasportare il discorso dalle diverse fasce di persone alle stesse differenze che le contraddistinguono: tutto viene visto nella maniera impietosa e distaccata di chi vuole andare oltre, generando un’allucinante bugia più vera della realtà.
Dall’altro lato, in arte come nella vita, un nuovo status quo, una nuova realtà sociale porta anche insoddisfazione, e da questa sorgono tentativi di reagire con una spinta contraria. Ed è da queste dinamiche che sono sorti anime opposti alla tipica idea di consolazione evasiva, con tempi rapidi e dirompenti, che non danno il tempo di riflettere.
Uno di questi prodotti in controtendenza è “Paranoia Agent”, un anime che, come anticipato, sicuramente non si focalizza sul dare dignità artistica all’immaginazione (se non più sottilmente), a differenza di opere del fantastico in senso stretto come “Neon Genesis Evangelion” o “Puella Magi Madoka Magica”.
Piuttosto che seguire questa linea o il suo diretto opposto, l’unica serie del grande Satoshi Kon fa del conflitto stesso tra realtà e finzione il suo fulcro, visto nelle sue conseguenze sociali e nella psicologia dei personaggi, attraverso una trama noir che si impadronisce dell’immaginario e delle convenzioni di più generi narrativi, per poter comunicare al meglio i suoi messaggi.
Tutto parte da un’indagine circa un ragazzino detto Shonen Bat, che picchia con una mazza da baseball persone stressate e angosciate, che desiderano perdere la memoria, avere giorni liberi dal lavoro, cambiare in qualche maniera la loro vita, e investigano due poliziotti: Maniwa e Ikari, poliziotto “buono” e poliziotto “cattivo”, metodo deduttivo e metodo induttivo, giovinezza e maturità.
Questa contrapposizione tra i due poliziotti si ramifica anche all’interno degli altri personaggi (cioè le vittime e le comparse) e della vicenda stessa.
Ci sono false piste, casi di giustizialismo, azioni irrazionali, questo smuove insomma l’idea del metodo di investigazione classico, degli ideali di rigore scientifico, ordine e comprensibilità sono destabilizzati e caduti, con una struttura che sembra emulare questa continua caduta di certezze nel suo dipanarsi, che gioca tra precisione geometrica e falsi finali, bruschi cambi di rotta.
Ne è l’esempio più lampante la struttura della serie, che fino al settimo episodio dispiega le varie tessere del puzzle attraverso la caratterizzazione delle vittime di Shonen Bat, che hanno ognuna il suo mestiere, un dissidio con sé stesse o con l’ambiente (anche se lo stesso dissidio interiore viene sempre reso come una conseguenza dell’ambiente, piuttosto che un qualcosa di isolato).
Dopo quei sette episodi di movimento dell’intreccio in senso stretto, la storia si espande verso personaggi più evanescenti, che servono a farsi voce di una condizione più sociale che intima, come se dall’indagine ci spostassimo a come il fattaccio viene interpretato da persone qualunque.
Questa scelta è coraggiosa nello spezzare il ritmo e l’immersione in personaggi conosciuti (che ormai avevano già dato) ed eccelle nel dipingere l’idea di una mitologia moderna della cronaca nera, incornicia l’anima cupa della serie stessa e le sue peculiarità, che guardano sia al Giappone con le sue peculiarità che al mondo capitalistico e industrializzato in generale, di cui la nazione scelta si fa un’iperbole tristemente reale, in quanto sede di grandi business mondiali e di una cultura predisposta all'abnegazione più totale verso il lavoro, fino all'auto-alienazione e il sacrificio del proprio lato umano.
In altre parole, l’investigazione, benché non priva di colpi di scena, è più un pretesto per guardare alla società come un saggio di psicologia delle masse, è un modo (come in ogni grande noir che si rispetti) di scoprire gli scheletri nell’armadio dei personaggi coinvolti (anche minori) che formano l’atmosfera psicologica in cui sono immersi i tanti protagonisti sviscerati in rapida successione quasi come in una serie antologica.
I fil rouge che uniscono tutti questi episodi si evincono solo alla fine di un episodio o addirittura negli ultimi episodi della serie stessa, aumentando il senso di sorpresa, di inafferrabilità e di confusione, così come nello stato d’animo dei personaggi.
L’idea di chiamare il picchiatore “Shonen Bat” (cioè giovane battitore) sembra beffarda, se pensiamo al suo maggiore interesse: un videogioco fantasy simile alle atmosfere di anime e manga di target shonen (cioè per adolescenti maschi), che vediamo concretizzarsi per alcuni momenti davanti ai nostri occhi, così come la paranoia che diventa deformazione fisica e allucinata delle persone intorno a uno dei protagonisti, o il mondo evasivo di Ikari, che è un’evocazione di un Giappone stereotipato, frugale e bidimensionale, contraddistinto da una calma zen ma monotono.
“Paranoia Agent” è, insomma, un’opera che ha sia dei micro-stili “interiori” creati su misura per i personaggi che una linea “globale” caratteristica del disegno e dell’estetica generale, come la splendida colonna sonora elettronica di Susumu Hirasawa. Gli originali disegni dall’aspetto leggermente morboso e grottesco, spesso anche quando sono personaggi positivi, sembrano più o meno semplici e realistici come in qualsiasi altro anime, ma pur sempre rappresentati come maschere in pelle, quasi come in un quadro di Munch o di Ensor, e Kon non teme di renderli anche brutti esteticamente, pur di tradurre con più accuratezza nella foggia dei tratti somatici un temperamento, una visione del mondo.
Con lungimiranza, l’anime non menziona questi mondi interiori da lontano, ma piuttosto ci immerge nel loro immaginario, lo fa proprio attraverso alcuni passaggi in cui l’immaginazione e la realtà si confondono con una spontaneità che non porta confusione gratuita, nonostante i momenti immaginifici non siano sempre pensati sul momento dai personaggi, ma sono anche la descrizione dell’essenza di questi personaggi, una sorta di lettura onnisciente ed esistenziale con la quale Satoshi Kon crea un gioco con lo spettatore, gli chiede contemporaneamente di immergersi e di decodificare quello che sta guardando; è soprattutto da questo che deriva la complessità della serie.
Come anticipato all’inizio, in “Paranoia Agent” viene criticata l’evasione dalla realtà, eppure questi mondi sono abbastanza complessi, pittoreschi e stranianti da essere seducenti per lo spettatore più di quanto lo siano spesso per i personaggi stessi. I mondi interiori sono insomma il fulcro della sperimentazione formale e dei virtuosismi d’animazione della serie, generando quindi una contraddizione solo apparente con il messaggio dell'opera.
Infatti, l’occhio dei personaggi e dello spettatore vengono messi in contrapposizione, il primo vive all’interno nell’immaginazione, ma ne trae poco a livello mentale, noi però vediamo tutto questo con distacco e in prospettive differenti, facendo confronti anche istintivi con il resto dei contenuti della serie e con noi stessi.
L’occhio di “Paranoia Agent” è, insomma, un occhio di satira mimetica che, invece di ergersi su un pulpito distante rispetto al soggetto della critica lasciato all’immaginazione del lettore, lo rende parte della storia per descriverlo così com’è, in modo da mostrare come sia in grado di suscitare sdegno da solo senza tagli, fintanto che viene visto in relazione al contesto sociale in cui ha modo di nuocere.
Questo messaggio non è però una sterile critica verso il valore artistico del fantastico (com’è possibile vedere ad esempio da “Paprika” dello stesso Kon che è di fantascienza e ha tutt’altro messaggio), ma è più una critica a come venga sfruttato dai mass media, fino ad alienare le persone influenzabili o con problemi psicologici. Per paradosso corrobora la potenza dell’immaginazione, perché riflette su quanto sia in grado di cambiare il mondo concreto intorno a noi attraverso menzogne che si radicano nella collettività, modi di mentire a sé stessi; anche l’arte se mal utilizzata può diventare un mezzo per alienare piuttosto che per migliorare i fruitori.
Come tutti i più grandi capolavori da pantheon delle varie arti, “Paranoia Agent” riesce a trascendere il proprio medium, per diventare parte di un apparato simbolico profondo della cultura umana. Da un lato è, infatti, una massimizzazione del potenziale creativo del proprio medium da serie animata, perché scuote il rapporto con lo spettatore, gli approcci standard e i generi. La struttura seriale viene scelta e usata da Kon per sperimentare qualcosa di nuovo attraverso il formato a episodi, che concede una maggiore poliedricità rispetto al lungometraggio con una narrazione ferrea, che permette a questa mutevolezza di diventare più esauriente e ricca di differenze interne, senza essere puro esercizio di stile.
Ma, oltre a questo, questa pietra miliare di Satoshi Kon mette in dialogo i generi, per dare la sensazione di complessità a tratti vertiginosa e versatile della realtà e del suo inconscio collettivo, cosa a dir poco inconsueta sia nelle opere di fantasia che strettamente realistiche, sia animate che non, come a trasportare il discorso dalle diverse fasce di persone alle stesse differenze che le contraddistinguono: tutto viene visto nella maniera impietosa e distaccata di chi vuole andare oltre, generando un’allucinante bugia più vera della realtà.