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Attenzione: la recensione contiene spoiler

“La storia della principessa splendente” è l’ultimo film creato dal regista Isao Takahata (morto nel 2018): è un film interessante per alcuni versi ma con alcune criticità.
Per lo studio Ghibli è stata una faticaccia, ci sono voluti otto anni di lavoro per realizzarlo e, si dice, trentacinque milioni di dollari, forse neppure recuperati nel primo anno di distribuzione, nonostante la nomination agli Oscar. Takahata, conosciuto per essere un perfezionista, era però abituato ai flop di botteghino. Era successo già con “Una tomba per le lucciole”, dove oltre le perdite si guadagnò l’odio dei genitori che avevano visto i loro bambini scioccati per quel film. Anche questo film, nonostante il parere di adulti entusiasti, è adatto secondo me ai bambini di oggi: la storia è lenta, e sebbene le decisioni stilistiche di Takahata la facciano sembrare una favola, di fatto mi sa di veramente povero - poveri i fondali e brutto il character design, sebbene qualcheduno possa definirli (a torto) ricercati.

La storia è tratta da un classico della letteratura giapponese, “La storia del tagliatore di bambù”, dove un anziano tagliatore di bambù vede spuntare un bambù che contiene un essere vivente: la principessa che dà il nome al film. Cresce rapidamente questa fanciulla e si diverte in montagna con i ragazzi poveri della zona, che la chiamano ‘gemma di bambù’. Arrivati a un certo punto, il tagliatore trova dell’oro e si trasferisce in città, educandola come una nobildonna: quanta tristezza per lei che era abituata alla libertà questa nuova vita di obblighi! Suo padre adottivo la vuole dare in sposa a un nobile, e ben cinque si dichiarano, ma alla fine la “desiderano” perché sanno che è bella, ma non l’hanno mai vista né conosciuta.
Come in “Genji Monogatari”, le persone qui si innamorano per un nonnulla: infatti, non potendo vedere le ragazze prima del matrimonio o del momento dell’atto sessuale, possono solo immaginarsi che una dama sia bella perché ha una bella voce o suona bene uno strumento o ha una bella calligrafia... Questi cortigiani si dimostrano in buona fine parolai e falsi, ma non è migliore il mikado (l’imperatore di origine divina), il quale la brama come una proprietà e non una persona. Lei vuole evadere, ma diventa sempre più difficile, la fine è desolante: un Buddha, invece di darle la felicità riportandola a Sutemaru e ad una vita agreste, povera ma libera, la riporta sulla Luna, dandole l’oblio e facendola fuggire da un padre che lei ama, ma che non la capisce e la tratta anche lui con amore ma non con rispetto.

Ho trovato molto suggestive le musiche del sempre bravo Joe Hisaishi, ma non mi è piaciuto che le canzoni, cantate dai personaggi durante il film, non abbiano avuto i sottotitoli, in quanto ciò mi ha impedito di comprenderne l’impatto sugli stessi personaggi.

Credo inoltre che, per essere stato in lavorazione per otto anni, il risultato sia mediocre e che Takahata sia sopravvalutato, in quanto non riesce a darsi dei limiti di professionalità: il fatto di criticare in continuazione ciò che è fatto dagli altri infatti non sempre è indice di genio, ma a volte può essere un grave limite.