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La Storia ritorna sempre e anche <i>Saint Seiya</i> ripete sempre se stesso, d’altronde la ciclicità della guerra sacra contro Hades sembra fatta apposta per quello. <b>The Lost Canvas</b> è figlio di ciò e della pratica – in auge da eoni, ogni volta comoda ma a elevatissimo rischioso fail – di proporre, in maniera più o meno esplicita, storie vecchie per nuovi anime. Con la sua manina al soggetto, un <i>Kurumada</i> cronicamente incapace di reinventare non dico se stesso, ma nemmeno un grano dei suoi <i>loci</i>, ricostruisce l’ennesima griglia standard nella quale a priori è limitata qualsiasi creatività non riguardi la parte tecnica o la caratterizzazione dei personaggi.

Sugli ultimi due punti vanno quindi ricercati i possibili motivi d’interesse per la visione della serie OAV, a meno di non essere idolatri del mangaka e dei cosmi in copia partoriti dalla sua “ispirazione”. In tal caso la prima “profanazione” è relativa al chara design, già stravolto dalla <i>Teshirogi</i> nel manga e qui ancora più distante dai “canoni classici” dopo l’ulteriore ritocco datogli da <i>Shunichiro Yoshihara</i>. La rivisitazione dello stile storico di <i>Saint Seiya</i>, sia esso quello del Kuru o quello di <i>Araki</i>, a seconda dei medium presi in esame, nonostante abbia fatto storcere il naso ai puristi, vista con un occhio più critico e meno fanatico non dispiace per nulla. La figurazione armoniosa, elegante del <b>Lost Canvas</b> è modellata con proporzioni ottime; magari è un po’ troppo “prosperosa” sul versante femminile, ma appare ben diversificata su quello maschile.

Più moderno non vuol dire per forza peggiore, moe o quant’altro, spesso significa solo diverso, e anzi in questo caso, senza discussioni, c’è un aspetto appannaggio del chara della serie OAV. Le armature d’oro sembrano davvero armature d’oro, non come le tutine kurumadiane a volte giallo sabbia a volte arancioni; qui l’oro pare veramente oro e scintilla in quanto tale. Come scintillano le personalità dei relativi gold saint, o almeno quelle di due fra i tre presentati in battaglia.
Albafica dei Pesci e Asmita della Vergine rappresentano i due apici del <b>Lost Canvas</b> e nella loro glorificazione si concretizza la fascinazione dello status di cavalieri d’oro. Le loro personalità sono venate da inquietudini e da dubbi; il loro essere, complesso e, nel caso di Asmita, ambiguo, sfugge ai <i>topoi</i> presenti nelle serie precedenti. Inoltre, nel suo manifestarsi come un vero e proprio profeta, come un santo portavoce di destini e di miti, rivelatore e indagatore della verità sugli enigmi del tempo e del senso delle cose, Asmita della Vergine raggiunge una caratura senza eguali ed è forse il più grande personaggio mai apparso nell’universo <i>Saint Seiya</i>.

Peccato che, subito dopo, la parabola del <b>Lost Canvas</b> precipiti fino a valori negativi di y. La semi-imbecillità del Toro, che sfodera i suoi colpi vincenti soltanto dopo avere subito passivamente un pestaggio a sangue dopo l’altro, si accompagna alle consuete storie lagnose su orfani, maestri protettori e quant’altro.
Purtroppo torna pure, a suon di trombe e con la sua solita spavalderia come codazzo, un Tenma di Pegasus che era stato messo, per fortuna, ai margini dopo i primi episodi.
Va bene, il bronzino del cavallo pennuto non sarà insopportabile quanto il burino Seiya suo successore, e gli concedo pure una maggiore sensatezza all’interno dell’articolazione della narrazione; però Tenma si perde nella sua irruenza sconclusionata che lo rende ridicolo e nulla più.
La sua crescita deve ancora pervenire, come l’utilità della nuova Atena, seppure quest’ultima, va detto a suo onore, pare meno passiva, per usare un eufemismo, rispetto a Saori. Migliore è la riuscita di Aron-Hades, ben eviscerato nella sua evoluzione quale dio dei morti.

Quanto esposto sopra si somma a un problema di fondo altrettanto grave: il tornello alla direzione degli episodi. Le diverse mani che hanno preso parte alla regia dell’anime non hanno tutte perizie equipollenti; le migliori sono quelle di <i>Yosuyuki Honda</i> e di <i>Yuji Himaki</i> e gli episodi sotto la loro supervisione, scanditi da ritmi ponderati e da azioni pesate, guarda caso sono il sesto e il settimo. Gli altri vengono contrassegnati da eventi a cascata e da una totale disorganizzazione tempistica. Così la serie finisce schiacciata sotto il rullo della sua trama, dopo l’impennata centrale che aveva generato aspettative mal riposte.
Tra l’altro il comparto video-musicale è altalenante e disomogeneo. Cali grafici, sfondi scialbi e ripetitivi, animazione buona ma non eclatante e a volte leziosa, insieme alle musiche a tratti carine a tratti sottotono, completano il quadro di 13 OAV che, escluse le note di merito già illustrate, hanno offerto molto poco.

Bucando l’acqua anziché lo schermo, il <b>Lost Canvas</b> non è tanto un’occasione mancata – <i>Saint Seiya</i> non ha più niente da dire, se mai ha proferito qualche discorso – quanto un passatempo mal riuscito. Non sconvolgente già in partenza, visto che si sa in anticipo come tutto andrà a finire, l’ultimo prodotto animato di un franchise ormai stantio, o almeno sterile, fallisce anche nei modi del racconto e nella messa in scena.
I suoi assi, comunque presenti e di tutto rispetto, lo si deve ammettere, non bastano a compensare la pochezza espressiva e soprattutto la tecnica dilettantesca e confusionaria con le quali è stata visualizzata una <i>diegesis</i> già scontata di suo.