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Un'opera narrativa nasce sempre con un intento preciso. Se nell'atto di recensire è lecito - e forse doveroso - contemplare innanzitutto il modo in cui un'opera ponga sé stessa nei confronti del pubblico, non meno lecito - e non meno doveroso - sarà tuttavia chiedersi se tale modo di porsi abbia effettivamente un effetto positivo.
Va da sé che opere come Re:Zero -Starting Life in Another World-[1], facenti del proprio muro portante la narrazione, più comunemente (e impropriamente) definita "storia", trovino il proprio scopo principale nell'intrattenimento: può tuttavia quest'ultimo essere privato di una logica d'insieme? In taluni casi forse sì; ma sarebbe un netto controsenso in un'opera che, come questa, all'intrattenimento affianca e ostenta grandi ambizioni narrative.

Ennesimo prolungamento della moda fantasy riscoperta dall'animazione giapponese alcuni anni or sono, Re:Zero prende il via quando il protagonista, l'adolescente hikikomori Subaru Natsuki, si ritrova improvvisamente calato - in tuta da ginnastica - all'interno di una sorta di mondo alternativo che riporta alla mente gli stilemi classici della narrativa fantasy. Risulta lapalissiano fin dai primi minuti come Subaru, a dispetto della sua iniziale euforia nel trovarsi d'innanzi a sfide fino ad ora affrontate tutt'al più nei videogame, non abbia capacità particolari; il giovane non è dotato di alcun potere speciale né tantomeno di una forza fisica fuori dal comune, essendo al contrario debole e mediocre, pur nella sua presunzione di volere a tutti i costi atteggiarsi a eroe. Costretto a combattere per sopravvivere, Subaru arriva ben presto a rendersi conto dell'unica "abilità" che quella realtà gli offre nell'affrontare i suoi pericoli: i potenzialmente infiniti tentativi.

Pur non essendo direttamente esplicitato, l'idea che sta alla base del soggetto richiama, per ovvie ragioni, i videogiochi. La maggior peculiarità di Re:Zero è che riprende il concetto di respawn, ovvero in gergo videoludico la "rinascita" del proprio alter ego a seguito della sua uccisione, facendolo proprio e sfruttandolo in modo originale. Da questo semplice soggetto e soprattutto dalla condizione di disinformazione in cui versano, parimenti, protagonista e spettatore, gli autori tracciano le basi per lo sviluppo di una trama che - almeno alle prime battute - lasciava intravedere discrete potenzialità; la critica d'altro canto s'è subito lasciata andare a elogi ben oltre le previsioni degli stessi autori. E il motivo d'una tale deflagrazione di proselitismo è a mio parere riconducibile a tre principali espedienti sapientemente (o astutamente) combinati tra loro, che tuttavia a lungo andare si ritorcono contro alla stessa sceneggiatura, annegandola in un mare di mediocrità, forzature e incompletezza.

I. Il mistery
Seppur il contesto sia quello fantasy, la serie è a pieno titolo ascrivibile al genere mistery. Essendo Re:Zero un racconto a focalizzazione totalmente interna, la nostra percezione del riavvolgimento temporale, della vastità del mondo e delle trame ivi intessute sarà pari a quella del suo protagonista, a partire dall'estraneità con cui quest'ultimo in principio prende le vicende. Com'è sopraggiunto Subaru in quel mondo? Perché gli è possibile "ripartire" dopo la morte? Cosa c'entra in tutto ciò una misteriosa "Strega dell'Invidia"? La nostra comprensione degli eventi, dei meccanismi che regolano lo smisurato world building e del bizzarro comportamento dei suoi abitanti procede a braccetto con quella acquisita faticosamente da Subaru, favorendo la creazione durante i momenti climatici di uno stato di suspense di rara intensità.
Espediente in potenza più che azzeccato, ma che agli atti va rovinosamente in frantumi a causa di uno sviluppo quanto mai lacunoso. Non v'è infatti quasi alcuna spiegazione ai dubbi ammucchiati per tutta la durata dell'opera, che conseguentemente fungono da meri incubatori di colpi di scena e altri escamotage "spaccamascella", in un contesto narrativo che fatica terribilmente a ingranare. Re:Zero è una serie che pone le domande ma non dà le risposte, e di fatto il mistery altro non diviene che un elemento di facciata, uno specchio per allodole che riflette l'attenzione dello spettatore più affrettato al fine di nascondere la scarsa consistenza del prodotto.

II. La costruzione narrativa
Non mi dilungherò ad analizzare ogni singolo arco narrativo dell'opera, giacché il giudizio sintetico ne verrebbe meno; ma se osserviamo la serie da un'ottica esterna non sfuggono punti comuni e - tristemente - abusati a più riprese. È con una spossante lentezza che l'anime procede: fioriscono intere puntate farcite di nulla, i tempi morti non si contano e il più estenuante vaniloquio di tutti i teatranti domina gran parte del minutaggio di ogni episodio; ma puntualmente, quando il tempo è agli sgoccioli, lo sceneggiatore[2] tenta forzatamente di riconquistare l'attenzione del pubblico concentrando tutti gli accadimenti importanti negli istanti finali e facendo dell'abuso dei cliffhanger, più volte incastrati senza la minima cognizione di causa, la propria cifra stilistica. Un canovaccio che, a lungo andare, palesa tutti i limiti espositivi di un'opera decisamente troppo circoscritta - o forse troppo ambiziosa.
Il non voler prendere posizioni è infatti la caratteristica più emblematica di una serie che mira a essere tutto e al contempo nulla, priva di coraggio e più volte asservita alla logica del mercato e dei facili guadagni. Logica che si può facilmente scorgere anche nei toni dell'anime, che con l'incedere degli episodi si fanno sempre più forti e disturbanti: la "violenza" di per sé non è sinonimo di "maturità", ma questo semplice assunto pare non sia stato recepito dagli autori - così come da parte degli spettatori. E in tal modo la serie per venticinque episodi si districa tra torture, gente smembrata, backstories strappalacrime e villain talmente esasperati nella loro follia da risultare grotteschi (se non addirittura ridicoli): un inutile circo, che in più di un'occasione m'ha fatto storcere il naso d'innanzi alla sua inspiegabile presunzione di prendersi a tutti i costi sul serio.
Ultimo fattore che inficia la qualità della sceneggiatura è un cast formato da personaggi tremendamente monodimensionali - prima tra tutti la dolce Emilia, che per l'intera durata dell'opera non sarà niente più che la personale "donna angelo" del protagonista - dei quali nella maggior parte dei casi non ci sarà dato sapere nulla in merito al passato o alla sfera personale. E questo solo quando non si sfocia direttamente nelle palesi esche per otaku, perfettamente incarnate dalle due (adorabili) cameriere demoniache Rem e Ram, che nonostante l'indubbia importanza paiono create ad hoc per favorire la vendita di cuscini; o volendo proprio sparare sulla croce rossa, emblematico è il guaritore trappino Felix, la cui unica utilità sarà quella di alimentare le doujinshi yaoi.

III. Subaru Natsuki
Ma restando in tema di personaggi, il punto focale dell'opera nonché - come precedentemente affermato - unico centro attorno a cui gravita tutto il resto è, d'altronde, Subaru. Incastonato dalla communis opinio nell'olimpo dei personaggi più realistici della storia (cit.), Subaru rappresenta a mio avviso uno dei più significativi fallimenti dell'opera: la sua natura fortemente volubile ed egoista ha spaccato letteralmente in due il fandom, divisosi tra coloro che ne apprezzavano la caratterizzazione pregna di difetti e coloro che, per via della suddetta, ne odiavano il comportamento becero. Diatriba, quest'ultima, che non m'ha neanche lontanamente toccato, in quanto ritengo che il problema stia proprio a monte.
Subaru è un personaggio-marionetta - diciamocelo - di rara artificiosità, manovrato da uno sceneggiatore evidentemente incurante della sua coerenza psicologica, in favore di un ben più spettacolare "effetto shock": i suoi cambi di personalità totalmente arbitrari definiranno lo stesso plot device in un contesto volutamente eccessivo ed enfatizzato, ma in tal guisa più che mai forzato in ogni sua parte.
Facile attribuire la sua sporadica infermità mentale, i suoi tediosi scatti di autocommiserazione (emblematico a tal proposito lo stucchevole episodio 18) e la sua natura inspiegabilmente instabile al trauma delle morti e soprattutto al suo status di hikikomori, quando nulla ci è dato sapere in merito ai suoi trascorsi; ciò lo rende un'incognita in aeternum in balia di un'involuzione continua ma mai giustificata.

Tutto ciò che resta sono orpelli, labili tentativi di imbastire un discorso più ampio messi a discrezione di un adattamento assai troppo annacquato - a partire dalle pretese di decostruzione del genere, subito accantonate, per arrivare al substrato tematico mai sviluppato pur di favorire gli elementi di facile attrazione moe.
Perché questo è in fin dei conti Re:Zero: stordire lo spettatore a raffiche di cliffhanger e violenza (gratuita), drammoni e disperazione, allo scopo di (mal)celare la pochezza di fondo nonché millantare una maturità che non gli appartiene neanche nei momenti più alti.

Se leviamo il gore, i morti ammazzati, i piagnistei e i colpi di scena ficcati a forza tra le sottilissime pieghe della trama, cosa permane? Non di certo la coerenza narrativa - più volte asservita al compiacimento immediato e ignorante dello spettatore; non la profondità psicologica dei personaggi - per la maggior parte otaku-bait stereotipati e di furbo utilizzo; non lo spessore del racconto di formazione - essendo soffocato da un protagonista vittima di un'inspiegabile involuzione che lo affligge per tre quarti di serie; non la ricercatezza contenutistica - che come precedentemente esplicitato si limita alla ricerca di espedienti volutamente disturbanti e overdrama, per far breccia nel pubblico più sensibile; forse solo un comparto grafico discretamente curato e una colonna sonora dalle sonorità sinfoniche di gran imponenza, per magnificare la carica emotiva dei momenti più intensi - e ahimè, anche qui si torna al discorso iniziale.
Cosa permane dunque di Re:Zero? Una premessa interessante, qualche ora di vuoto intrattenimento e tanta, troppa frustrazione nel trovarsi di fronte all'ennesimo finale monco, che - oltre a lasciare in sospeso tutti i misteri su cui la trama si fonda - lo rende al più una (se non altro ben riuscita) pubblicità alla serie di romanzi da cui è tratto.
E dunque, basta ciò per fare di esso una buona opera?

Note:
[1]: d'ora in poi, per ovvie ragioni, semplicemente "Re:Zero".
[2]: demerito quest'ultimo che potrebbe essere attribuito all'autore dei romanzi, essendo l'anime tratto da una light novel a sua volta riadattata da una web novel amatoriale; ma, non avendo letto l'opera originale e non essendo minimamente intenzionato a farlo, mi baso unicamente sulla struttura dell'adattamento.