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4.0/10
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Oggi, come ieri, è sempre difficile trattare temi complessi e sofisticati in animazione. Se non si calibrano e pesano con molte precauzioni i modi in cui vengono sviscerati determinati argomenti, magari delle idee socio-politiche geniali, volendo animate dalle migliori intenzioni, si rischia, tra fanservice, stucchevolezza e surrealismo digitalizzato, di sfociare palesemente nel ridicolo. Perché <i>Harmony</i>, nonostante tutte le sue buone premesse e il suo – diciamo stridente? – atteggiarsi a capolavoro, a parer mio è quantomeno imbarazzante. Si sa che il regista – assieme al <i>gaijin</i> Michael Arias - è Takashi Nakamura, che i più esperti sanno ricollegare all'epocale <i>Akira</i> di Katsuhiro Otomo (direttore dell'animazione) e alla bella serie televisiva <i>Fantastic Children</i> (regista e creatore originale); si sa che le protagoniste sono avvenenti, che c'è un po' di <i]>yuri</i> e che quindi lo spettatore maschile (e non solo) può sentirsi appagato già soltanto per questo motivo. E il <i>mood</i> serioso, i toni filosofici, l'inadeguatezza del sociale... la società utopistica à la <i>Psycho Pass</i>, con i potenti conformisti che controllano tutto, un po' di <i>splatter</i>, di nanotecnologia e numerosi altri <i>topoi</i> ormai triti e ritriti buttati lì a caso soltanto per far figo. La ragazzetta irritante sodomizzata da piccola, la rossa tutta scazzata che le sbava dietro perché in passato, quando portava l'uniforme scolastica con la minigonna e le autoreggenti, era tanto bella, misteriosa e intelligente, con quel sorrisetto malizioso e quell'aria da so tutto io. Ma no. E' il <i>modo</i> ad essere sbagliato. E' la finzione che non riesce a diventare un buon catalizzatore di tematiche appartenenti alla realtà, diventando, con tutti i suoi fronzoli, assolutamente fine a sé stessa. Una roba <i>otaku</i>, insomma. Proprio come la società che l'ha concepita.

Le ambientazioni sono post-apocalittiche, gli edifici sono per la maggior parte rosa. Rosa e bianco, in un alternarsi pulito e asettico che quasi dà la nausea (effetto forse voluto, ma il rosa che ci sta a fare lì dentro?). Il <i>cell shading</i>, la protagonista (la rossa) imbronciata che va a fare le sue missioni in giro all'estero, tipo contrabbandare vino con arabi seduti su futuristici cammelli (non sto scherzando). I ricordi della giovinezza, il primo amore per la fanciulla di cui sopra. E la salute delle persone viene regolata da chi comanda, non scordiamocelo, e la crescita viene bloccata, chiara metafora che rimanda ai discorsi di Takashi Murakami sullo stato di congelamento nell'adolescenza in cui si trovano i giapponesi, con i loro cervelli bruciati dall'abuso di tecnologia e dal modello consumistico d'importazione yankee (cosa che riguarda pure noi, non pensate di salvarvi voi che leggete dal vostro smartphone). E poi ci sono i suicidi, in particolare i bambini che si suicidano, i suicidi volontari perché la società è troppo finta e i suicidi controllati dalla tizia X che si fonde nel sistema Y per fare la terrorista, cosa prevedibile sin dalle prime fasi della sceneggiatura, sonnolenta e confusionaria come poche. Ma in sostanza la rossa viaggia, si strugge in pesantissimi monologhi che pure loro - almeno in teoria – fanno molto figo, dopodiché ritorna in Giappone e incontra tanti personaggi piatti e noiosi come lei che la sommergono d'informazioni. Ma i dialoghi sono mediocri e gli eventi procedono lentamente, sino alla rivelazione di ovvietà senza che vi sia alcun pathos nel veder realizzate le proprie previsioni. Il finale è concettualmente interessante, ma reso malissimo da regia e sceneggiatura.

Il Grande Fratello ti vede, e controlla pure il tuo metabolismo. Perbacco. Ma c'è veramente poco di orwelliano in <i>Harmony</i>, per non parlare di quel suo alone <i>intellettualoide</i> che cerca a malapena di imitare i veri anime <i>intellettualoidi</i> – ma con stile - della seconda metà degli anni novanta e dei primi anni duemila. Insomma, tutte le cose che <i>Harmony</i> cerca di dire con molta presunzione e autocompiacimento, con i suoi personaggi-sogliola vestiti in modo ridicolo, i temi pesanti affrontati nel peggiore dei modi, lo splatter irritante e il fanservice plastico-siliconico-digitalizzato ancor più irritante del suddetto, erano già state dette prima. Per fare della filosofia sulla natura umana in salsa rosa-yuri bastava Ikuhara, bastava <i>Utena</i>. Non c'è bisogno di scomodare la grande fantascienza mistico-apocalittica-cyberpunk-distopica o un trattato psico-sociologico di Erich Fromm o Ivan Illich svuotandoli della loro profondità e grandezza, compiendo il crimine di renderli simulacri e di infarcire tale residuo senz'anima con ammorbanti pseudo-pipponi adolescenziali la cui vera sostanza è l'egoismo e la confusione di un'età che invero non è più possibile riprodurre da adulti, perché biologicamente tutto scorre, tutto passa e pure il sistema, con tutti i suoi lati negativi e le sue trappole mediatiche dannose per l'individuo, non si può cambiare né con l'amore né con l'odio, ma soltanto con la consapevolezza della sua malattia. L'autoreferenzialità dell'adolescenza è anche l'autoreferenzialità dalla quale non si smarca questo <i>Harmony</i>, sebbene sulla carta sia una roba di nicchia, una roba per pochi eletti che magari hanno voglia di “filosofeggiare” mentre guardano una coscia in primo piano ben coadiuvata da una calza autoreggente o una schizzata vestita da fatina che vuole decidere per tutti cosa è meglio fare della propria vita, perché lei – poverina - ha avuto un'infanzia difficile. Per chi scrive, meno cliché e più realtà (e anche meno rosa) avrebbero fatto bene a questo <i>Harmony</i>, che, così come si presenta, lascia dietro di sé soltanto il nulla.