logo GamerClick.it

-

“Il passato è come una lampada posta all’ingresso del futuro.”

Uscito nelle sale giapponesi nel 2011, “La collina dei papaveri” è la seconda pellicola diretta da Goro Miyazaki, figlio del più celebre Hayao, considerato da molti uno dei più celebri registi d'animazione giapponese di tutti i tempi. Cinque anni dopo il “fallimento” de “I racconti di Terramare”, di cui non ho ancora preso visione, il regista si riaffaccia sul mondo cinematografico, questa volta in collaborazione con il padre, mostrando una regia matura e assolutamente non estranea agli insegnamenti del sensei. Inquadrature eccezionali, animazioni sublimi e musiche stupende. Il tutto posto a cornice di una storia, come al solito, semplice ed efficace.

Giappone, 1963. È passato oltre un decennio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che aveva portato devastazione in tutto il mondo, specialmente nel Paese del Sol Levante. Gli anni Sessanta, in particolar modo, sono quelli in cui giunge a maturazione la baby boom generation, la generazione nata e cresciuta nel benessere economico degli anni post-bellici e con lo spettro costante della bomba atomica, che lotta contro i valori tradizionali della famiglia e della società e nel ’68 si fa protagonista delle rivolte studentesche che investirono, seppur in modo differente, il mondo intero. E in questo quadro storico, fu proprio il Giappone a svolgere un ruolo fondamentale. Da una parte, sotto la guida del governo di occupazione americano, si fece protagonista di quello che da molti economisti del tempo fu definito un autentico ’miracolo economico’, tale da far registrare una crescita economica senza pari rispetto agli altri Paesi del mondo. Allo stesso tempo, gli studenti giapponesi, riuniti nel movimento del Zenkyoto, parteciparono attivamente alle rivolte di quegli anni. In questo contesto storico e accompagnata da “Sunrise - The Breakfast Song”, ecco che ci viene introdotta la nostra storia, che ha come protagonista Umi Komatsuzaki, una studentessa risiedente nella città portuale di Yokohama. La scuola da lei frequentata è, da qualche tempo, in fermento per le accese discussioni che si scatenano circa la necessità di salvare o meno dalla demolizione il "Quartier Latin", un edificio adibito a sede dei club scolastici, carico di storia e di ricordi ma ormai vecchio e fatiscente. In quello che da molti viene definito come un “Nuovo Giappone”, non c’è spazio per il vecchio edificio, ma non tutti la pensano allo stesso modo. Ecco, quindi, che inizia da parte degli studenti la protesta per salvare l’edificio. E, proprio in questo clima, Umi fa la conoscenza di Shun, il ragazzo di cui poi si innamorerà e a cui sembra essere legata dal destino.

Come nelle più belle e indimenticabili delle pellicole Ghibli, a trovare ampio spazio è il tema dell’amore, in particolar modo quello adolescenziale. Un amore ingenuo, difficile e, a tratti, controverso, sbocciato all’insegna della primavera; che vede i due protagonisti avvicinarsi, per poi subire un brusco allontanamento proprio nel momento in cui le cose sembrano andare per il verso giusto. Questo perché, ben presto, i due vengono a conoscenza di un segreto legato al loro passato e a quello dei rispettivi genitori. Dall’amore, si passa dunque al mistero, altro evergreen dello studio Ghibli che, almeno in questa pellicola, non sfocia nel sovrannaturale. Amore e mistero si mescolano, dunque, in questa storia non particolarmente originale, ma che riesce a colpire per il modo dolce in cui viene raccontata e che assume un volto diverso se collocata al centro di un quadro più grande, la cui cornice è sicuramente rappresentata dalla protesta studentesca per il salvataggio del ‘Quartier Latin’. Ed è proprio intorno a questa situazione che, a mio modesto avviso, si snoda il tema più importante di tutta l’opera: la necessità di preservare il passato e la sua cultura. Un tema significativo se si pensa che quelli sono gli anni del cambiamento, dell’innovazione, dell’abbandonare il vecchio per fare spazio al nuovo. In questa visione, però, non deve essere assolutamente inclusa la cultura, da quella scientifica a quella umanistica, fonte inesauribile di modelli esemplari da seguire e altrettanti riprovevoli da ripudiare, un po’ come accade con la storia. D’altronde conoscere il passato è fondamentale per evitare gli stessi errori commessi da chi ci ha preceduto e credo, senza troppa presunzione, che questa sia una lezione molto cara ai Giapponesi.

Le animazioni sono spettacolari come sempre e la regia di Goro riesce, nonostante l’impossibile paragone con il padre, a farsi onore. Stupendi i fondali, in cui dominano due colori vivaci come il blu del mare e il verde della selva, simboli della primavera e dell’amore. Non mancano, inoltre, riferimenti a pellicole precedenti targate Hayao Miyazaki, tra cui “I sospiri del mio cuore”, con cui “La collina dei papaveri” condivide l’amore per la cultura, e “Il mio vicino Totoro”, di cui si possono notare i continui riferimenti sparsi per tutta la pellicola. Infine, sublimi le musiche di Satoshi Takebe, in cui dominano il pianoforte e gli strumenti a fiato e la canzone “Sukiyaki” di Kyu Sakamoto, che fa da colonna sonora al film.

Non la migliore delle opere Ghibli, ma sicuramente un prodotto ben riuscito, il cui merito va in gran parte a Goro Miyazaki. Provare per credere.