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«L’idea della storia sul “prendere in prestito” è intrigante e perfettamente attuale. L’era del consumo di massa sta per concludersi, perché viviamo in una brutta crisi economica e la possibilità di “prendere in prestito” invece che comprare ciò che ci serve indica la direzione verso cui il mondo si sta avviando».

Circa quarant’anni fa Miyazaki e Takahata scrissero l’adattamento di “The Borrowers”, un film del 1997 diretto da Peter Hewitt e tratto dagli omonimi racconti per ragazzi di Mary Norton. Il progetto ideato dai due fondatori dello Studio Ghibli, però, finì ben presto nel dimenticatoio, fino a quando il sensei Miyazaki decise di riprenderlo finalmente in mano nel 2008, quasi trent’anni dopo, per farci un film d’animazione e, probabilmente, tenere cara la memoria degli anni giovanili trascorsi con il suo amico e collega Takahata. Il produttore del lungometraggio sarebbe stato Toshio Suzuki, terzo dei tre fondatori dello Studio Ghibli, ma le cose, almeno nei primi tempi, non filarono lisce. All’epoca, Suzuki aveva in mente un film diverso da quello che si immaginava il sensei e, per questo, le discussioni si protrassero a lungo. Alla fine, come potete ben immaginare, fu Miyazaki ad avere l’ultima parola. Il film si sarebbe fatto e come lo voleva lui. Pertanto, consigliò a Suzuki di leggere i racconti di Mary Norton, in modo da fissare bene quelli che sarebbero stati i punti focali del film. Terminata la lettura, Suzuki fece una domanda molto precisa a Miyazaki: «Ma perché “The Borrowers” proprio ora?». Il sensei rispose come sopra riportato, anticipando, di ben quindici anni, la deriva verso cui il mondo consumistico-capitalistico si sarebbe e si è ormai inesorabilmente avviato.

Sotto il pavimento di una grande casa situata in un magico e rigoglioso giardino alla periferia di Tokyo, vive Arrietty, una minuscola ragazza di quattordici anni, con i suoi altrettanto minuscoli genitori. La casa è abitata da due vecchiette, che naturalmente ignorano la presenza di questa famiglia in miniatura. Tutto ciò che Arrietty e la sua famiglia possiedono lo “prendono in prestito”: strumenti essenziali come la cucina a gas, l’acqua e il cibo; e ancora tavoli, sedie, utensili, o prelibatezze come le zollette di zucchero. Tutto viene preso in piccolissime quantità, così che le padrone di casa non se ne accorgano. Un giorno Sho, un ragazzo di dodici anni che deve sottoporsi a urgenti cure mediche in città, si trasferisce nella casa delle vecchiette. I genitori di Arrietty le hanno sempre raccomandato di non farsi vedere dagli umani, poiché, una volta visti, i piccoli abitanti devono lasciare il luogo in cui sono stati scoperti e cercarsi una nuova dimora. L’avventurosa ragazzina, però, non li ascolta, e Sho si accorge della sua presenza. I due ragazzi iniziano a confidarsi l’uno con l’altra e, seppur nella diversità, nasce un’amicizia destinata a rimanere impressa a fondo nei cuori dei due giovani.

Potrà suonare strano all’orecchio di molti, ma ritengo che “Arrietty” sia, concettualmente parlando, uno dei migliori Ghibli in assoluto. Probabilmente sarò strano io, ma nella mia vita non avevo mai visto un film del genere, che parlasse di uomini in miniatura, abitanti di un mondo segreto, collocato esattamente sotto il pavimento che calpestiamo quotidianamente. Il mio cervello non aveva mai neanche lontanamente fantasticato una cosa del genere, e questo deve aver sicuramente generato in me un effetto sorpresa maggiore del previsto. Non che io mi ritenga un genio, sia chiaro, ma sono sempre stato un ragazzo a cui piace volare con la fantasia e di storielle strane nella mia mente ne ho inventate parecchie, ma come questa mai. Come in diverse delle sue pellicole precedenti, dunque, Miyazaki riesce a stupire facendo leva sulla componente fantasy, grande leitmotiv dei lungometraggi Ghibli. Eppure, come spesso accade, il fantastico è un mero espediente, usato dal sensei, per raccontare qualcosa di più, una storia più profonda. Nei due diversi modi, quello di Sho e quello della vecchia Haru, una delle signore che abitano la casa immersa nel verde, di interfacciarsi con i prendimprestito, si legge l’intrigante e ambigua storia della società moderna. Sho e Haru sono due facce della stessa medaglia, così vicine fra di loro, eppure così incredibilmente distanti. La vecchia Haru è diffidente nei confronti di quelli che lei chiama gnomi e, infatti, alla prima opportunità, ne cattura uno, come se fosse un qualsivoglia cimelio di guerra. Nell’immediato, il suo volto crudele sembra trasmettere odio, quando, invece, si tratta di semplice paura mista a ignoranza, nel senso, per dirla alla Aldo, Giovanni e Giacomo, che ignora chi siano e cosa facciano questi uomini in miniatura. Dunque, davanti al diverso, agisce come molti di noi farebbero, e anzi fanno, mettendosi sulla difensiva, come se una guerra fosse pronta a divampare da un momento all’altro. Il giovane Sho, invece, appare più coscienzioso e, come tutti i ragazzi della sua età, curioso. È la curiosità a spingerlo verso nuovi orizzonti e a voler sapere di più su coloro che abitano il mondo segreto sotto il pavimento. Nella sua genuinità fanciullesca, Sho si dimostra aperto verso questa specie che non conosce e finisce per fare amicizia con una di loro, la bella Arrietty. Seppur nella diversità, nasce un’amicizia inaspettata per entrambi, destinata a infrangersi con la lontananza, ma di cui i due giovani porteranno sempre un vivido ricordo nel loro cuore. È vedendo film del genere, quindi, quasi tutti quelli di Miyazaki, che penso a quanto il mondo sia sbagliato e quanto poco basterebbe per cambiarlo. E non mi riferisco a grandi gesta o azioni plateali, quelle le lascio volentieri ai supereroi. Nella quotidianità, mi accontento di regalare un sorriso a uno sconosciuto o, più semplicemente, offrire in prestito una zolletta di zucchero a chi ne ha maggiormente bisogno.

Tecnicamente impeccabile, come tutti gli altri film targati Studio Ghibli. Animazioni stupende e cura maniacale per ogni dettaglio, anche la più piccola goccia di rugiada, sulla più alta e lontana foglia, di un minuscolo albero sullo sfondo. Perché sì, i dettagli fanno la differenza, eccome se la fanno. Alla regia, Hiromasa Yonebayashi, che, a mio parere, si sarebbe distinto maggiormente con il successivo “Quando c’era Marnie”. Alle musiche, la voce vellutata di Cecile Corbel, che ha impreziosito la versione nostrana del film, cantando in italiano la colonna sonora del film, “Arrietty’s Song”.

In conclusione, “Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento” è un film breve per gli standard dello Studio Ghibli e, probabilmente, anzi sicuramente, di minor impatto emotivo. Nonostante ciò, offre interessanti spunti di riflessione e intrattiene più che egregiamente. Consigliato.